pioggia

Quaderni d’onomatopea giapponese: zaa zaa, potsu potsu

Un temporale estivo, un acquazzone a scrosci e catinelle, e cielo che fu forse nella sera a pecorelle, e acqua acqua, solo acqua. Un diluvio circoscritto come quello che s’è rovesciato sul tetto dell’ospedale il giorno in cui siamo stati dimessi, io e il piccino.

E l’acqua, attraverso i finestroni sovrastanti, che di solito è una visione generale del paesaggio e suono soprattutto, si è fatta cosa che intorbida lo sguardo, la visione accelerata della gente che cerca riparo nella strada, gli ombrelli che esplodono in colore e trasparenze tutto a un tratto, all’entrata frettolosa in un negozio, alla fine delle scale che inaugurano la conclusione della casa e l’inizio della via. Testimoni indifferenti sono un giardinetto dove le altalene stanno ferme, un panda consumato che non ospita bambini sul suo dorso.

Guardo su, verso i finestroni, sussurro al bimbo che suo papà sta arrivando, che odia gli ombrelli quindi certamente non lo ha portato appresso e sarà ora a comprarlo in un kombini vicino alla stazione. E la pioggia, oltre il tetto trasparente, è maestosa. È il cielo tutto. Che lo vedi e già scompare dentro gli occhietti tondi, allungati delle gocce. Le pupille ovali che si sformano sul vetro.

「ざあざあ」 zaa zaa.

È questo il suono dell’acqua in giapponese che quando cade spezza l’aria, mettendola da parte. Non c’è più spazio che per lei.

「ざあざあ」 zaa zaa è il suono della pioggia battente.
Di「雨」/ame/ che è la “pioggia” e, con diversa intonazione, è anche 「飴」 /ame/  la “caramella”.

「ざあざあ」 zaa zaa è anche il suono di disturbo, un canale televisivo che nella notte non trasmette che il bianco e nero d’una schermata instabile, quella nuvola d’insetti che ronza, il disturbato di altoparlanti. Le interferenze radio, il continuo sottofondo, quelli che la nostra lingua definisce anche “disturbi parassiti”.

 E mentre dentro raccolgo nei palmi gli ultimi ricordi di questi giorni all’ospedale, il parto, le cure dolci delle ostetriche, i pasti deliziosi, la voce del bimbo che imparo a distinguere da quelle degli altri neonati, Sousuke che incontra per la prima volta il fratello e gli accarezza il testino, e mentre me li metto in tasca e me li schiaccio sul cuore come una toppa per ferite da venire, fuori il cielo fa ancora 「ざあざあ」 zaa zaa.

Ma poi dopo un tempo incalcolato, esso tace nuovamente, come il singhiozzo che si placa all’improvviso, senza accorgimenti, senza rendersene conto.
E allora, nell’onomatopea giapponese, subentra un nuovo suono, quello che indica poche gocce, la grandezza di pois, l‘intervallo tra cose di piccola dimensione, dei puntini.

 È 「ぽつぽつ」 potsu potsu ed è anche il “poco a poco” quando ad esempio si dipana una storia e se ne raccontano i dettagli con una certa avarizia, il “qui e là” di cose sparpagliate su una distesa assai più ampia, persone, case che allo sguardo appaiano come dei semplici puntini.

Ma poi ecco che la pioggia riprende in un andirivieni, che fa seguire a 「ざあざあ」  zaa zaa 「ぽつぽつ」 potsu potsu, 「ざあざあ」  zaa zaa e 「ぽつぽつ」 potsu potsu.
Il taxi arriva infine a prelevarci per portarci verso la nuova vita.

Quando siamo giunti ormai sotto casa, il suono si interrompe .
Il temporale è già finito.

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** In fotografia tavole della interpretazione grafica della fiaba di Hans Christian Andersen La Sirenetta ad opera di Yayoi Kusama, eclettica artista giapponese che dei puntini ha fatto il suo segno distintivo. 

Nelle mani degli dei

   C’è un grande fervore nei templi da qualche settimana. Attraverso i lunghi viali alberati che portano ai templi, salgo le scalinate di pietra in un cammino impreziosito dal rumore croccante delle foglie secche. L’autunno in Giappone ha le tinte marroni e rosso fuoco dei momiji, dei ciliegi che diventano ambra, dei ginkgo che dai disegni dei bambini rubano del sole il giallo acceso.

