«La solitudine del corpo a Tokyo non esiste»
Dalla bella pagina di Ho un Libro in Testa, l’intervista che mi ha fatto Francesco Musolino.
«L’incontro, il primo incontro con Laura Imai Messina, è avvenuto alla libreria Mondadori di Messina. Dovevo presentare il suo libro ma, lo confesso, non mi aspettavo quella folla di fans – ragazze e ragazzi – che ad attenderla con abbondante anticipo sull’orario di inizio previsto. Quella presentazione è stata una delle poche cominciate, non in orario, ma persino in anticipo.
La sala, del resto, era già piena. Prima di lasciarvi alle mie domande ma soprattutto alle sue risposte vorrei introdurre la scrittrice, ovvero Laura Imai Messina, autrice del romanzo “Tokyo Orizzontale” (edito da Piemme) e creatrice, nel 2011, del blog di successo, GiapponeMonAmour. Già perché Laura oggi vive a Tokyo, nel piccolo quartiere di Kichijōji, con suo marito Ryōsuke e la cagnolina Gigia e il suo blog è ormai una quotidiana finestra sul Sol Levante, tanto sugli aspetti nobili della cultura nipponica che su quelli più semplici.
Eppure la storia d’amore fra Laura e il Giappone è iniziata – in modo controverso e senza segnali premonitori – improvvisamente a ventun’anni: «Non sapevo chi fosse Doraemon, a scuola fingevo di comprendere battute, di ridere di tormentoni che conoscevano solo i miei compagni. Ho incontrato il Giappone a ventuno anni, senza alcun vero immaginario o background culturale a sostenermi. A rapirmi è stata invece la scrittura giapponese». Un amore sbocciato anche per via di una fatale attrazione non per ciò che è diverso ma per le cose complicate «perché hanno in sé il sapore della sfida, temprano, educano alla pazienza e alla costanza che non ho, promettono vittoria».
Leggendo il suo libro scopriamo aspetti di una cultura così lontana e diversa eppure complementare alla nostra e del resto se continuiamo a guardare ad Oriente come antidoto alla nostra fretta, come terra della bellezza, un motivo deve pur esserci. “Tokyo Orizzontale” è la storia di quattro personaggi, nati in momenti e con intenzioni diverse nella mente di Laura Imai Messina, decisa a mettere in pagina la meraviglia ma anche le difficoltà implicite nell’ambientarsi in un mondo nuovo e nella sua scrittura narrativa, ancor più che in quella destinata al suo blog, si avverte il bisogno, la “pulsione fisica”, il bisogno di curarsi con essa.»
Sara Hiroshi Jun e Carmen sono i tuoi protagonisti. Come sono nati?
È nata prima Sara, una mattina di marzo di otto anni fa, nel salone d’una casetta a Tokyo. Lo ricordo perfettamente perchè ero tornata il giorno prima da Nagoya, dove in modo straziante era stata messa la parola fine a quella che, allora, mi sembrava la relazione sentimentale più importante della mia vita. Sara è nata insieme a Carmen, figlie gemelle d’uno stesso parto doloroso. Jun invece è arrivato senza preavviso alcuni anni dopo perchè, nel frattempo, di tipi arroganti e affascinanti come lui ne avevo incontrati molti a Tokyo. Hiroshi, infine, è figlio d’un desiderio, quello della stabilità, di un amore duraturo che mi legasse d’un grado in più a questa terra.
Credo che i personaggi d’un libro prendano inevitabilmente le proprie sembianze. Emergono spontaneamente come fiori di campo, quando si è infine in grado di guardarsi allo specchio, di analizzare parti di sè rimosse o a lungo appesantite dal giudizio, di ripensare ad esperienze che sono sopravvissute nel ricordo. Così i personaggi di fantasia che covano in noi si rivelano una volta che si è compresa a fondo la loro natura reale, il vissuto (proprio) che è rifluito in loro. Allora non ti sfugge (quasi) più nulla, non hai più di che accusarli o di che vergognarti. Li accetti, ti accetti. Sei infine pronto alla scrittura. Sara, Carmen, Jun e tutti gli altri sono nati così.
