Guardare l’invisibile: il Museo dei Parassiti
È l’unico al mondo. Di quei luoghi che di primo acchito potrebbero piacere o disgustare ma che l’indifferenza non intacca. È il fascino dell’osservare da vicino la natura che tende a camuffarsi, a nascondersi all’occhio che nudo viaggia sulla superficie delle cose, come una barca che fende giusto un metro o due di mare.
È il Museo dei Parassiti (Museo Parassitologico di Meguro) che sorge nel ricco quartiere di Meguro, a sud di Shibuya, dove il prezzo degli appartamenti schizza alle stelle e il fiume che porta il suo nome (Meguro-gawa) lo attraversa. Dalla stazione si va a destra e poi giù giù e su su lungo lo stradone della Meguro-dori che prima scende e poi sale adattandosi al terreno collinoso di questa zona.
Ryosuke me ne parlava da anni ma alle volte mi scopro ad avere resistenze per il solo fatto che la lista dei luoghi che vorrei visitare è sempre molto lunga e che Tokyo ne contiene di infiniti. Sfruttiamo così la settimana d’oro, la Golden Week, che tutto illumina ed abbaglia. È il tempo generoso di occasioni, quello che a farsi sfruttare non si sciupa ma anzi acquista di spessore.
È uno di quei luoghi che insegnano una verità tanto banale che però all’uomo, che di tutte le creature è la più presuntuosa e certa dei suoi mezzi, sembra spesso sfuggire. Cioè che esiste anche ciò che non si vede. O meglio, ciò che egli non vede.
Ma i musei sono fatti per mostrare e allora anche ciò che non è visibile manifesta la propria presenza.
Galleggiano nel blu cobalto parassiti dalle forme più diverse. Dietro a lastre trasparenti s’allunga un Diphyllobothrium nihonkaiense, un parassita di 8.8 metri che s’introduce nell’organismo umano attraverso le carni crude della trota. Vi è un topolino dalle viscere esposte che nella sua dettagliata evidenza fa stringere per un attimo il cuore. E’ l’Echinoccos multilocularis che prospera nell’Hokkaido (foto 4).
Vi sono tanti pesci. Una testa di tartaruga (vissuta e deceduta naturalmente in un parco acquatico) dalle palpebre polverose. È il parassita Ozobranchus che si attacca intorno agli occhi o sulle zampe (foto 5).
Poi vi è l’intestino di uno scoiattolo volante e il cuore di un cagnetto pieno del micidiale parassita Dirofilaria immitis, malattia letale conosciuta da chiunque ne accudisca uno.
Ecco dove si nascondono i parassiti che poi noi chiamiamo malattie e che danzano nella vita come tutte le altre creature. Nutrendosi degli animali all’interno dei quali si sviluppano, secondo un ciclo che fa il giro completo o inizia e si ferma ad altre, precedenti fasi.
Alla vita risponde la vita ma anche la morte. Alla morte risponde la morte ma anche la vita. Così che non c’è creatura innecessaria a questo mondo, insetto che possa essere ucciso o animale la cui estinzione possa essere ignorata. Anche organismi tanto osteggiati come i parassiti hanno una loro complessa bellezza, una loro funzione, un loro fascino occulto.
Al primo piano – che in Giappone è il secondo – una stanzetta custodisce una scatola di legno, contenitore di migliaia di vetrini (foto 7). La vita vi scivola in mezzo e due dita la schiacciano all’interno.
Ve ne sono 45,000 custoditi nel museo, campioni catalogati e pronti, lì dove ve ne sia la necessità, ad essere nuovamente osservati, analizzati.
Il dott. Satoru Kamegai istituì con fondi privati il “Meguro Parasitological Museum” nel 1953 e molte istituzioni accademiche contribuirono e tutt’oggi contribuiscono al lavoro di ricerca che si continua a portare avanti. Sempre al primo piano sono custoditi i volumi scritti a mano dal prof. Sachu Yamaguchi, pagine assolutamente affascinanti per chi si interessi di disegno (foto 3). I suoi studi vertono soprattutto sui parassiti dei pesci dell’Indonesia e delle Hawai e su quelli che abitano gli animali selvatici del Giappone.
Sono sempre stata affascinata dai campionari, dalla catalogazione delle cose. Dall’uno che si fa rappresentante di tutti gli altri. È un po’ quel che accade in molti dei libri di Ogawa Yoko che, sotto a teche di vetro, in boccette, in musei bizzarri, cassetti etc., infila l’impensato e ne fa oggetto di passione raffinata e pur morbosa, collezione atipica di personalissime delizie.
Vi è una lunga lista di luoghi a Tokyo il cui accesso è del tutto gratuito. Il Museo dei Parassiti è uno di questi, divenuto crescentemente noto per un passaparola tra turisti locali e internazionali e grazie ad articoli mirati pubblicati su riviste e giornali.
Come tutti i luoghi gestiti e curati da volontari, va però protetto. Pertanto, benchè non sia in alcun modo obbligatorio, è bene lasciare un’offerta all’ingresso, subito a destra nel contenitore apposito oppure al primo piano all’angolo degli omiyage.
E per raccapezzarsi tra i pannelli e le spiegazioni che spesso sono solo in giapponese il mio consiglio è di salire subito al primo piano, acquistare la piccola guida in inglese (tutta illustrata e a colori) e poi riscendere per cominciare il tour. Il tour nell’invisibile.
Fa paura solo quello che non si conosce. A studiare le cose invece scatta fascino e bellezza e il ribrezzo diviene sensazione priva sia di ragione che di sentimento.
Mi tornano d’un tratto in mente gli esperimenti in laboratorio al liceo, in quell’aula allungata dai colori pastello in cui con pigrizia apprendevo la magia della biologia. Mancò passione nel mio apprendimento e dovette difettarne anche l’insegnamento della mia professoressa.
Ma nella vita c’è sempre il tempo per recuperare, basta che se ce lo si conceda.
♪ Beth Gibbons, “L’Anulaire” (colonna sonora del film francese omonimo tratto dal libro di Ogawa Yoko “L’anulare”)
Il sito web del museo in inglese → QUI
Altre info in italiano → QUI