   Sono kimono sgargianti e creature goffe nei movimenti e dal passo incerto. Procedono con una solennità che quasi non mi spiego. Ricordo la comunione mia e di mia sorella e soprattutto la preparazione a quell’evento che sottintendeva una fede acerba – mai invero, in me, sbocciata – e la preoccupazione attenta della famiglia, di mia madre soprattutto. Un coro di adulti che sembrava cercare di accertarsi del fatto che noi due bambine fossimo coscienti dell’importanza di quel giorno.
Ma io ero già un po’ più grande mentre invece questi bimbi hanno solo 3, 5 o 7 anni. 七五三shici-go-san. Tre, cinque, sette. Non di più e non di meno.

   La simbologia del colore vuole tinte più scure per il kimono dei maschietti e colori più vivaci per quello delle femminucce. A volte portano ai piedi scarpe da ginnastica che svelano tutta la difficoltà dell’età e la clemenza che i genitori usano a discapito della tradizione che vuole ai piedini gli zori.
Resto incantata a guardare gli occhi, enormi ed espressivi, di questi piccini. E la nuova macchinetta che non ha un potente zoom ma una lente che mi permette di fare foto anche quando è nuvoloso, piove o cala la sera, ha scattato scene di piccola delizia.

   Non è raro vederne uscire dalla stazione circondati da uno stuolo di eccitato parentado. In prevalenza genitori e nonni. I bambini più grandi parlano, rintuzzati dalle domande degli adulti, orgogliosi dell’attenzione che cola come oro su di loro.
   I più piccoli invece a volte sono come imbambolati, immersi come dita in una tasca, nella solennità di quegli abiti che li cingono e che probabilmente richiedono (e permettono) loro una gamma diversa di gesti.

   E con delle sonore secchiate d’acqua che ci consegnano l’autunno e la sua fine esattamente come accade con la primavera – che si ciba di sole quanto d’acqua – è iniziata a Tokyo la scorsa settimana. Martedì mattina mi sono affrettata verso il lavoro che, invece, non c’era. Sono distratta in questi giorni. La vita ha il fiato corto e penso sempre di dovere. Così, elettrizzata da una mattina divenuta d’un tratto tutta mia, ho preso un treno, un autobus e sono finita in una zona di Tokyo che avevo visitato una volta sola.
Mi sono diretta verso il grande tempio del quartiere e così, con una mano stretta a sostenere l’ombrello e l’altra la macchinetta fotografica, ho visto una bimba tutta eccitata nel suo kimono rosa e suo padre a rincorrerla per difenderla dall’acqua. Sembrava danzare la piccina. Il suo fratellino dietro di lei camminava composto nel suo kimono nero ed oro.

   Ma poi ha cominciato a piovere più forte e i grandi sono diventati i piedi dei bambini. Li hanno presi in braccio e tenuti al riparo sotto il proprio ombrello.
Nell’ultimo scatto, che amo più di ogni altro, ci leggo l’augurio di crescere forti, di mettere radici in questo mondo, di amare ed essere amati e di diventare adulti che conoscano il coraggio e la pietà.

   Nel giorno che celebra i loro tre, cinque e sette anni, che si preparino a entrare in questo mondo complicato. I passi degli adulti, pero’, li guideranno anche dopo i sette anni, anche dopo che la divinità avrà aperto i palmi e li avrà lasciati andare.

   「七つ前は神のうち」recita un detto giapponese che spiega come “prima dei sette anni (i bambini) sono tra le divinità”.
‘In the hands of the gods’ traducono in inglese.
Nelle mani degli dei
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Dei tanti nomi della pioggia, di giugno e delle prugne

