Pizza e sakura

Suona un po’ come il titolo di un film ma e’ esattamente il leitmotiv della giornata.

Siamo andati a mangiare la pizza piu’ buona di Tokyo (de gustibus, e’ ovvio ^^) a La Piccola Tavola a Eifukucyo 永福町.

Poi tornando abbiamo visto una lunghissima fila di ciliegi in fiore e siamo scesi subito dal treno, a Takaido 高井戸, sulla Linea Inokashira.

Un passeggiata lungo il fiume Kanda, tante foto e poi di nuovo Kichijoji.

Acquistato il pc, riprenso l’autobus (oggi minacciava pioggia quindi abbiamo lasciato la bicicletta al parcheggio) e tornati a casa dove abbiamo fatto indigestione di torta.

In mezzo a tutti questi eventi tante piccole delizie umane.
Ma ora mi aspetta la pianificazione della prossima settima e una traduzione italiano→giapponese che ha piu’ dell’impossibile che del possibile.

Per questo, stasera, soltanto tante foto. ❤

Ventisettenne OTTO

Un giorno speciale che non lo sembra affatto. Di candeline e di tanti auguri, tanti auguri, tanti auguri a te. E’ Ryosuke che fa gli anni.

“Quante candeline?” chiede la commessa del bancone della piccola pasticceria all’interno di Atrè a Kichijoji.
“Ventisette… la vedo difficile” sorrido.
Specchio riflesso e mi ritorna indietro il sorriso.
“Che ne dice di due grandi e sette piccole?”
“Perfetto!”

La sveglia che suona a lungo stamattina. Una, due, tre, sette, OTTO volte. E il mio 8 non si sveglia, incagliato nel cuscino, continua a risettare l’orologio che grida ogni mezzora senza essere ascoltato. Non riusciamo proprio ad aprire gli occhi.

Forse è stata l’ora tarda che ci ha imposto ieri il terremoto, il susseguirsi di notizie di cui si ha una gran fame ogni volta che capita qualcosa. E’ per capire dove si è, in quel preciso istante della Storia presente. Allora giù di televisione, di NHK, giù di skype e di facebook. Giù di blog e giù anche di google.

Ubriaca di notizie rifletto sul primo spasmo di emozione successivo al terremoto.

Le coccole alla Gigia prima di tutto. Poi il pensiero al mio 8 in treno verso casa.
Ma subito, subito dopo internet, la pagina facebook. La comunicazione di servizio che passa dalla porta principale.

Son qua. Ho avuto un po’ paura ma non è successo niente di che. Tutto bene. Grazie a tutti.

Ed esser sola a casa non fa più nè caldo nè freddo. E’ più il tiepido calduccio equilibrato che ti fa sentire in compagnia, capìta, contestualizzata ed “esprimente”. Perchè parlare e comunicare è il modo migliore per equilibrare.
Senza internet questo terremoto (e per questo intendo quello di quasi un mese fa) non me lo saprei proprio immaginare.

Una gran nausea oggi. E’ il sonno interrotto e acchiappato più e più volte. Alla fine Ryosuke fa tardi al lavoro, usciamo che è mezzogiorno.
Di nuovo fino a Shibuya per passare più tempo con Ryosuke, di nuovo fino ai tornelli della Yamanote, di nuovo alla panetteria francese che ho scoperto solo ieri al quarto piano della stazione di Shibuya.
Riprendo l’abitudine al romanzo e so che sarà dura continuare tutto da lunedì quando il lavoro riprenderà a (quasi) pieno ritmo.

Ma oggi è il compleanno di Ryosuke, del mio otto, del mio 8, del mio 夫. E anche se sono le 22.40 e lui e’ ancora in ufficio a Shinagawa, anche se dal momento in cui uscirà di lì gli ci vorrà un’altra ora e mezza prima di arrivare e anche se facendo un veloce calcolo arriverà a casa che il giorno del suo compleanno sarà già finito, io gli preparo la pasta mari e monti, quella con un buon profumo di rosmarino comprato fresco nel pomeriggio al supermercato e infilzerò le due candeline grandi e sette piccole nella roll cake alla frutta che è la sua preferita.

*夫 (おっと)significa “marito” in giapponese e si pronuncia proprio “otto”, come il numero in lingua italiana.

** In foto alcune persone che ho visto ieri a Nakameguro e la Gigia tra le scarpe di Ryosuke, stamattina, nel momento in cui stavamo per uscire.

Okiagari-koboshi o della perseveranza

Accanto alla finestra, tra una pianta di ulivo comprata anni fa a Kichijoji e una pachira che abbiamo chiamato come il mio cagnolino defunto, accanto a due grandi daruma, simbolo di un desiderio esaudito e di un altro che attende e che lotta, c’è un oggettino di 5 centimetri per 3.5, di colore bianco e rosso.
Linee sottili di nero gli animano il volto e un obi rosso circonda il suo pancione.

Quasi due anni fa, per il mio ventottesimo compleanno Ryosuke mi fece un regalo molto speciale.
Era un periodo di grandi cambiamenti. Il mio primo incarico all’università, il lavoro di Ryosuke in società iniziato ad aprile, i preparativi per il matrimonio imminente, l’arrivo dei miei parenti per il loro primo viaggio in Giappone, il romanzo che aveva preso infine forma, l’idea di un trasloco e il sogno di cagnolino da adottare.

E si sa che i mutamenti vengono sempre assorbiti dalla quotidianita’ con lentezza e mai senza fatica, per quella sana resistenza che essa esercita nei confronti di tutto ciò che è nuovo e che rischia di stravolgerla.
Così Ryosuke, in quel 16 agosto 2009, mi regalò un “okiagari-koboshi”
起き上がり小法師.

Mi disse che l’aveva acquistato subito accanto alla stazione di Tokyo, in un negozietto che trattava artigianato e prodotti tipici della prefettura di Fukushima. Lo aveva cercato sul web alcuni giorni prima e, per farmi una sorpresa, era corso a comprarlo subito dopo l’orario di lavoro a Shinagawa e prima di recarsi alla sede centrale della società ad Hamamatsuchō per una riunione generale. Quel poco tempo strizzato tra treni e tornelli per custodire il segreto. La sorpresa del regalo.

La signora del negozio l’aveva trattenuto a lungo e Ryosuke quel giorno fece tardi alla riunione. Quando lui le chiese l’okiagari-koboshi, specificando che si trattava di un regalo di compleanno per sua moglie, lei si mostrò felicissima:
“Sa, vengono spesso turisti cinesi a comprare e quando propongo loro questo oggetto come souvenir lo rifiutano dicendo che non è abbastanza caro, che è troppo semplice. Un vero peccato. Eppure è un oggetto con un significato così profondo”.

Originario della città di Aizu nella prefettura di Fukushima, l’okiagari-koboshi (letteralmente “monico che si rialza sempre)”, è un oggetto di artigianato la cui produzione risale a 400 anni fa. A quel tempo il daimyō Gamō diede ordine di fabbricare queste bamboline come souvenir da vendere in occasione del capodanno.

La caratteristica principale di questo oggettino, che spiega anche il suo nome, è il fatto che pur spingendolo giù si rialza sempre.
Nonostante le sue piccole dimensioni, l’okiagari-koboshi è infatti simbolo di pazienza e perseveranza e, per questo, è considerato un portafortuna per il lavoro, la famiglia, i soldi.
Ancora oggi ogni anno nella città di Aizu durante il primo mercato dell’anno, che si tiene per la precisione il 10 gennaio, vengono vendute queste bamboline di cartapesta.
Se la famiglia è composta da tre membri se ne compreranno quattro, se è formata invece da quattro membri si acquisteranno cinque bamboline e così via, secondo la tradizione che vuole che se ne ponga sempre uno extra sull’altarino domestico.

E proprio per questo messaggio di speranza e di determinazione di cui è pregno, che mi è venuto immediatamente in mente appena è accaduta la recente tragedia in Giappone.
Così, penso, proprio come l’okiagari-koboshi, la stessa gente di Fukushima, colpita da triplice disastro, si rialzerà.

Da quel 16 agosto 2009, a distanza di un mese, scegliemmo lo stesso oggetto come bomboniera per gli ospiti italiani del nostro matrimonio italo-giapponese a Kamakura. Sia per quelli che parteciparono alla cerimonia che per quelli che, fino in Giappone, non riuscirono a venire.
La semplicità dell’oggetto forse stupì, ma per me e Ryosuke voleva essere un dono importante.

Io stessa quando sono sfiduciata, quando penso che non ce la farò, che sono giù e non so come uscire da una situazione di difficoltà, guardo il mio piccolo okiagari-koboshi, quello tra la pianta d’ulivo e la pachira , accanto ai due daruma enormi a suo confronto, e gli do una bottarella.
E, nel vedere che resiste e che ogni volta si rialza, mi dico “Forza Laura, anche questa volta ce la farai. Forza, Laura. Ganbare, ganbare!”

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Numeri a tavola

Dati, numeri e ancora dati. E ancora numeri.
Come sempre accade di fronte a uno sconvolgimento sociale dovuto a un qualche evento naturale e non, entrano nel vocabolario di tutti i giorni termini che non avevamo mai pronunciato. Parole magari lette su carta stampata con prevedibile indifferenza, ma che non erano mai state utilizzate all’interno di una conversazione “normale”, di argomento quotidiano.

Oggi sfogliando l’edizione serale del giornale ASAHI (朝日新聞) ci ho fatto caso. E poi di nuovo parlando con Ryosuke e con i suoi genitori.

