Yasashisa

Nel discorso sulla tenerezza, che tocca il sociale e il culturale, e che continuo partendo da una riflessione inaugurata altrove poco fa (qui), volgo uno sguardo centrato, più accurato, al Giappone, torno ai miei figli che sono metà una nazione e metà un’altra, nel pieno di un pianeta che si decide ancora oggi tanto più sul polso che sulla carezza.

「優しさ」/yasashisa/ è in giapponese la gentilezza, la dolcezza. Nel suo kanji mostra una persona che, con animo preoccupato, guarda dal margine, di lato. È la persona che si preoccupa di un’altra, partecipa alla sua vicenda. È questa la gentilezza.

 E tanti sono i nomi propri che desiderano abbracciare nel significato questo sentimento. La gentilezza, la tenerezza.

 Mi sono accorta negli anni come il giapponese, in un contesto internazionale, risulti spesso di primo acchito “carino, gentile” ma poco di più. L’occidentale ne ammira – senza alcun desiderio tuttavia di emularlo – il garbo, quella estrema cortesia che spesso lo diminuisce ai suoi occhi.

All’inizio è la timidezza a penalizzarlo, l’idea che se sa 70 è 50 che deve dichiarare. Per non rischiare d’essere superbo. Ed in Giappone effettivamente questo meccanismo funziona perché, per la stessa trama di motivi e sottintesi, chi sente dichiarare 50, tende a credere che l’altro sappia certamente di più, 70, forse anche di più. L’ammirazione scatta automatica, la “sopra-valutazione” dell’altro che è bilanciamento alla luce di uno sbilanciamento dichiarato.

 Ma d’altronde, in ogni altro contesto, che di questo codice invisibile è ignaro, le cose non vanno mai così.

È la forza piuttosto che convince l’europeo, l’americano. Tutto lo grida: è questa che amministra l’universo.

Ricordo i contatti nel campus universitario quando giunsi in Giappone ormai più di un decennio fa, i discorsi di amici, la leggerezza e la rapidità di giudizio del turista che incrociavo per caso.

Parevano loro bambini, una società calata nel primo tempo della vita. L’epoca d’oro, sgombra d’angosce, incantata dalle meravigliose sciocchezze che incantano i bimbi.

È facile fraintendere un giapponese, approfittarsi forse di lui, la prima volta perlomeno. “Infantile” viene talvolta giudicato da chi non ne conosce la cultura, per quel seguire un codice, per quel piegarsi al kawaii, per l’ampio tacere, per quella che viene valutata come “ingenuità”.
L’ho visto accadere così tante volte negli anni. Un occidentale parlare con un giapponese e non capirlo. Un giapponese parlare con un occidentale e rinunciare a farsi capire.

 È la dolcezza fraintesa, la tranquillità di base che, certo, è diffusa in diversa misura a seconda dei soggetti. Non tutti lo sono, mai sempre. Ma è il tono generale della cultura del Sol Levante, servirebbe una benda per ignorarlo.

La lingua giapponese del resto è piena di giochi e vibra di una splendida ironia. Tuttavia è povera di insulti, poco pratica in generale nella lordura dell’improperio quotidiano. Non conosce la bestemmia.

“Le divinità sono 8,000,000” mi risponde Ryosuke quando gli domando conferma. Ride: “E con chi te la prendi? Uno a caso?”

Spiego ai miei studenti che nella lingua italiana l’insulto ha un margine di scherzo più ampio che permea il sociale e determina la nostra cultura. La letteratura stessa ha spesso insulti nella sua trama, e parliamo di capolavori. Che insultare non è letterale e che nella ferocia non vi è per forza cattiva intenzione. Ci viene naturale la presa in giro, pare talvolta persino un collante nei rapporti.

Ma è vero che vince il più forte e chi grida di più si fa sentire. Che i dibattiti sono spesso gare a chi alza il volume e schiaccia con parole le parole dell’altro. Che molto si vince a braccio di ferro.

Al silenzio, all’accenno, in questa società appartata si demanda invece la rabbia, ci si spiega nel sentimento.

