Capita di aprire un cassetto e di trovarci dentro il mare.
Non ci credi e allora allunghi una mano per toccarlo, questo mare, il promontorio verde, il piccolo faro a strisce bianche e rosse come se ne vedono in alcune cartoline di scorci del nord Europa o negli sfondi del pc.
Chiudi il cassetto e ne apri un altro, subito accanto. Ci trovi dentro le gioie di un bambino, matite colorate, gomme, quaderni pieni di disegni. Scritture diverse, di pagina in pagina e parole gentili rivolte al luogo che contiene la scrivania che, a sua volta, custodisce quel cassetto. E’ un gioco ad incastro, un gioco di matrioske che nel celare suggerisce la presenza latente di un’infinità di cose.
E’ un piccolo caffè al secondo piano di un edificio di legno in un vecchio quartiere di Tokyo. Al primo piano c’e’ un ristorante che si prepara alla clientela della sera e sulla destra inizia una ripida scalinata che conduce ad un quadrato di legno dedito alla scelta. Perchè da lì si aprono due porte, ancora chiuse. Una a destra e l’altra di fronte.
Da quest’ultima sgorgano voci squillanti, risate fragorose. Dalla prima, invece non fuoriesce nessun suono ma, sulla superficie della porta, è incastrato un cerchietto di vetro e accanto una scritta “Se volete, sbirciate pure”.
E’ lo spioncino che solitamente permette di scorgere chi ha suonato ed ora aspetta fuori. Ma, a differenza del solito, questo è rivolto verso l’interno del locale.
In questo caffè in cui trovi il mare nei cassetti e in cui piante dagli alti fusti avvolgono le sedie e le poltrone, non si può parlare. Si può sussurrare, ma giusto qualche frase. A patto che non si tramuti in un discorso.
E’ un luogo dedicato alla lettura ma anche un posto dove restare in silenzio, imbambolati a pensare a se stessi, al tempo che passa, a quello che resta.
Ogni posto a sedere in questo caffè è diverso dall’altro. Uno ha un piccolo acquario davanti, un’illuminazione soffusa e vegetazione folta che rende i movimenti dei due pescetti all’interno una vera avventura. Hanno code d’opale, sui toni del rosso e del blu.
Sull’ultima pagina del menù è stampata la mappina del locale, le caratteristiche dei posti a sedere, la dislocazione delle sorprese di cui poter “godere”. E’ di nuovo il verbo tanoshimu che conclude ogni frase.
Che si tratti di una scrivania piena di cassetti, di un divano con un grande acquario di fronte, di un tavolo antico con incastrato sul fondo uno schermo di pc su cui scorrono immagini suggestive, che non sia niente di tutto cio’ non importa.
Perchè ci sono posti che bastano da soli a riempire ore e farne bignè, creme al cioccolato, cupcakes ai mirtilli o barchette alla vaniglia. E ci sono casualità che ti portano al punto giusto di una via, al momento esatto in cui sei pronto a farti trascinare per mano lungo una scalinata stretta stretta.
Ma la cosa più importante, quella che rende speciale ogni luogo e ogni momento, è proprio la capacità – non innata ma anche artificiale – di rendere ogni luogo quello giusto, ogni momento quello esatto per godersi ogni nonnulla della vita.
Uscendo, dopo aver pagato alla cassa, il proprietario – un uomo sui trenta/quarant’anni – ringrazia, invita a ritornare e fa un inchino che ha la profondità di un crepaccio. Così profondo che quando ci richiudiamo la porta alle spalle, di lui si vede ancora solo il capo, la linea retta che spacca in due la capigliatura liscia e nera.
Arigatou gozaimashita.
In quell’inchino senza fretta e senza menzogna c’è la poesia di questo caffè.
Uno dei tanti che si nascondono tra le pieghe di questa città.
****Dov’è? Non chiedetemelo. Non posso dirlo. Capita anche che chi te li indichi questi luoghi ti vieti di diffonderne le coordinate precise. Ed io devo mantenere la promessa.