E’ arrivato giugno, il sesto mese dell’anno 6月. E nella mia mente giunge alla fine di una prima mezzaluna che parte da gennaio e si trascina fino alle mani di luglio. E’, in Giappone, il mese delle ortensie grasse ed opulente, che per tutto l’anno si nascondono sui lati delle strade, nei giardini della case sotto le false spoglie di semplici cespugli. Ma poi fioriscono dell’azzurro del cielo d’estate, del rosa acceso degli abiti delle bambine, delle varie gradazioni di viola che sembrano ribadire quanto il murasaki sia uno dei colori piu’ presenti nella cultura giapponese. Ed è uno spettacolo che incanta.
Ma giugno è anche il mese dell’acqua, in cui l’elemento che circonda quest’isolotta che s’allunga da nord-est a sud-ovest come un cavalluccio marino, cade dal cielo, si mischia al vento e bagna ogni cosa. E’ la stagione delle piogge, nella cui denominazione è nascosto un frutto che matura. 梅雨, tsuyu. Le prugne e la pioggia. 
Sì, sono le prugne che con il loro sapore asprognolo e compatto accompagnano questi giorni umidi ed afosi. Chiedo a Ryosuke e lui mi racconta della preparazione dello sciroppo di prugne 「梅のシロップ漬け」con i nonni di Oita, della bacinella in cui galleggiavano verdi i frutti, del panno che li asciugava gentilmente, del bastoncino con cui estrarre il nocciolo, del grosso barattolo di vetro, dello zucchero e dello shochu. E passa un sorriso sul suo viso, di quelli che solo i ricordi di bambino sanno evocare ed il sentire degli adulti riesce a significare. 
E proprio ieri, seguendo con gli occhi un uomo che saltava sul convoglio un attimo prima che questo chiudesse le sue porte, ricordo di aver notato il sacchetto goffo e trasparente che stringeva tra le mani. Verdi, tondi e duri: erano proprio i frutti di ume.
Ma giugno è anche il mese dei cetrioli, dei frutti di biwa dal nome che ricorda lo strumento musicale, delle albicocche che dell’estate hanno il colore arancio, della radice di zenzero dall’odore aggressivo e di pesci che a tradurli in italiano mi suonano d’un tratto sconosciuti: cobite, sauro, grugnitore.
Quanti, innumerevoli, nomi ha la pioggia in questa lingua. Scopro in un libro sfogliato casualmente in biblioteca che il Giappone ha tanti modi di denominare la stessa acqua, differenti tipologie di pioggia. Perchè non c’è solo lo 梅雨 tsuyu, (ovvero – come ho spiegato sopra – la pioggia che cade in questo mese ed abbraccia il periodo della maturazione delle prugne), ma vi è anche la 春雨 harusame (la pioggia leggera di primavera), la 時雨 jigure (che cade alla fine dell’autunno in apertura d’inverno), la 緑雨 ryokuu (agli esordi dell’estate, quando il verde della natura è più squillante) etc. etc.
E così via. E così via.
Ma giugno, per noi, è anche il mese del timore e del sollievo. Perchè quello che non andava è stato sistemato. Un lungo sospiro che raccoglie le cure della nostra bambina, la degenza in ospedale, le visite, le flebo, le parole. 
E capita così che la pioggia, che ha accompagnato ed accompagna questi giorni, conservi in sè anche l’inesprimibile gioia del suo ritorno a casa.

Nei giorni dell’inquietudine il segreto è cadere nel cliché

Nei giorni dell’inquietudine il segreto é cadere nel cliché: guardare cose belle, dirsi frasi sagge, parlare di banalità.

E tutto, intinto in un po’ di bellezza, riacquista la gioia che gli spetta.

La primavera giapponese, mai come quest’anno, è stata ricca d’acqua e di ritorni.
L‘acqua è quella piovana, di cui cariche sono le nuvole che vi passano sopra. E i ritorni sono quelli delle cose che dai luoghi del disastro del Tohoku dello scorso anno sono stati rinvenuti sulla West Coast degli Stati Uniti ed ora si preparano ad un viaggio all’inverso.

In Giappone si dice che maggio sia il mese in cui il verde è più bello, più intenso. E benchè sia appena cominciato, forse complici le piogge, la natura sembra brillare e il verde fa male agli occhi tanto spicca sugli altri colori.

La pioggia a Tokyo dona. Lo penso da sempre.

E se ieri in Giappone è stato il “giorno del verde” 「みどりの日」- che inneggia a questa splendida natura bistrattata a cui bisognerebbe dare tanto più retta – oggi è il “giorno dei bambini”  「こどもの日」 e si prega perchè i bimbetti crescano forti ed in salute.
Si mangiano i kashiwa-mochi 柏餅 ricoperti da una foglia di kashiwa (quercia giapponese) la cui caratteristica è quella di non perdere le vecchie foglie finchè non siano usciti nuovi germogli. Ed è tale motivo che rende questa pianta simbolo di continuità e vigore famigliare, dolce perfetto per una festa come quella di oggi.

