Dei kanji o dell’arte di creare storie
Spesso le cose più belle sono anche le più complicate.
Quello giapponese è un popolo la cui lingua nasce e perdura nel suono, acquista forma adottando disegni che sono scrittura. Accoglie la scrittura cinese ma vi applica sopra la propria lingua, elabora altri due alfabeti sillabici e dall’assemblaggio di questi tre elementi crea qualcosa di nuovo.
Il Giappone, all’inizio di tutta questa avventura, era per me solo una forma grafica, un miscuglio di segni fatti per essere decifrati, un linguaggio segreto come quello dei bambini. Ho sempre amato le cose complicate, mi restituivano il peso del mio valore e del mio impegno, misuravano la resistenza, la mia pazienza.
Che l’obiettivo sia più lontano possibile, mi sono talvolta trovata a pregare, perchè vivo la maledizione di una sorta di svuotamento quando raggiungo gli obiettivi che mi pongo. Come se nella realizzazione si celasse anche la fine delle cose.
Ci sono persone che hanno storie da raccontare, oggetti che suggeriscono viaggi, luoghi che dicono tanto di chi li ha attraversati, amati e lustrati sotto suole di scarpe, sotto zampine.
Così, con lo stesso carico di misteriose connessioni, viaggiano nel mio immaginario i kanji.
È la parte più complessa della lingua, quella più volatile, quella che non si fa possedere mai del tutto. Come un animale selvatico di fascino e fierezza che non si lasci addomesticare e rimanga a guardare, con occhio vigile ai lati del bosco, i nostri movimenti. Misurando le distanze.
Per apprendere i kanji non basta l’occhio ma serve la mano, il movimento del braccio, l’impugnatura solida delle dita e il movimento che differenzia un carattere dall’altro. Una cosa, questa, che una tastiera non è in grado di fare. Perchè i tasti sono troppo vicini, le dita a pigiare sempre le stesse e l’occhio – sovrastimolato nel quotidiano – del risultato se ne fa poco o niente. Lo accetta ma non lo problematizza e la didattica insegna che è il percorso – quello dello studente che non capisce e quindi ipotizza – a fissare il ricordo. È la strada costruita con fatica a riportare il kanji al suo “proprietario” e non l’inverso. Non basta guardarli. Non sono gioielli da esibire ed ammirare ma cose da usare, con cui aprire barattoli, con cui tagliare frutti. Sono maniglie che aprono porte. Bisogna toccarle.
I kanji devono diventare come quelle melodie provate così tante volte al pianoforte che basta la prima nota – e non più lo spartito – per far scattare la danza sicura delle dita. È innanzitutto automatismo.
È la parte più dura della lingua. Non cede alle preghiere. Tempra e giudica la motivazione di chi studia.
Eppure, a guardar bene, sono solo disegni, collage di elementi presi dal mondo vegetale, minerale ed animale. Da un tempo di uomini e dei che, con tono perentorio, decisero la definizione delle cose, la fecero disegno e infine scrittura. E anche nel sopraggiungere dei secoli serve tornare ancora a quel tempo per capire il perchè di alcuni caratteri, il pensiero che vi sottostava.
Allora non è più solo il Giappone ma anche la Cina e l’antropologia che scava usi e costumi di uno dei tanti popoli che furono.
Così la neve雪 (yuki) è una mano che spazza via la pioggia. La pioggia 雨 (ame) che si trova nella nuvola 雲 (kumo), nella foschia 霞 (kasumi), nella nebbia 霧 (kiri), nel tremore 震 etc. etc. E di volta in volta ha ruoli diversi.
La parola esame 試験 (shiken), composta da due caratteri, si rifà all’antica Cina in un periodo in cui gli affari bellici e religiosi erano centrali nella vita del paese. La parola natura 自然 (shizen) racconta della Cina dell’antichità, della carne del cane e degli dei. Spiriti, capre, esecuzioni, elmi, fuochi ed accette.
Amore 愛 (ai) è guardarsi indietro ed esitare. Il marito 夫 (otto) ha uno spillone conficcato nella chioma. La sera 夜 (yoru) ha la luna sotto il tetto. Il nord 北 (kita) sono due uomini che si danno le spalle.
A volte sono storie crudeli, di un’era in cui c’erano meno uomini, meno diritto ma più natura, meno distruzione delle risorse del mondo. In cui c’erano lance, porte di legno, cani e cavalli. Nei kanji spesso periscono uomini e animali, si celebrano gesti rituali rivolti alle divinità, abiti dell’epoca, spiriti maligni, campi di riso, rocce e bandiere svolazzanti nel vento.
La spiegazione della loro origine è spesso controversa e sembra una di quelle storie che hanno ancora e sempre avranno un margine di spazio perchè le si possa rimaneggiare, reinventare.
Insistete, insistete a studiarli. E nel farlo divertitevi, inventate storie, giocate con le assonanze (che son tante) con la nostra lingua, fatene un tic, un passatempo. La matita alla mano e un pezzo di carta da incidere di disegni che vi faranno sentire sempre un po’ speciali perchè nessuno intorno a voi li comprenderà.
Fatene un linguaggio segreto, come nel Club dei 7 o dei 5, un vizio e diletto.
Niente in questa vita è tanto serio da non accettare il gioco e i kanji sono creature ludiche, sono ragazzini che corrono via non appena li perdete d’occhio. Bimbi piccini che hanno bisogno di vedervi spesso per ricordarsi di voi. Per questo ci vuole costanza nello studio dei kanji perchè basta niente che scappino via.
Teneteli forte per mano e ogni settimana ritagliatevi uno spicchio d’ora per disegnarne la forma dietro a uno scontrino della spesa, sul bordo di un libro, su un volantino distribuito fuori dall’università.
Imparatele come poesie. Cantatene le letture. Aiuta.
Migliaia di versi che la nostra generazione non è più abituata a maneggiare. Come un Omero dei tempi recenti, diamo ad ogni kanji una forma mentale, facciamone versi, creiamo favole. Ne usciremo con più conoscenza, maggiore memoria e persino più immaginazione.
Fonti (per saperne di piu’)
→ 常用字解 第二版 [単行本] 白川 静 (著)
→ 白川静さんと遊ぶ 漢字百熟語 (PHP新書) 小山 鉄郎