Semplicemente, mi dico, in una cultura in cui la voce resta bassa, non c’è bisogno di urlare a squarciagola per farsi sentire. Mentre in un ambiente dove chiunque si sente in diritto e in dovere di gridare, chi modula il tono ad un volume normale non sarà udito.

Eppure c’è nel Giappone una severità che quasi spaventa. Per la rottura di un certo protocollo, per la violazione di un codice che coinvolge l’onore o la correttezza non esiste perdono, e in questo, forse più che nell’urlo, va distribuita la maggiore cautela. Nel fatto che per certi errori non c’è via di ritorno.

Che il “tutti” vincerà sempre sul’ “io”.

Anche per questo motivo, so che scambiare la mitezza per stupidità o mancanza di lustro, è un errore.

 Non è sempre tenerezza, tanta è l’inflessibilità. Eppure, in via generale, c’è nel quotidiano un garbo che mi innamora e mi rivela una delle leggi che stanno alla base del rispetto che respiro in questo paese dell’alba, dell’inizio. Io che vengo dall’Occidente, che di nome, è il luogo che volge al tramonto.

 E allora scelgo di non avere paura della tenerezza di questo mio figlio che va in altalena, scelgo di guardarlo con fiducia mentre lo spingo in avanti e poi lo lascio cadere all’indietro, nel via vai tra due mondi tanto lontani. Decido di vedere il mio bimbo crescere e contenere ogni seme che evolverà.

In cosa, ancora, non so.

Dolcezza, sì, tenerezza e com-passione. Sono doti importanti.

Gli auguro di fare esperienza di ogni sentimento, imparare a individuarlo in sé, poi negli altri. Questo tenterò di insegnargli. A dire di no quando serve, anche quando spererebbe l’altro capisca senza dire, ma non capisce. E scoprirà che, a seconda del fianco di mondo in cui si troverà, sarà diverso.

È un mondo che cambia e si mischia. La dote più importante è la flessibilità, l’intelligenza che porta ad una integrazione, ad un adattarsi senza rinunciare a sé.

 Non smetterò tuttavia di sperare che il tono, in generale, si abbassi. Che inizi ad andare di moda la tenerezza, che il garbo sia la dote più apprezzata da tutti.

E così, quando tutti abbasseremo la voce, basterà sussurrare per sentirci.

Ed una carezza per dire tutto quello che resta.

Che essa non ha parola ma serve.

Serve più d’ogni altra speranza.

 