La Golden Week volge al termine ma il bilancio è al momento pieno di colore. Come le meravigliose carpe, i koinobori, che abbiamo visto oggi alle pendici della Tokyo Tower a Minato-ku, mentre sulla strada sfilavano centinaia di persone tutte prese da una manifestazione contro il nucleare.

E se capiteranno, talvolta, giorni dell’inquietudine farò in modo da cadere nel clichè.

Riguarderò queste foto straripanti di colore, riavvolgerò all’infinito i video girati tra il parco del tempio Zoujou-ji e il quartiere di Toranomon 虎の門, mi ricorderò dei baci di Ryosuke, del braccio che mi cinge sempre senza alcuna vergogna, dei proverbi giapponesi che mi insegna lui ed un libro ricevuto in dono anni fa, sfoglierò il mio inseparabile dizionario dei sinonimi e contrari e nel ricordare parole che non sono più abituata ad utilizzare, sono certa starò meglio.

*In fotografia (1, 4) i cagnetti e i loro padroni al parco di Inokashira, una domenica pomeriggio, (2) Roppongi nella pioggia di giovedì quando con i suoceri siamo andati a vedere il folle film “Thermae Romae” e (3) decine di carpe al vento, tra l’azzurro del cielo in cui si agitavano e le basi scarlatte della Tokyo Tower.

Per tre giorni di freddo, quattro di caldo. La primavera arriva così.

Pioggia sottile, tanto che non sai se spalancare o meno l’ombrello.

Ieri su Tokyo un cielo plumbeo. Dei tanti ombrelli che ho visto, uno. Di una ragazza che saliva la scalinata che porta al parco di Ueno. A punta, come il cono di un gelato. Ma blu, come il cielo che segue al tramonto e che sfrutta ogni inezia di luce.

Un bel giro dal parco ai templi, da Saigo Takamori alla strada. Insieme a due amici e a due regalini che arrivano dritti dritti dall’Italia e dalle mani operose di lei. Che meraviglia ricevere qualcosa che manifesta in sè non solo sostanza ma tempo.

Camminiamo chiacchierando, aprendo e chiundendo gli ombrelli. Cerchiamo la primavera e troviamo pruni, persino ciliegi. Manca ancora un po’. Ma poco.

Un uccellino che saltella sui rami di un pruno in fiore, un gatto grasso e senza coda che corre a ripararsi sotto alle basi del tempio, una cornacchia forse malata appoggiata a quella sorta d’arciere di pietra posto alle entrate dei templi, una fila di gabbiani accovacciati sulle impalcature alle spalle di un ciliegio, la coda nera e sinuosa d’un altro gatto che s’infila furtivo nella fessura tra due edifici vicini alla stazione di Ueno: sono tanti gli animali che abitano la città e chi mi sta accanto mi riconosce l’abilità di individuarli.
Gatti, cani, uccelli, tanuki, insetti, ranocchi. C’e’ una folta fauna in questa città. Per chi ha occhi per vederla.

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Ci addentriamo per Ueno. Loro acquistano un tayaki alla fragola e crema. Si chiacchiera e si scattano foto. Infine ci salutiamo alla stazione, loro riprendono la loro passeggiata, io riprendo il treno. Acquisto un daifuku al sesamo alla stazione di Tokyo e riparto.

E mentre scorre in tv l’ultimo appuntamento di uno dei drama stagionali, la sera riguardo le foto scattate. E mi dico che non sempre la pioggia vien per nuocere e che Tokyo, lucida d’acqua, ha un suo fascino.

Oggi, mentre aspettavo che Ryosuke scendesse dal parcheggio delle bici, uno dei vecchietti in tuta blu, addetto alla gestione, mi parla del tempo.

「三寒四温、わかりますか?」”Conosce il detto sankanshion?”
In sostanza: per tre giorni di freddo, ce ne saranno quattro di caldo. E’ così che arriva la primavera. Così mi ha spiegato.

Un’espressione questa che originariamente in Cina e in Corea era riferita all’inverno. E che il Giappone ha applicato invece alla primavera dato che qui, al contrario dei paesi vicini, non esiste un’alternanza così esatta di giorni di freddo e di caldo.

Un’altra cosa che non sapevo e che ora so.

*In foto scatti di ieri nel parco di Ueno.