Il titolo cita un blog, molto seguito e particolare a dire il vero…
Spesso sulla Rete ci si imbatte in scatti che ritraggono donne e (soprattutto) uomini giapponesi, ai lati della strada, sulla banchina di un treno o all’interno di un vagone, nelle posizioni grottesche della sbornia. Basta uscire un venerdì o un sabato sera, magari per le strade di quartieri irrequieti come Shinjuku o Shibuya, per incontrarne a decine e chiedersi, sommessamente, perchè mai ci sia bisogno di ridursi così. Ho immaginato allora la creazione di un blog (inesistente nel reale) che riunisse questi scatti, un gruppo di ragazzi che, con il cinismo tipico dei vent’anni, ne facessero un mezzo di derisione nei confronti del prossimo.
La rete ha spesso questo triste risvolto: elimina i freni inibitori del linguaggio, dà sfogo a quelle passioni che il buonsenso fa di solito tacere, fa del cinismo e della cattiveria uno strumento di piacere. Nella trattazione di questa tematica nel libro ho cercato però anche di evidenziarne un altro aspetto, quello della pietà per chi s’abbandona all’alcool, e quello del disprezzo che, prima o poi, torna come un boomerang al mittente. La vita, in questo, ha a mio parere una sua intrinseca giustizia. Magari in forme differenti, magari dopo anni, ma essa restituisce sempre il maltolto. È vendicativa. Curiosamente, proprio di recente, è nato un progetto chiamato #Nomisugi dal giapponese 飲む (bere) + 過ぎる (eccedere) = bere troppo. La finalità è quella di scoraggiare le sbornie e le scene urbane di cui sopra.
Come spesso accade la realtà supera o rincorre la fantasia. L’idea di Tokyo Orizzontale, quindi, può dirsi estremamente verosimile visto che, in qualche modo, si è nel frattempo realizzata.
Citatissima è la frase “se New York è una mela, Tokyo è un melograno”. Cosa significa?
New York non ha spazio in questo libro. Tokyo se lo prende tutto, con il polpastrello ne porta via le briciole dal piatto, anzi il piatto se lo lecca pure. Se c’è Tokyo, non può esserci che lei. La similitudine con il frutto dell’albero di melograno nasce dalla conformazione fisica della capitale giapponese, dalla sua ampiezza e insieme dalla sua parcellizzazione in quartieri. Tokyo è macro e micro al contempo.
Nella metropoli – e nelle zone limitrofe che le gravitano intorno – abitano circa 36 milioni di persone, ha in sé una efficienza e una velocità rare, il ritmo sostenuto di un organismo che fa della stretta convivenza virtù e, soprattutto, necessità. Eppure basta allontanarsi anche di poco dalle stazioni, chiassose e iperattive, per notare un paesaggio di molto differente. S’apre allo sguardo una prospettiva di casette a due piani circondate da giardino, piccoli parchi ogni pochi isolati, fiumiciattoli, stradine percorse a piedi o in bicicletta, persino campi coltivati. Sembra quasi di essere in campagna, tanto minuto è il suo raggio d’azione. Si incontrano i medesimi volti, si chiacchiera con i gestori dei negozi del tempo che fa, con i custodi delle biciclette dei mondiali di calcio, di sciocchezze figlie d’una socialità spiccia che comunica familiarità e integrazione. Tokyo oltretutto non ha un solo centro ma ne ha molti, luoghi spesso anche distanti tra di loro.
Così un giorno, spaccando il frutto del melograno, credo di aver avuto una sorta d’epifania, nel notare come anche visivamente la struttura della città gli assomigliasse. Il sapore dolce del frutto e quello amarognolo del seme, poi hanno confermato la mia idea. Tokyo è, decisamente, un melograno ed è la protagonista indiscussa del libro. La immagino come una donna – colpa del genere che nella lingua italiana fa delle città sostantivi femminili – tanto che nel libro lei chiacchiera e sbadiglia, si pettina i capelli, le fanno il solletico e lei ride, si rabbuia e magari sussurra qualche imprecazione. Reagisce. Non è solo un contenitore di storie è lei stessa personaggio della storia. È così viva.
Hai scritto che “la solitudine del corpo non esiste a Tokyo”. Ovvero?