3 commenti su “Yasashisa

  1. Thomas ha detto:

    Tornato a Roma dopo un lungo soggiorno a Tokyo, resto aggrappato alle suggestive atmosfere del momiji-gari leggendo la seconda parte del tuo discorso sulla tenerezza.
    E penso: “tenerezza è uguale a mollezza?” Personalmente mi sento di escluderlo. La naturale attitudine dei giapponesi alla gentilezza, all’educazione, al rispetto delle regole, infatti, non va secondo me interpretata come segno di debolezza. E nemmeno come compiaciuta assuefazione ad un banalizzato senso di comodo/finto/furbo servilismo. Nel Sol Levante vige una seria disciplina quotidiana legata ai codici di comportamento del vivere, eredità di una storia millenaria, faticosa, dilaniata e dolorosa. Mi riferisco non solo al tempo dei samurai, ma mi trovo a pensare, senza andare troppo lontano nel tempo, agli attacchi nucleari di Hiroshima e Nagasaki. Eventi tragici che hanno modificato la vita e la storia del popolo nipponico in modo talmente radicale, profondo e irripetibile, da aver reso ancora più unico un paese già unico.
    Faccio qualche esempio: il giapponese è un popolo che raramente stringe la mano nel salutare. Preferisce, infatti, l’inchino. Nel comunicare, poi, possiede ed utilizza numerosissimi vocaboli/perifrasi che servono per chiedere scusa, domandare permesso, dire grazie, spesso in modo preventivo, spesso anche quando non è realmente o necessariamente richiesto dalla situazione. Mette in pratica giornalmente, sia in pubblico che in privato, una serie di piccole grandi liturgie/ritualità di educazione nel/del comportamento che sembrano, ma solo in apparenza, ricami sovrastrutturati di ridondante etichetta. Ma è un etichetta che attenua e spegne le scintille di possibili screzi tra situazioni e persone. Il giapponese presta attenzione estrema al rispetto delle regole, seguendole in maniera molto più puntuale e assidua di qualsiasi altro popolo o nazione. Tutti questi codici di vita mostrano, e dimostrano, la tendenza naturale di un popolo/paese a spendere tutto se stesso sul piatto dell’assoluta volontà di non invadere o danneggiare in alcun modo la sfera di esistenza dell’altro. I giapponesi cercano/tessono incessantemente questa pax d’insieme al fine di prevenire ogni possibile minimo focolaio di dissapori. È rispetto? È armonia? È una forma speciale d’equilibrio? È senso della civiltà di un popolo? È onestà? È tutto questo. E possiamo anche definire un tale insieme di cose usando appunto il termine che utilizzi nel titolo: tenerezza.
    Ecco dunque che la cortesia, la correttezza, l’educazione, il senso del limite, sono tutti figli della tenerezza e/o anche suoi genitori. Questi elementi si esprimono chiaramente in ogni azione, dai massimi sistemi esistenziali alle faccende minime edificate su ogni momento di micro-quotidianità spicciola. Pertanto, anche i codificati rituali nipponici di saluto prolungato, celebrati al momento dell’incontro, ma ancor più quelli rappresentati al tempo del commiato, risultano figli, o genitori, appunto, di quella tenerezza. Lo sono i ringraziamenti, caricati su schiene chine e scivolati sopra busti scattanti, guidati da abbassamenti in avanti di spalle che ondeggiano veloci in piegamenti elastici, simil pendolo ritmato, mentre si accompagnano a cori di gratitudine accentata/modulata. Sono una piccola grande musica fatta di parole, versi quasi cantati, che suonano in melodie d’insieme quando si srotolano tra le scoscese bellissime scogliere della lingua giapponese, e quando si riarrampicano sulle pareti di altrettanto complessi e sdrucciolevoli scioglilingua lanciati al galoppo sonoro. Sono fatte di tenerezza anche tutte le strutturate e rigorosamente eleganti danze verbali che prendono vita quando si usa il linguaggio formale. E poi mille altre elaborate modalità di minime/massime interazioni sociali, tutto disciplinatamente messo in scena anche con gesti sincopati e sottili, cioè gli “aizuchi”, piccoli accenni/movimenti corporei/verbali/non verbali, che creano e dimostrano attenzione al discorso, che anticipano, e sostituiscono, e solidificano, e scolpiscono le parole, il loro spessore, la loro consistenza, la loro comprensione, il loro senso.
    È che in Giappone è diverso l’approccio alla vita, spalmato su un range di suggestioni/rappresentazioni emotive che sfilano con garbo leggero e dosato.

    1. Laura Imai Messina ha detto:

      Sempre significativo. Mi manca il tempo per fare qualunque cosa e per elaborare una risposta degna. Il mio è un grazie per il tuo tempo e i pensieri che hai dedicato a questo argomento.

  2. Thomas ha detto:

    Grazie a te per averli apprezzati. Non preoccuparti per la mancanza di tempo. Oggi andiamo tutti così di fretta. Capisco perfettamente che con gli impegni quotidiani, tra lavoro, figli piccoli e preparazione per l’imminente uscita del nuovo libro, non sia affatto semplice ritagliarsi molti momenti personali. Io utilizzo lo spazio di libertà che metti a disposizione nel tuo blog per continuare a rimanere connesso al Giappone anche quando sono in Italia. Spero, in questo modo, di dare un piccolo contributo di esperienza legato ai miei amati soggiorni nel Sol Levante. Ti rinnovo i ringraziamenti per quello che racconti e ti auguro un felice Halloween, che a Tokyo è sempre uno spettacolo di colori.
    Ciao.
    Thomas

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