Goro goro 1

「七転び八起き」/nanakorobi yaoki/ “Cadere sette volte, rialzarsi l’ottava”
È uno dei miei proverbi preferiti.
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Perchè le volte potrebbero essere anche dieci, venti, cento. Ma è quell’undicesima, quella ventunesima, quella centounesima che fa la differenza, che definisce la tempra di un uomo e di una donna. La loro determinazione, l’attitudine alla gioia.
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Che poi basterebbe un po’ di lungimiranza e insieme un po’ di osservazione del passato.
Dietro a un successo quanti fallimenti ci sono? Di sicuro ci sono più fallimenti che successi nella vita di ognuno. E chi quei fallimenti non li ha guardati da vicino, spesso non sa come riprendere il cammino se mai gli capita di perdere la strada.
Quando mi dicono che sembro forte, anche se raramente mi ci sento, capisco che in fondo è un poco vero. Perchè? Perchè ho dovuto sempre faticare per ottenere ciò a cui tenevo, perchè nulla è arrivato con semplicità, gratuitamente.

Perchè, fondamentalmente, so da dove ha origine la mia felicità.
E quando la smarrisco, dopo un primo momento, ricordo quante volte ce l’ho fatta. Ricordo la strada percorsa le altre volte.
Riprendo il sentiero. Ricomincio a camminare.
Ed è per questo che l’ho inserito in “Goro goro”, perchè è un messaggio che vorrei arrivasse a chiunque, a grandi e piccini.

La scrittura è una bambina

Ricordo che scrivevo e piangevo. Scrivevo e piangevo.
Ero al secondo piano dello Starbucks accanto alla stazione di Kamakura, nell’angolo più appartato, sola.
E, come si trovasse subito dietro di me, nella coda dell’occhio che, per quanto mi voltassi, si spostava sempre un poco più a destra o sinistra, c’era il mare.
Rivedevo l’acqua ingoiare la città – una qualunque – e strappare la gente come erbacce, un cane – un piccolo cane giallo, circondato e poi assalito dalle onde. Lo tsunami riportare tutto al livello elementare: la vita o la morte.
Il ricordo di uno di quei 45 giorni in cui ho scritto “Quel che affidiamo al vento”, è tornato su per una musica che ascoltavo incessante in quelle ore, uno dei brani che non ho potuto inserire nel libro (♪”Happiness does not wait” di Olafur Arnalds) ed è entrato per caso in questa giornata, e per la lettera di una figlia e di una madre – una delle tante che mi giungono ogni giorno (ogni giorno!) su Instagram o altrove – che raccontava di due perdite importanti, una sorella e un padre, e di come il libro avesse fatto a entrambe bene.
La scrittura ci supera sempre, ho pensato. E’ come la bambina dal passo più svelto che corre, va avanti a vedere e poi si volta felice, torna, ci prende per mano e ci dice “Fai presto, che è bellissimo lì!”, “Ma dove?”, “Poco più in là. Vieni, vieni a vedere!”.
E in ogni momento, anche uno infelice, penso che sia quella bimba, precisamente quella che va in avanscoperta e mi anticipa la gioia di quanto mi aspetta, a salvarmi il cuore. E quindi la vita.
La felicità, no. La felicità non aspetta.
*In foto qualche tempo fa. Quando ho capito per la prima volta quanto la gioia di una addizione coincidesse perfettamente con la paura della sua sottrazione.

Di Hōrai o delle cose di cui non si immagina più l’assenza

È shinkirō 蜃気楼, il “miraggio”, l’effetto “Fata Morgana”, che muta la visione dell’orizzonte.
L’inversione termica che si crea nell’aria, ma un tempo una “atmosfera fatta non d’aria ma di fantasmi, generazioni d’anime a quintilioni”, che si inalano ed entrano nel sangue – come scriveva in “Kwaidan” (Ombre giapponesi, Adelphi) Lafcadio Hearn.
 
In antichi testi cinesi, si spiega come all’orizzonte si sprigionasse la visione di Hōrai, la città sacra che – una volta saputa, immaginata, a suo modo vista – mi torna alla mente ogni volta che l’occhio va lì, sulla linea così traballante e imprecisa, che pare disegnata da un ragazzino e una matita.
 Ecco, dopo aver letto di Hōrai, non c’è volta che non guardi l’orizzonte a quella maniera. E cerchi i portali, i “tetti ricurvi a mezzaluna”, il “Palazzo del Re Drago“ della leggenda.
 
Chissà a quanti di voi è capitato.
Di conoscere la gioia di uno spazio che neppure sapevate esisteva e di cui però, nel crearlo, nel frequentarlo, non riuscite più a immaginarne l’assenza.
 Così Hōrai, così una nuova persona nella propria vita.
 Le mie giornate si aprono ultimamente a questa maniera. Con questo stupore tutto piegato ai passi – nelle lunghissime passeggiate che faccio per le stradine di Kamakura, lungo l’oceano, sulla spiaggia e oltre gli antichi ingressi che si arrampicano sulla montagna – e alla parola.
 Cammino e ascolto, cammino e parlo.
 
 Ci sono persone che hanno il potere di allargarti la vita. Anche una vita “strettissima” come la mia, in cui pare non ci sia spazio per nulla, in cui tutto debba essere piegato all’efficienza, ai libri, allo studio, ai bambini, alla famiglia. E invece, ecco che tutto cambia.
 
Provo un amore profondo per l’essere umano che è nelle persone – pochissime, importantissime – che frequento. Di queste una, recente e già tanto importante, con cui adoro tacere (in tutto il tempo trascorso tra un dialogo e un altro, un tempo che si riempie tuttavia dell’eco di quanto ci si dice) e parlare, in un dialogo che ha un luogo e un tempo diverso.
Vocali – soprattutto vocali – che rispettano il fuso orario, di ognuno i tempi, la cadenza del parlato, il rimuginare velocissimo o lento.
 
Vorrei consigliarlo a tutti, per la gioia profonda che porta.
 Trovate una persona cara, anche lontana, qualcuno che – parlando – vi allarghi la vita.
 Ascoltatela raccontare le sue storie, senza l’ansia dell’interruzione, della battuta sagace. Raccontatele a vostra volta le storie che vi hanno reso le persone che siete, il desiderio di tornare in un luogo del cuore o in uno che vi ha fatto male, magari camminando per le strade della vostra città, dite come vi sentite, ricordi d’infanzia, il verde preciso che avete di fronte.
 
 Non guardate l’ora. Impiegherete tre minuti, poi sette minuti, quindici, trenta. Potreste arrivare anche a un vocale di un’ora. E sarà una bellissima ora.
 
 E ciò che una volta non c’era – come la visione della città sacra di Hōrai all’orizzonte -, d’un tratto vi parrà impossibile non ci fosse prima.
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*In fotografia (JR) il Castello Ōno nella prefettura di Fukui, chiamato anche “Laputa” per l’effetto suggestivo di sospensione dovuto alla nebbia che si crea nella zona. E Ishida Tetsuya.

La storia migliore della mia giornata sono un anziano e una pallina

 La storia migliore della mia giornata sono un anziano e una pallina.

 L’anziano non lo conosco, la pallina era verde. E, a distanza di un giorno, ancora non conosco l’anziano e la pallina è sempre verde, forse un po’ più consumata di prima.

 Stavo passeggiando per Kamakura in questo mercoledì di oceano e di sole, ascoltando voci, a mia volta registrando vocali fiume.

 Ed ecco questo anziano ingolfato per il freddo che procede lungo la strada, in una passeggiata che immagino quotidiana come quella della sottoscritta. Si ferma. Una pallina verde (quella) poco dentro la strada, ma di chiara appartenenza altra. Con la punta della scarpa l’ha spinta verso l’interno della rientranza – uno spazio dedicato probabilmente a parcheggiarvi una bicicletta. Ma il terreno era scosceso e, per quanto calciasse la sfera, quella tornava alla strada. E poi alla scarpa, che riprendeva a spintonarla, come un corpo a Tōkyō nella calca di un treno all’ora di punta, che oscilla e torna di peso su un altro e a intervalli ritorna.

Il movimento dell’anziano si è fatto vivace. L’occhio pure. C’era l’attesa, mi è parso, che tornasse la pallina alla strada e che lui la potesse colpire di nuovo.

 L’ho fotografato di spalle, per non cancellarne la memoria. E girandomi a guardarlo, a intermezzi sempre più ampi, finché non si è curvata la strada, era ancora lì. Ad avere a che fare con la pallina e la sua attesa.

 Era bello da vedere. Il bambino che sale. Come un cibo non digerito, che torna (piacevolmente) su nel sapore.

 Spesso mi domando cosa succeda quando si dismetta la fretta. Quando si sia già vissuta la vita nel modo in cui si intende la vita, ovvero gli impegni, il mirare ansioso e ingordo verso qualcosa. Mi domando se non sia saggio, prima di invecchiare, iniziare a dedicarsi porzioni di vita senza obiettivo.

 Fare dell’inutile una quota del giorno, scoprire come sia abitare il corpo, guardare il mondo – senza volerlo possedere neanche per errore.

 Altrimenti, a pensarci, del tempo mi viene paura.

 

Dopo 124 anni, setsubun

Dopo 124 anni, oggi setsubun 節分 è il 2, anziché il 3 di febbraio.
Al di là dello studio di cosa esattamente sia setsubun 節分, quel che resta nella memoria ogni anno, ciò che amano specialmente i bambini, è mame-maki, ovvero l’usanza di gettare fagioli di soia nelle stanze della casa per cacciare il malocchio.
È un grande trambusto, un adulto finge d’essere l’oni, ossia l’orco, indossa una maschera spaventosa spesso disegnata dai bimbi stessi, e i fagioli chiamati fuku-mame , letteralmente «fagioli della fortuna», finiscono ovunque. Li si ritrova anche dopo mesi, in luoghi a dir poco bizzarri.
Durante il precedente trasloco ricordo ne trovammo sotto la lavatrice, nella scatola delle decorazioni natalizie, dietro la libreria, persino in fondo a un cassetto di biancheria.
Come vuole l’usanza del setsubun, anche noi abbiamo spalancato la porta di casa e a gran voce abbiamo strillato: – Fuku wa uchi! Oni wa soto! «Fortuna, dentro! Orchi, fuori!»
Bisogna serrarla subito dopo, la porta, però, affinché i demoni che sono usciti (liberando la casa dal malocchio) non rientrino di nascosto.
da “Tokyo tutto l’anno: Viaggio sentimentale nella grande metropoli” @einaudieditore con illustrazioni di Igort.