Mi ha sempre colpito di Tokyo il contrasto tra l’altissima densità di popolazione che abita e/o transita nella capitale e la difficoltà, reale, di inserirsi nelle vite degli altri. Le stazioni sembrano formicai, la vita vi si agita dentro senza sosta, i treni sono scatole traboccanti umanità e la distanza tra i corpi s’annulla nella dimensione ridotta degli spazi abitativi. Così il corpo in questa città orientale non è solo, lo accompagna sempre il movimento d’altri corpi. È una danza – persino involontaria – di milioni di esseri viventi sincronizzati al secondo, per evitare di scontrarsi, di arrecare ed arrecarsi disturbo nel contatto. La solitudine del cuore, invece, ti prende quasi all’istante e a fatica ti lascia andare. Ci si sfiora ma non ci si tocca veramente.
Tutti concentrati nell’inseguire il proprio giorno, come linee parallele saettanti verso qualche punto della città, la gioia dell’incontro è lasciata a spazi e luoghi dedicati e, per accogliere una nuova presenza, ci vuole una disponbilità di tempo che spesso chi abita e lavora a Tokyo non possiede.
In Occidente c’è forse una malattia della fretta, della frenesia legata al tempo. L’attrazione per l’Oriente a tutto tondo, dalla religione sino al cibo, può essere inteso come un bisogno di bellezza, la necessità di valori positivi?
Credo che l’Occidente cerchi nell’Oriente una chiave di lettura, un rallentarsi, la meditazione che riveli l’intrinseca pace che potenzialmente possiede ogni esistenza, la mano che indugia, il passo che nel perdersi si trova. Nel Giappone della tradizione vi si cerca la saggezza, la cura minuziosa per tutto ciò che provoca piacere, il culto disciplinato della bellezza applicato ad ogni aspetto della vita. È l’Oriente riflessivo, quello che predica pazienza, tolleranza, tempo in abbondanza. È inoltre un mondo che, rispetto al nostro, tende a non giudicare o a farlo meno e con minore asprezza. La tolleranza verso il prossimo è base del vivere civile, il curarsi di sè ed ignorare quel che non piace vince sulla critica e sul desiderio di sviscerare il negativo.
Da sempre avverto una ideale compensazione tra l’Oriente giapponese e l’Occidente italiano e noto da ambo le parti un’ammirazione, un anelito all’altro che rivela quanto la differenza sia alla base dell’attrazione, quanto si vada a cercare quel che non si ha o quel che si ha in forma differente. L’italiano, ad esempio, è conscio delle sconfinate potenzialità del proprio territorio ma l’incuria che affronta quotidianamente lo rattrista, lo fa molto arrabbiare. Anche una città come Tokyo, invero lontana dall’ideale tradizionale della calma e della meditazione, ha d’altronde una attenzione maniacale nei confronti dei suoi spazi, una valorizzazione costante degli ambienti comuni, una spinta all’innalzamento della qualità di vita dei suoi abitanti.
Credo che italiani e giapponesi dovrebbero frequentarsi di più. Finirebbero, naturalmente, per migliorarsi a vicenda.
La tua storia personale – e il grande successo del tuo blog – è al centro di un documentario prossimamente per la Rai. Perché hai scelto il Giappone?
Si tratterà invero di una miscellanea di storie che hanno al centro il mondo e la letteratura, giovani scrittori residenti in varie nazioni che racconteranno di sè e del processo che li porta alla scrittura. Due talentuosi e giovani filmmaker hanno scelto di proporre Tokyo Orizzontale e la mia storia personale (qui il video). Il Giappone non è una passione antica. Da ragazzina non leggevo manga, non conoscevo gli anime. In casa mia la televisione era bandita se non a orari definiti e per la visione di programmi accuratamente selezionati. Non sapevo chi fosse Doraemon, a scuola fingevo di comprendere battute, di ridere di tormentoni che conoscevano solo i miei compagni.
