距離 o della distanza
距離 kyori è la distanza. A volte in giapponese la distanza la si “posa” (距離を置く kyori wo oku), oppure “c’è” (距離がある ga aru), semplicemente. Come in italiano la si “prende” (距離を取る kyori wo toru) e così fiorisce tra sè e qualcosa che fa male o tra sè e qualcosa che invece si vuole riaffrontare dopo, con più calma.
Ho sempre vissuto il vuoto come horror vacui, il niente come “niente”. La lontananza come paura ed afflizione. Ma questa città orientale mi ha insegnato la distanza. La sua necessità. E la sua intrinseca bellezza.
Perchè la distanza è anche desiderio. È nostalgia: non quella che ti fa piangere e star male, ma quella buona che ti fa comprare un biglietto per partire e ti sostiene ogni santo giorno che lavori per mettere da parte il denaro necessario. Quella che ti dice che prima o poi, dietro a un mucchio di storie andate male, spunterà il giaciglio d’una vita. Quella che ti indica la strada per scalare la montagna che vuoi tu.
Tra te e il tuo progetto, qualunque esso sia, c’è la distanza che si intreccia alla fatica, all’impegno. E nel tempo che ti separa dalla sua realizzazione potrai capire se davvero è quel che vuoi. Perchè in questa vita si può cambiare idea e la distanza aiuta a farsi domande (“è proprio questo quello che voglio?”) e di giorno in giorno aiuta a confermare una passione. Maggiore è la distanza, maggiore è il desiderio che le cresce dentro.
C’è poi la distanza del nascere in un posto e finire invece altrove.
Vivere all’estero ti muta prospettive e per quanto ormai l’estero sia casa e casa sia un concetto che trasloca, rimane quel margine di incomprensione che ti ricorda che hai ancora tanto da imparare. Che per quanto ci vivrai, ovunque sia, ci sarà sempre qualcosa che non sai.
La distanza ti fa allora dubitare dell’infallibilità delle tue opinioni, ti insegna la caducità delle conoscenze che hai accumulato. È un perenne autunno la memoria. Quel che non sai è, e sempre sarà, maggiore di quello che sai o che ricordi. E persino quel che sai, chissà… potresti averlo sentito male, potresti averlo appreso già viziato da un pregiudizio che filtrava un tempo la tua visione sulle cose. Magari un errore di pronuncia, la via sterrata di un discorso con qualcuno, polvere e terriccio che ti fanno andare naturalmente dove tu conosci, e che quindi immagini vero ovunque. Ma l’altro no. Che lui è già altrove. E ti guarda da lontano. La distanza ti insegna l’umiltà.
E nella distanza che nel quotidiano adesso è tra me e la mia lingua madre ho trovato un modo di amare questa di un grado in più.
Non parlo mai italiano nel mio giorno. Ryosuke mi dice la sua vita in giapponese, io gli racconto la mia nella sua lingua. L’italiano sono le chiacchierate su skype con le mie amiche, quando per miracolo gli orari si mettono d’accordo. Poi nient’altro. Perchè nell’insegnarlo è un’altra cosa e va tenuto al guinzaglio per non confondere chi lo sta imparando con fatica.
E allora leggere libri e farmeli raccontare, perchè lo voglio anche sentire l’italiano, che vederlo solamente certi giorni non mi basta. In Giappone ho scoperto su iTunes programmi della radio come Ad Alta Voce, che mi raccontano le “Favole al telefono” di Gianni Rodari, “Riflessi in un occhio d’oro” di Carson McCullers, “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo o “La peste” di Albert Camus, Alberto Moravia e il suo “Agostino”, Primo Levi e la prosa straziante che risuona nei miei viaggi in bicicletta verso il lavoro, tra gli scaffali di un kombini, mentre faccio le pulizie a casa o porto la Gigia a passeggiare. Radio2 e i programmi de Alle otto della sera mi spiegano 20 film, 20 imperatori romani, mostri e principesse. Radio3 e Wikiradio, perchè ogni data ha dentro almeno una storia.
Belli? No, di più. Grazie alla distanza ho capito ancor di più come la lingua vada coltivata. E non solo una straniera, ma anche e soprattutto quella propria. Perchè più modi di dire si impareranno più sentimenti si sapranno raccontare, più nel linguaggio riusciremo a dirci, e il nostro scrivere e parlare non ci tradirà. Comunicheremo esattamente quello che vogliamo comunicare.
Distanza, una mano che si avvicina, lo spazio di un bacio. La distanza tra la bocca e una guancia, tra una bocca e un’altra bocca. La distanza tra un amico ed un amante e quel fazzoletto di niente che permette la trasformazione di quel che era in quello che sarà. È la distanza che è sensualità.
È bella allora la distanza. È un fingersi lontani per capire meglio quel che, per una serie di ragioni, si è avvicinato troppo. Sono le abitudini, ciò che si dà per scontato. E a un centimentro di distanza l’occhio non può vedere niente.
Sciogli un attimo l’abbraccio. Posa della distanza tra di noi. Voglio guardarti in viso e trovarci quello che, in quest’intervallo, ho dimenticato. Che io mi accerti del tuo volto, che negli anni forse è mutato, che io trovi l’espressione che amo sempre ma che ho scordato.
E per caso, proprio oggi, in Giappone è il ‘giorno degli amori a distanza’ 「遠距離恋愛」