「忙しい」 o della morte del cuore.

La prima volta fu la mia mamma giapponese a spiegarmelo.

Eravamo al cellulare, ero sposata da pochissimo e le raccontavo dei nuovi incarichi all’università, della pubblicazione della tesi di master e del romanzo che stavo scrivendo.
Ero affaticata e sentivo il bisogno di parlarne.

Faceva un gran freddo e ricordo ancora la minuscola stradina di Kichijoji in cui in piedi davanti ad un distributore di bevande, osservavo le lucine colorate dei pulsanti. Tutto intorno una catasta di biciclette parcheggiate un po’ a casaccio.


“Laura, lo conosci il significato dei kanji della parola isogashii?”
, mi chiese.

E continuò subito dopo con quella spiegazione che mai più avrei dimenticato.

Il significato della parola “occupato”,“impegnato” che si apprende presto in giapponese e che, così compatta, rimane nella mente.
E nel brusio della vita di quella stradina di Tokyo, un ristorante di ramen a poca distanza, un negozietto di magliette coloratissime più giù, la voce della mia mamma giapponese mi chiedeva di scomporre la parola nella mente.

Perchè 「忙」 sono sei tratti, due coppie da tre segni ciascuno. Ed è così, nel sezionarli, che il vero significato, quello originario viene fuori in tutta la pienezza.
Dentro a questo carattere, infatti, due concetti si tengono per mano.
C’è il cuore 「心」 sulla sinistra cui, subito a destra, segue la sua sparizione, la sua morte 「亡・くす」. 心を亡くす=忙しい

Ed è così che essere impegnati, occupati “isogashii” (忙しい) significa perdere il proprio cuore, far morire la propria anima.
La morte del cuore.

Ed è nello spiegarlo che i giapponesi consigliano riposo, svelando come nel linguaggio, insito proprio in fondo ad esso, vi sia anche l’avvertimento. Che nell’eccesso di lavoro, di studio, nel troppo tempo impiegato in altro dalla cura di sè il rischio è alto. Che non bisogna sottovalutarlo. Che non bisogna dimenticarsi di sè. Che nel vortice del tutto si perde l’essenziale.

E’ la morte del cuore.

*In fotografia le cose piu’ importanti della mia vita. Ryosuke, la Gigia e… Tokyo. (fotografia scattata giorni fa dallo stesso grattacielo)

I bimbi e la neve (二)

Ieri, passeggiando per Shinjuku di ritorno dall’osservatorio del Tokyo Metropolitan Government Building, mi sono ritrovata nella zona di Southern Terrace.

Basta oltrepassare il ponte che sovrasta l’imponente nodo ferroviario e ci si ritrova da Tokyu Hands e, continuando sulla destra, si arriva all’immensa libreria di Kinokuniya.

Capita spesso a Tokyo di vedere bimbi portati al pascolo dalle maestre, i cappellini coloratissimi con le visiere, le faccette eccitate, spesso trasportati in grossi carrelli rettangolari.

Ieri, a Shinjuku, avevano invece secchiello e paletta. Ed erano in cerca di neve.
Le maestre li guidavano, e loro riempivano i contenitori, tutti quanti con un pandino stampato sopra. ❤

Un giorno spero di poterci portare anche la mia nipotina Livia e farle vedere la neve che, ogni anno, “visita” Tokyo.

I bimbi e la neve (一)

Quanti bimbetti ho visto in queste ore giocare con la neve. Emozionatissimi stringevano la mano della mamma o del papà. Perchè oggi a Tokyo si scivolava.
La neve copiosa di ieri notte s’è fatta ghiaccio e tutti, un po’ arrancando, procedevano circospetti. Anche se, con mia grande sorpresa, indossavano quasi tutti le solite scarpe.

Solo i bimbetti avevano gli scarponcini ai piedi. Per non scivolare.
Le ragazze con i tacchi, invece, sono rimaste così. Con i tacchi. Solo più caute del solito nei loro passi.

゚・。゚ Neve su Tokyo ゚・。゚

i campi e i monti /

sottratti dalla neve /

è il nulla.

Naito Joso 内藤丈草

.
A Tokyo nevica. Grossi fiocchi che rendono bianco l’orizzonte.
Dalla finestra si vedono i tetti divenuti un tutt’uno con il colore dell’aria e tra lo sguardo e il paesaggio neve che cade.

La neve ammorbidisce i contorni di Tokyo.
La rende più uniforme, lì dove il fascino di questa città risiede proprio nella diversità, nel non essere mai, fino in fondo, omogenea.

Una vista affascinante.

In un giorno duro, durissimo come questo, attendevo un regalo.
Un attimo di gioia. E grande è stata l’euforia uscendo di casa con la macchinetta fotografica in mano.

Ci voleva, ci voleva proprio.

"Sarà occupato" o della clemenza giapponese

Esistono luoghi da cui non potrei più staccarmi. Le stradine di Kichijoji, il tratto in bicicletta che mi separa dall’università, la panetteria aperta dalle 6.30 della mattina, alcuni caffè di Shinjuku, dei tratti della Yamanote e della Tozai-sen, la libreria di Kinokuniya e quella – piccina – dentro alla stazione.

Poi ci sono gli oggetti, le cose. La Suica che mi fa scorrere veloce oltre i tornelli della metro, alle casse dei negozi, la tavoletta riscaldata del bagno, il kotatsu, la sensazione del tatami sotto alle piante dei piedi.

Poi ci sono delle parole. Le formule di saluto, di ringraziamento che riempiono spazi vuoti che non mi fanno sentire mai a disagio. Ma ancor prima delle parole ci sono i modi di pensare. Di reagire.
Uno di questi e’ quello che recita il titolo.

Quando non si sente qualcuno per un po’, non si ricevono notizie, email, contatti, i giapponesi tendono ad ipotizzare: “Sarà occupato” 「忙しいんだろうね」. E non si accusa, non ci si offende. Non ci si arrabbia.
Mancanza di interesse? