Vi racconto mia figlia
Ho immaginato da principio tre città, che fossero Roma, Tōkyō e Parigi. Le ho viste fondersi nei lineamenti, divenire una sorta di ‘Rotopa’ o ‘Makyogi’, un ibrido che desse vita a un pasticcio emozionale in cui personaggi di diverse culture e derivazioni si trovassero a rappresentarsi in quella caccia alle farfalle che è la felicità. Li ho immaginati venire a compromesso con la vita, nel loro modo singolare, collidere gli uni contro gli altri, e dare origine a sentimenti che non li lasciano illesi.
Parigi è rimasta, ma come un filone francese, che molto suggerisce dei nomi. Roma è confluita in Tōkyō, e Tōkyō in Roma.
E Clara, che è così calata dentro il proprio mondo interiore, dà alle strade i nomi dei propri pensieri mentre le percorre. Via del Burro da Comprare, Viale del Batticuore, Via della Fuga dal Padre.
Investigare la gioia mi ha quasi turbato: l’ho sempre pretesa ma senza saperne il significato.
Esiste in Giappone un particolare tipo di fuoco d’artificio, si chiama「線香花火」/senkō hanabi/, un sottilissimo filo cui è attaccata una sorta di capocchia che accesa, dopo aver brillato di nervature intense e irregolari, precipita a terra, mettendo fine al gioco. Tutto sta nel tenere quanto più salda e immobile la mano, per far sì da prolungare la fiamma.
Ecco, la gioia è un fascio di minuscoli lampi nell’oscurità, la brevità intensissima di un’esperienza; ma è anche impegno, volontà, concentrazione. È un costante esercizio di manutenzione delle proprie emozioni, un’educazione sentimentale che ci portiamo dietro tutta la vita.
Mi viene spesso chiesto quanto sia contata nella scrittura la mia esperienza personale, di madre cercata, non realizzata, poi successa, ottenuta, rielaborata.
È una prova immensa l’infertilità, così come la perdita di un figlio, in qualunque fase di sviluppo accada. Muore un’idea, un progetto di vita. E la gioia, che è soprattutto immaginazione, ne è per forza di cose compromessa.
La maternità stessa è una cosa immensa eppure fragilissima, così poco incline a piegarsi alla realtà dei fatti. Per dire, la gravidanza è una cosa, la maternità un’altra, e questa va oltretutto declinata all’età del bambino, alle circostanze, perché essere madri di un feto, di un bambino di due anni, di uno di cinque, o di dieci, in una città o un’altra, con un lavoro, un marito, una famiglia o meno, è di volta in volta una cosa diversa.
Si tratta di una condizione di instabilità e insieme di emotività intensissima che a mio parere riesce quindi a descrivere bene quella cosa complicatissima e articolata che è la gioia.
Quando penso a Clara mi torna in mente sempre una frase che lessi molti anni fa. 「置かれた場所で咲きなさい」“Dove sei stato posato fiorisci”, titolo di un delicatissimo libro di Watanabe Kazuko. Lo credo fermamente. Ed ecco un’altra radice del libro, “la felicità nonostante”.
E se a qualcosa serve la letteratura è a sviluppare empatia nei confronti del mondo, quello più prossimo e luccicante, e quello che pare aggredire tanto è in difficoltà.
L’altro è il Giappone, ma anche un altro distinto, che ogni individuo si porta addosso il proprio universo, attaccato alla schiena come una conchiglia. E talvolta vi si ritrae pure dentro, impaurito.
Forse è per questo che i miei romanzi sono sempre assai popolati, e le storie, d’inizio divise, si vanno mischiando fino a bruciarsi l’una nell’altra come falene sul fuoco.
Ed è sempre per questo che i finali sono importanti, che ho distribuito una porzione di gioia a tutti, che l’intreccio è colmo di colpi di scena, studiati negli anni come naturalmente destinati a svilupparsi così. Esattamente così.
C’è una frase di Stevenson in cui mi sono imbattuta di recente e che avrei probabilmente inserito in epigrafe, tra le tante che ho posto come una spilla sul petto di ogni capitolo, a battere il ritmo del libro: “Non esiste alcun dovere tanto sottovalutato quanto l’esser felici”.
Ecco, vivere al meglio è innanzitutto un esercizio di volontà, qualcosa per cui dobbiamo (dobbiamo!) affilare tutti i nostri strumenti.
Credo questo romanzo spieghi che la gioia è una intenzione innanzitutto, una scelta. Che tuttavia non c’è nulla da meritarsi e che spesso le cose migliori arrivano senza diretta conseguenza dei nostri atti. Il tempo passa comunque, per tutti, e spesso ripara, e la vita che ci è stata data, dipende nella maturità in gran parte da noi. Insomma, si può davvero essere felici, non è una chimera, da qualunque punto si parta.
