Una conversazione ascoltata al tavolino accanto di un caffè a Takadanobaba mi ha profondamente inquietata.
Di piccole distanze e impercettibili spostamenti. Da un caffè all’altro a scrivere e studiare dopo il lavoro. Una mattina, stamattina, che mi infila nel treno pieno zeppo di gente della Linea Tozai. Faccio una fermata a ritroso per scendere al capolinea e aspettare il treno ancora successivo. Tante sono le persone che ordinatamente stanno in fila ad attendere di entrare. Ma almeno poi posso sedermi e sfruttare quella mezzora di tempo per limare la bozza del secondo romanzo di cui, tra ieri e oggi, ho buttato giù il finale.
E dopo l’università, quella in cui entrando la mattina presto si possono sentire le voci dei ragazzi che gridano mentre fanno kendo, vado a Takadanobaba. A smangiucchiare, a scrivere e studiare. Ma mangio, scrivo e poi mi interrompo.
Nel posto libero accanto a me, un ragazzo appoggia la sua borsa. Uno sguardo indagatore, assai inquietante, mentre gira – senza fare alcuna ordinazione – tra i tavolini del caffè. Un ragazzo sui vent’anni, un taglio geometrico degli occhi e un’espressione dura e inquieta sulla faccia. Si accascia sul suo zaino, chiude gli occhi e dopo aver posato due bicchieri d’acqua sul tavolino, sembra addormentarsi. Si risveglia all’improvviso e riprende a cercare nel perimetro del caffè. Stesso sguardo indagatore. Stesso giro.
Dopo qualche minuto però arriva anche un altro tipo. Tra i trenta e i quarant’anni. Si siede. Si dicono “konnichiwa” e, l’istante dopo, sono entrambi ad occhi chiusi – immobili e in silenzio – l’uno di fronte all’altro.
Stacco definitivamente l’audio all’iPod. E mi volto a guardarli.
Seguono discorsi che mi inquietano profondamente. Lui e’ studente di Waseda al 5° anno di corso (notare che in Giappone è assai raro che si vada fuori corso). L’altro parla di un certo, benevolo, Sensei. Di un Maestro, di una chiesa. Di cosa hanno raggiunto gli appartenenti a quella setta. Il ragazzo parla dell’azienda in cui è finalmente riuscito ad entrare. Lo aspetta un duro lavoro. L’altro ridacchia, dice “bene”, ma non incoraggia veramente. Si sente che c’è qualcosa che non va. Un anziano che legge accanto a me alza più volte lo sguardo per guardare in faccia i protagonisti di quella conversazione “assurda”. Ma poi, ahimè, neanche tanto.
Nuove religioni. Debolezze che cercano rifugio in qualcosa. In qualunque cosa. In Giappone sono tante. Guardate (giustamente) con sospetto dopo l’attacco terroristico del gruppo Aum Shinrikyo con il gas sarin nella metropolitana di Tokyo il 20 marzo del 1995. Da allora più controlli, meno benevolenza e … nessun cestino della spazzatura. In caso, trasparente.
Le nuove religioni – come spesso anche le vecchie – mi inquietano. E qui in Giappone, a mio parere, vanno a colmare enormi lacune nel campo della psichiatria/psicologia ahimè ancora a volte relegata a disciplina per “i matti”. Lo spirito del “gambaru”, del “ce la devo fare da solo” non sempre sortisce i risultati sperati. Non su tutti almeno. A volte la gente avrebbe solo bisogno di essere ascoltata.
* In foto meraviglie d’autunno che ci attendono anche quest’anno. Qualcosa di bello per stemperare l’umore un po’ cupo di oggi. Il parco Rikugi-en. Un tripudio di colori e la carpa nel laghetto.