シーベルト Sievert, “l’unità di misura della dose equivalente di radiazione nel Sistema Internazionale ed è una misura degli effetti e del danno provocato dalla radiazione su un organismo”

ベクレル Becquerel , “l’unità di misura del Sistema internazionale dell’attività di un radionuclide (spesso chiamata in modo non corretto radioattività)”

E la prima cosa che mi domando, da letterata piu’ che da scienziata, e’ chi fossero quei due signori. E’ curioso quanto una scoperta, che porta il nome di chi l’ha creata, possa risultare confortante o terrorizzante al tempo stesso. Watt, Volt, Herz, Joule… e anche Rolf Maximilian Sievert, uno scienziato di origine svedese e Antoine Henri Becquerel, che “nel 1903 vinse il premio Nobel insieme a Marie Curie e Pierre Curie per il loro pionieristico lavoro sulla radioattività”, dice Wikipedia.

Poi arriva la cena, si parla della stampa italiana. Mi chiedono se si ingrandiscano ancora cosi’ tanto le notizie. Lo affermo, mi arrabbio. Li vedo delusi e quasi mi pento. Ma prometto battaglia, informazione. Di dire cio’ che e’ bello e anche quel che e’ brutto. Gli parlo del gruppo facebook, fiera del fatto che siamo giunti a oltre 870 elementi e che le discussioni sono sempre accese e interessanti. Mi allungano il piatto di karage e mi chiedono se riesco a dormire ultimamente.

Si parla anche di acqua, dei livelli di radioattivita’ che sono tornati ad abbassarsi, della presenza o meno di bottiglie d’acqua minerale in casa e dell’eventualita’ di comprarne comunque per la Gigia, una volta che tornera’ a casa con noi. La Gigia sta tra i piedi miei e di Ryosuke e le basta quello per raccontarci tutta la sua settimana. E basta anche a noi per raccontarle tutto cio’ che conta.

Il calendario accademico non mutera’ e mi sento cosi’ sollevata. Tutto tornera’ alla normalita’ pian pianino, ci vorra’ ancora del tempo ma essa, la quotidianita’, avra’ allora per tutti noi decisamente un valore aggiunto.

"Il solito, per favore!"

Se da una parte il blog e il gruppo facebook mi hanno dato la possibilità di percepire un’energia nelle persone che forse mai mi era accaduto di sentire (e mi ha sorpresa), dall’altra non vedo l’ora di ritornare alla mia solita vita.

Il portatile in borsa con dentro custoditi i miei romanzi, le lezioni all’università, gli studenti e la sottile ansia che accompagna ogni nuovo incontro, le torte salate e i guanti spaiati con cui le estraggo dal forno, il ritorno di Ryosuke a casa ogni sera e non dedicarmi ad altro che a lui, sentire i suoi racconti, offrirgli i miei e andare a dormire con quelli di entrambi mescolati nella testa.

Le passeggiate con la Gigia, il suo sederotto buffo, le orecchie a forma di antenne e le pulizie di casa per riparare ai suoi unici doni: i peli. Usaghino, i discorsi del cuscino, i caffè con Miwa, le chiacchierate con Keiko con la sua splendida bimba sempre in braccio,  i discorsi che s’aprono a ventaglio. La Banda di Marco, Carla, Sara e Alessandra. Il dottorato a cui ho pensato ormai abbastanza per decidere che è arrivato il momento di provare a realizzarlo. Il corpo, il mio fioretto, la lingua giapponese che non mi basta mai.

I treni, scrivere nel ventre della Tozai, della Sobu, della Chuo o della Yamanote. La massa di gente stipatavi dentro e la sensazione di divenire parte del corpo di un altro. La spesa in bicicletta, il cestino che trabocca di verdure.

E già non vedo l’ora che sia estate per andare con Ryosuke a Sendai per il Festival di Tanabata e abbracciare così virtualmente anche Matsushima e le zone più colpite dal terremoto e dallo tsunami.

Difficilmente si potrebbe amare così tanto una città e una popolazione. Io devo al Giappone la realizzazione di tutti i miei desideri e, quando si riceve così tanto, ricambiare è d’una ovvietà inesprimibile. Diviene addirittura una necessità.

Fosse un cibo sarebbe “il solito”. Quello che, varcata la soglia del ristorante, il cameriere ti porterà immediatamente. Senza bisogno di ordinazione, perchè ha già capito, perchè chiedi sempre lo stesso e sei diventato così prevedibile che quasi non esistono eccezioni.

Sarà che ultimamente mi è passato l’appetito e al cibo penso spesso ma di questo sono assolutamente certa: se il Giappone, e Tokyo soprattutto, fossero un piatto io non ne avrei mai abbastanza.

“Il solito, per favore!”


がんばれ日本! Forza Giappone!

*La prima foto l’ho scattata a Shibuya qualche giorno fa, la seconda in estate dal Mori Museum di Roppongi