Ed io? Ecco, io vorrei avere l’allegria disinvolta di Momoko, il suo esser fuori contesto e proprio per questo rendersi in grado di cambiare la vita degli altri in meglio, la generosa bontà di Marcel, la consapevolezza profonda di Jean.
Credo di riconoscermi in Clara, per via del suo controllo maniacale, della tenacia e del perfezionismo che esercita nella speranza di rendere il mondo intorno a lei più riconoscibile, per l’ossessione che ha di salvarsi da un’emotività che spesso la schiaccia, e insieme per il fascino immenso che malgrado tutto prova per la vita che la circonda e di cui vorrebbe tanto far parte.
Come ho già scritto più volte sono arrivata io stessa alla maternità dopo una dolente odissea, e Non oso dire la gioia l’ho scritto nei circa tre anni che corrispondono alle mie cure contro l’infertilità – esperienza che mi ha spiegato come in certi ambiti non esista corrispondenza alcuna tra l’impegno e il risultato (cosa sconvolgente per me, che ho sempre sentito di dovermi meritare tutto quanto di bello cui ambivo, come se una felicità immeritata fosse instabile, insicura), a quello che mi fu annunciato come un aborto, alla prima difficile gravidanza, alla nascita di mio figlio Sōsuke, a un nuovo ciclo di cure e alla seconda gravidanza che mi ha reso ancora madre a luglio 2017. Due maschietti.
Ecco, so per certo che se mi fosse nata una figlia l’avrei chiamata Gioia.
La più bella recensione che abbia mai letto. La bellezza di questo libro, non sta solo nel racconto, nella trama in sè, ma in tutto ciò che è stato prima, che tu ci hai raccontato. Chi ti segue qui e in in FB, penso si trovi inconsapevolmente a sedere un posto privilegiato, perchè leggendolo saprà molte cose che ai più è sconosciuto. Insomma un preambolo costruito giorno dopo giorno, che ci permette, a noi lettori, di addentrarci pienamente nella lettura di questa gioia autentica. Gioia, l’averti trovata. Un abbraccio.
Ciao Laura! Con il mio consueto ritardo arrivo… Fra pochi giorni avrò finalmente il tuo libro fra le mani (e devo ringraziare La scatola lilla per la loro professionalità e gentilezza immense) e non vedo l’ora di leggerlo. Ho seguito con estremo interesse il tour, le varie tappe, le vicissitudini della neve, i bimbi e tutto il resto. Anche se non sono iscritta a Facebook, seguo tutti i tuoi post e rido insieme a Sousuke e a Ryosuke. Grazie per condividere con noi le tue emozioni, grazie per descriverci il Giappone che amo tanto. Se tutto va bene, ad agosto potrò finalmente tornare e immergermi di nuovo nel melograno che è Tokyo. E chissà che non ci si possa incontrare 😉
Un abbraccio e in bocca al lupo per tutto.
Ciao Laura!
Ho scoperto il tuo sito grazie all’intervento a “Kilimangiaro”, in cui mi sei piaciuta molto, e dunque spinta dalla curiosità, eccomi qui!
Studio lingua e cultura giapponese all’università e l’accenno all’applicazione per smartphone riguardo le 72 stagioni giapponesi mi interessa molto; potresti farmi sapere qual’è, cortesemente?
Ti ringrazio è appena ho un po’ di tempo, cercherò di recuperare tutti i tuoi post.
Buona giornata!
(P.S non vedo l’ora di poter venire in Giappone per studio e anche per viaggiare! Magari a Tokyo riusciremo a beccarci, chissà!)
Un abbraccio!
Cerca qui nel sito “72 stagioni”. Trovi un post ad esse dedicato.
L’applicazione è in lingua inglese! 🙂
In bocca al lupo con i tuoi studi!!! 頑張ってね~!
Laura
Dopo qualche settimana, la mia memoria torna volentieri alla presentazione del tuo ultimo romanzo: “Non oso dire la gioia”.
