Un caffè sotto un cielo di stelle dipinte. In compagnia di una giraffa, un gufo…
“Quando avete deciso vi preghiamo di suonare la campana”
1) 1-38-4 Kichijoji Honcho, Musashino, Tokyo, Giappone
“Quando avete deciso vi preghiamo di suonare la campana”
Un nuovo caffè con un nome tutto italiano ha aperto di recente. E in questo giorno di festa Miwa ed io siamo andate a zonzo per il quartiere. Pranzo a casa, il nostro programma televisivo preferito, le coccole alla Gigia e con Ryosuke discorsi vivaci su alcuni quartieri di Tokyo. Ci piace la storia di questa città. Scoprirne le rughe. I nuovi gioielli.
Il locale dove eravamo dirette era pieno di gente e così ho ricordato quel negozietto che ha aperto da poco e in cui non ero mai entrata un po’ per timidezza un po’ perchè le scoperte, se posso, amo farle in compagnia.
Miwa ed io andiamo spesso alla ricerca di locali, nuovi caffè dove trascorrere ore liete. Di chiacchiere e letture. Del suo coreano e del mio giapponese. Del suo lavoro, del mio lavoro. Dell’italiano che prenderà a studiare da aprile, del mio dottorato che è alle porte. Dei suoi nipotini, della mia Livia.
Sono luoghi di pace dove assaggiare novità, sapori differenti – che siano bevande o siano dolci –, respirare l’atmosfera di un locale, notare quelli che in giapponese si chiamano “kodawari” こだわり ovvero le cose, i dettagli su cui i gestori del locale, in questo caso, sono esigenti. Le minuzie (ma non solo) che sono importanti e a cui viene dedicata particolare cura.
Una volta badavo alla quantità più che alla qualità. Porzioni abbondanti, del più e non del come. Adesso il rapporto è invertito. E bado alle luci – meglio se lievi, alla musica – che resti sullo sfondo, alla gentilezza del personale, alle sedie o ai divani – che sappiano accogliere e tenere, al sapore del tè e a quello dei dolci, per cui nutro una passione esagerata.
Che ogni momento sia il migliore. Che ogni giorno valga per se stesso e non per quello successivo. Così la penso io. Così la pensano le persone che amo di più e di cui mi circondo. Ci unisce un “kodawari” per la vita che ripaga la fatica con una serenità profonda e duratura.
E’ l’Equinozio di Primavera. Si respira aria di pruni in fiore.
… una domanda che non sentivo da secoli. Allo Starbucks che dista una ventina minuti in bicicletta dall’università, davanti a un caffè latte caldo, small size, al mio piccolo Vaio splamato sul tavolo e le cuffiette premute nelle orecchie, un ragazzo mi fa un gesto. Lui è seduto al tavolino accanto. Mi tolgo gli auricolari e cerco di capire cosa sta dicendo.
E’ straniero. Parla in inglese, non me lo aspetto e ci metto qualche secondo in più a collegare parole a significato.
“Scusa, non è che mi guardi le cose mentre sono via? Così sto più tranquillo. Ovviamente se devi andare via prima che io sia tornato non ti preoccupare e lascia tutto così com’è“
Annuisco, Dico “Ok” mentre sorrido di quella bizzarra situazione e mi ricordo di quando, in Italia, era assai più frequente capitasse.
Appena se ne va noto che ha lasciato il suo libro di traduzione inglese/giapponese spalancato sul tavolino, l’iPhone a cui sono rimaste attaccate le cuffie e lo zaino – colmo di cose che non so – “seduto” sulla sedia di fronte.
Da quando vivo a Tokyo forse è la prima volta che succede. E nella proporzione con i miei sei anni direi che è evento che non può che farmi riflettere.
Sulla tranquillità del lasciare le proprie cose (tutte) per prendere un posto e poi allontanarsi dalla propria borsa per andare ad ordinare o per recarsi al bagno.
Del relax del poggiare i propri bagagli sulla griglia di metallo sopra i sedili di un treno, addormentarsi e non pensare neppure un istante al loro destino. Aperti gli occhi saranno lì. E’ sicuro.
