Mitaka →Shinjuku →Shibuya →Kichijoji
La telecamera in borsa, quella che ci ha regalato il padre di Ryosuke per il matrimonio e che abbiamo usato durante l’atipico mini-viaggio di nozze a Kyoto e Nara con tutte e due le nostre famiglie. E’ la stessa telecamera di cui una studentessa, mentre filmavo l’esame orale del secondo semestre, mi ha detto di conoscere tutte le caratteristiche. Era per farmi sapere qual era il suo lavoro part-time, per sciogliere l’ansia della prova e per chiacchierare con la sensei un’ultima volta prima della laurea.
Oggi l’ho utilizzata per uno scopo assai diverso. Sono andata a Shinjuku e ho ripreso l’uscita sud, al di qua dei tornelli, la Yamanote su cui poi sono salita, la stazione di Shibuya, le scrisce pedonali, alcune strade del quartiere.
La nebbia copriva la chioma dei grattacieli, quasi rendendoli canuti. Dalla Chuo osservavo la loro cima ovattata e nell’uscire dal treno ho avvertito il biancore diffuso dell’aria che, nel freddo, acquista una sua consistenza. E’ il profilo deciso della stazione, l’andirivieni di gente ed ombrelli, la precisione del passo che si dirige verso una delle sei uscite della metro o verso un’altra banchina per il cambio del treno. Lo stesso paesaggio che osservo quando il mercoledì e il venerdì vado a Mejiro e cambio a Shinjuku per la Yamanote in direzione Ueno.
L’unico sentimento nuovo, di stranezza, è quello legato alle mie azioni l’iwakan (違和感) come si direbbe in giapponese. La telecamera in mano, la borsa ai piedi e il cellulare in tasca, in attesa che Ryosuke mi richiami dal lavoro. Avverto un forte imbarazzo. So che l’obiettivo può infastidire, che ad alcuni annoia l’idea di divenire parte di un video che non guarderanno mai. Ma tant’è. La documentazione deve essere accurata.
Riprendo la Yamanote e arrivo a Shibuya. Frotte d’ombrelli si riversano sulle stresce pedonali, un cameraman straniero riprende le mura della stazione e con un filo di cinismo mi chiedo se abbia avuto il coraggio di filmare anche la quantità di gente che procede da un lato all’altro della piazza. E’ identica Shibuya e mi scoccia dirlo. Perchè ho sempre sostenuto che di Tokyo ciò che spicca è proprio il mutamento. Dei negozi, delle mode, del linguaggio, della gente. Ma a chi la vorrebbe sepolta sotto le ceneri di una disgrazia presente ma geograficamente distante io rispondo con video silenziosi e fotografie che narrino quanto le parole non sono in grado di fare.
Starbucks, quello che dà sulla piazza, era troppo pieno di gente e così sono andata verso il caffè Excelsior per un pranzo tardo. Tutto pieno anche lì. L’esodo, evidentemente, non ha colpito la città come narrano i bugiardi! >.