Un boccone alla volta

Non ho mai avuto l’idea che si debba affrontare tutto. Né subito né, soprattutto, tutto insieme. Credo nell’importanza di prendere la vita poco per volta, di lasciarla pure fuori dalla porta quando si sente che, entrando, alzerebbe una tempesta. Per questo, anche il lutto per me è una cosa che si affronta non in giorni né mesi, ma in anni. L’oriente me lo ha insegnato. Io non ho fretta.

Ieri, scrivendo il romanzo, nella playlist è entrata per sbaglio una canzone italiana, una di quelle che mi riportano a Roma, al Giulio Cesare, a mio padre che la metteva su in macchina. Mi sono “accorta” – come mi accorgo un numero imprecisati di momenti in un anno – che lui non c’è più. Sono questi i momenti in cui affronto, a minuscoli bocconi, il lutto. Ho pianto piano, non ho chiamato nessuno. Non volevo che dilagasse perché in questi anni non ho il tempo e la forza mi serve per camminare dritta. L’ho riposto quindi in una delle infinite tasche che ha una giornata.


Ad alcuni paio forse anche assurda, una che tiene il dolore lontano, una che rimuove. Ma io non rimuovo, affronto le cose piano piano. Nei giorni in cui ho quella larghezza nel petto che i giapponesi spiegano con l’espressione 余裕がある “yoyū ga aru”, infilo le dita in quella precisa tasca, esploro l’emozione della sua assenza, e allora ne avverto non solo il pericolo ma anche la dolcezza.

«Il lutto è come qualcosa che si mangia ogni giorno, un panino fatto a piccoli pezzi e ingurgitato con calma. Oggi l’orecchio del pane, il granello rimasto di riso, domani il giallo spaccato del limone. La digestione era lenta.»

Me lo spiegò con la sua pacatezza Yui in «Quel che affidiamo al vento», e io le sono ancora grata.
Perché anch’io sono così. Affronto le cose più grandi e difficili un boccone alla volta. 

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