Ho incontrato il Giappone a ventuno anni, senza alcun vero immaginario o background culturale a sostenermi. A rapirmi è stata invece la scrittura giapponese: quei tre alfabeti sillabici che sembrano intrecciarsi, cadendo dall’alto in basso e da destra a sinistra, già svelavano l’estrema difficoltà della lingua. Ed io amo da sempre le cose complicate perchè hanno in sè il sapore della sfida, temprano, educano alla pazienza e alla costanza che non ho, promettono vittoria. Trasferirmi a Tokyo, apprendere la cultura quotidiana di questo paese, insistere nel viverlo nonostante le sue iniziali incomprensioni e asperità, mi ha poi definitivamente conquistata.
Essere una straniera può essere un vantaggio. Si mantiene sempre aperta una possibile via di fuga e, per questo, il proprio quotidiano in qualche modo ce lo si sceglie ogni giorno. Ed è qua che io voglio restare.
A proposito del tuo blog, spicca una scrittura limpida, visiva, evocativa, colorata. Cosa ti ispira?
Nel blog cerco di riversare tutto il positivo accumulato in anni di Italia e di Giappone. Tento di donare a chi mi legge uno spazio di riflessione e insieme di bellezza, dove riposare il corpo, un luogo dove rubare escamotages per affrontare quei piccoli drammi quotidiani che ogni vita presenta come un conto a fine giornata.
Aver vissuto una vita per molti versi complicata mi aiuta adesso a capire cosa sia giusto offrire al prossimo e poichè la scrittura sul web, lo credo fermamente, è un donare essa non si deve discostare dalle circostanze e modalità che regolano l’offerta di un regalo: garbo, generosità, bellezza ed altruismo. Il Giappone, il suo lato più tradizionale, serba in sè una saggezza che, a mio parere, tanto serve al contemporaneo. Ogni paese ha eccellenze che, se condivise con altre nazioni, possono arricchire chi le accoglie e si lascia ispirare. Quel che faccio a lezione all’università con i ragazzi giapponesi è proporre loro un altro punto di vista, quello italiano che riesce spesso a stimolarli. Di noi è il gusto della vita, la gioia dell’incontro, lo scardinarsi delle formalità a vantaggio del contatto, la leggerezza e l’emozionalità manifesta.
Nella scrittura sul web cerco invece di fare l’inverso, ovvero di donare il meglio del Giappone e della mia vita a Tokyo, agli italiani. Un gioco di specchi che mi permette di conservare una visione tendenzialmente positiva dell’esistenza. Oltretutto questa città è una continua aggressione sensoriale. Comunicarla è gioia pura. Ed io amo profondamente la mia vita.
Infine vorrei domandarti quale sia il tuo rapporto tout court con la scrittura narrativa.
Non passa giorno che non scriva.
Quel che da ragazzina credevo dovesse scaturire solo dall’“ispirazione”, ho scoperto che si ciba invece di costanza e di impegno. Le idee possono venirmi in qualunque momento, magari mentre sto passeggiando con la cagnolina Gigia o mentre sono in attesa dal medico. Catturo quelle idee, me le appunto sul cellulare o a margine di un libro.
Poi però la mattina esco prestissimo di casa, mi butto sui treni che mi porteranno al lavoro, scrivo nei vagoni – seduta a destra e sinistra di qualche pendolare assonnato o di qualche studente in divisa che ripassa le lezioni –, mi sposto nei caffè vicini alle università in cui insegnerò, scrivo lì e, ancora, spalanco il computer sulle ginocchia nel tragitto inverso verso casa.
Poi riprendo la sera, esco intorno alle sei o alle sette e resto in un caffè fino alle dieci. È il mio tempo, è il mio piacere, è la creazione quotidiana della mia identità. Inoltre la scrittura è per me una pulsione fisica, una liberazione. Ha un potere fortemente terapeutico: un giorno in cui ho scritto è un giorno buono, al di là di tutto quel che può essere accaduto.
E poi come scrive Emil Cioran: “Produrre è uno straordinario sollievo. E pubblicare non meno. Un libro che esce è la tua vita o una parte della tua vita che ti diventa esteriore, che non ti appartiene più, che ha cessato di opprimerti e logorarti. L’espressione ti diminuisce e impoverisce, ti solleva dal peso di te stesso; l’espressione è perdita di sostanza e liberazione. Essa ti svuota, dunque ti salva, ti priva di un sovraccarico ingombrante. […] Mi sono sopportato meglio, come ho sopportato meglio la vita. Ci si cura come si può.”