Devo dire che incontrarti di persona all’Auditorium, in occasione di “Libri Come”, è stato davvero arricchente. Mi ha fatto piacere, in particolare, riscontrare tanta simpatia, affabilità e umiltà, in una persona così piena di impegni, sia personali che editoriali. Ho apprezzato anche la grande pazienza che hai (di)mostrato nel ricevere, con sorridente disponibilità, tutti i lettori in fila, dedicando ad ognuno di essi sorrisi, tempo ed ascolto, in modo paritario ed in eguale misura. È un segno di alta professionalità e di grande rispetto nei confronti del pubblico, attitudine positivamente amplificata dal fatto che sicuramente sarai stata anche molto stanca dopo un tour de force di un mese di presentazioni (andando in giro per il Bel Paese anche sotto la neve, in un fine Febbraio davvero rigido). Insomma, un’esperienza proprio positiva quella di Sabato 17 Marzo. Valeva davvero la pena di attendere pazientemente all’interno della libreria per poter scambiare qualche parola chiacchierando amichevolmente. Tra l’altro, mentre ero in coda, ho incontrato, pensa un po’, anche Fabrizio Patriarca, l’autore di “Tokyo Transit”. Con lui ho parlato di libri, viaggi e, manco a dirlo, Giappone. …Sai, scherzando fra me e me, mi sono divertito ad immaginare che forse siamo tutti componenti (in)consapevoli di un club non ufficiale che riunisce persone con interessi comuni e passioni convergenti. Che dire…pur in questa situazione di fantasia che ho mentalmente creato, sono contento di appartenere a questo mini circolo virtuale. Ok, tornando all’incontro, passo, adesso, ufficialmente, a “Non oso dire la gioia”. Che è, ovviamente, l’argomento più importante di cui occuparci. Devo dire che, non appena è stato disponibile per l’acquisto, l’ho immediatamente comprato, spinto ovviamente dalla curiosità, ma anche dal desiderio di riassaporare le atmosfere del tuo primo romanzo “Tokyo orizzontale” (che ho amato molto). Però, al contempo, ho anche deciso di non cominciarlo subito, facendo trascorrere qualche settimana prima di iniziarne la lettura. Volevo, infatti, secondo una mia personale forma di approccio preparatorio e propedeutico al romanzo, partecipare innanzitutto a “Libri Come”. E, solo in seguito, leggerlo. Il mio intento era quello di evitare che il conoscere anticipatamente le vicende raccontate m’inducesse a sviluppare un’opinione preventiva sviante rispetto alla presentazione. Non volevo finire fuori rotta, rischiando di deragliare dagli appropriati binari di comprensione dei concetti da te espressi. Solo dopo l’incontro all’Auditorium, pertanto, sarei stato realmente pronto all’immersione nella storia che hai pubblicato. Penso, ora, nello specifico, che le opinioni che hai prodotto durante la conferenza, con le conseguenti originali riflessioni riguardanti i personaggi protagonisti del racconto, abbiano funto da efficace “libretto di istruzioni letterarie”. Ciò mi ha permesso di “sciogliermi” meglio tra le righe, procedendo gradualmente all’interno della storia narrata. Così ho potuto comprenderla nella maniera più chiara e completa possibile. Volevo, infatti, iniziare totalmente da zero e privo di sovrastrutture, ma comunque in possesso delle giuste indicazioni di direzione. Ecco, questo era il piano. Un piano che, già ai blocchi di partenza del libro, mi ha regalato una sensazione di solida e sincera neutralità. E così sono partito, muovendomi da questo luogo mentale che, col senno di poi, è sempre la base migliore da cui cominciare per affrontare le cose col passo giusto. Ho potuto, in questa maniera, provare un discreto insieme di emozioni nuove e positive, non zavorrate da altri tipi di barriere precostituite di pensiero. Si tratta, per il mio senso delle cose, di una condizione emotiva che mi piace paragonare alle sensazioni vissute da un esploratore addentratosi in una giungla incontaminata alla ricerca di un nuovissimo tesoro nascosto. In una parola: pura avventura.
Esatto, sì, proprio questo: pura avventura. L’avventura del leggere. Poi, nel tempo a venire, cioè via via che m’inoltrerò sempre di più nei meandri di “Non oso dire la gioia”, ti farò sapere quali altre sensazioni nasceranno in me. A giudicare dai primi capitoli, comunque, (sono arrivato a pag. 72) si stanno concretizzando emozioni proprio positive e originali.
La prosa utilizzata è armoniosa e morbida, mai stucchevole. Lo stile è molto elegante, ma non eccessivamente formale, né autoreferenziale. I periodi e le frasi si intrecciano con perfetto incastro in una trama ricamata e piena di sfumature, eppure mai pesante. Anzi, il tutto è sempre molto scorrevole e “musicale”. Le riflessioni sono acute e intelligenti, senza “cerebralismo”. I personaggi sono raccontati con dovizia d’informazioni e con profondità, ma senza scadere nel didascalico o nel nozionistico.
Davvero ben scritto, bello. Complimenti.
Ok, per adesso, penso di poter terminare qui. A questo punto, allora, non mi resta altro da fare che salutarti, augurandoti il meglio per tutto. E, visto che quando leggerai il mio post, sarai già tornata a Tokyo da un bel po’, mi rituffo nella tua/nostra amata dimensione nipponica (con cui entrambi abbiamo a che fare ormai da più di un decennio) porgendoti un saluto universale giapponese:
Ganbatte ne! – Coraggio, forza, impegno!