Ma anche della fiducia nel telefonare all’Ufficio Oggetti Smarriti di supermercati, caffè, stazioni, perchè la maggior parte delle volte gli oggetti sono stati recapitati là. Ci sono. Nessuno li ha intascati. Usati. Rubati.
E il bello è che, in questo paese in cui ho scelto di vivere (superando, ovviamente, non poche difficoltà iniziali), tutto ciò è perfettamente normale.
Nel giorno dei SAGASHIMONO, delle cose smarrite di cui si va alla ricerca, mi è sembrata una riflessione quantomai appropriata.
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Una conversazione ascoltata al tavolino accanto di un caffè a Takadanobaba mi ha profondamente inquietata.
Di piccole distanze e impercettibili spostamenti. Da un caffè all’altro a scrivere e studiare dopo il lavoro. Una mattina, stamattina, che mi infila nel treno pieno zeppo di gente della Linea Tozai. Faccio una fermata a ritroso per scendere al capolinea e aspettare il treno ancora successivo. Tante sono le persone che ordinatamente stanno in fila ad attendere di entrare. Ma almeno poi posso sedermi e sfruttare quella mezzora di tempo per limare la bozza del secondo romanzo di cui, tra ieri e oggi, ho buttato giù il finale.
E dopo l’università, quella in cui entrando la mattina presto si possono sentire le voci dei ragazzi che gridano mentre fanno kendo, vado a Takadanobaba. A smangiucchiare, a scrivere e studiare. Ma mangio, scrivo e poi mi interrompo.
Nel posto libero accanto a me, un ragazzo appoggia la sua borsa. Uno sguardo indagatore, assai inquietante, mentre gira – senza fare alcuna ordinazione – tra i tavolini del caffè. Un ragazzo sui vent’anni, un taglio geometrico degli occhi e un’espressione dura e inquieta sulla faccia. Si accascia sul suo zaino, chiude gli occhi e dopo aver posato due bicchieri d’acqua sul tavolino, sembra addormentarsi. Si risveglia all’improvviso e riprende a cercare nel perimetro del caffè. Stesso sguardo indagatore. Stesso giro.
Dopo qualche minuto però arriva anche un altro tipo. Tra i trenta e i quarant’anni. Si siede. Si dicono “konnichiwa” e, l’istante dopo, sono entrambi ad occhi chiusi – immobili e in silenzio – l’uno di fronte all’altro.
Stacco definitivamente l’audio all’iPod. E mi volto a guardarli.
Seguono discorsi che mi inquietano profondamente. Lui e’ studente di Waseda al 5° anno di corso (notare che in Giappone è assai raro che si vada fuori corso). L’altro parla di un certo, benevolo, Sensei. Di un Maestro, di una chiesa. Di cosa hanno raggiunto gli appartenenti a quella setta. Il ragazzo parla dell’azienda in cui è finalmente riuscito ad entrare. Lo aspetta un duro lavoro. L’altro ridacchia, dice “bene”, ma non incoraggia veramente. Si sente che c’è qualcosa che non va. Un anziano che legge accanto a me alza più volte lo sguardo per guardare in faccia i protagonisti di quella conversazione “assurda”. Ma poi, ahimè, neanche tanto.
Nuove religioni. Debolezze che cercano rifugio in qualcosa. In qualunque cosa. In Giappone sono tante. Guardate (giustamente) con sospetto dopo l’attacco terroristico del gruppo Aum Shinrikyo con il gas sarin nella metropolitana di Tokyo il 20 marzo del 1995. Da allora più controlli, meno benevolenza e … nessun cestino della spazzatura. In caso, trasparente.
Le nuove religioni – come spesso anche le vecchie – mi inquietano. E qui in Giappone, a mio parere, vanno a colmare enormi lacune nel campo della psichiatria/psicologia ahimè ancora a volte relegata a disciplina per “i matti”. Lo spirito del “gambaru”, del “ce la devo fare da solo” non sempre sortisce i risultati sperati. Non su tutti almeno. A volte la gente avrebbe solo bisogno di essere ascoltata.
* In foto meraviglie d’autunno che ci attendono anche quest’anno. Qualcosa di bello per stemperare l’umore un po’ cupo di oggi. Il parco Rikugi-en. Un tripudio di colori e la carpa nel laghetto.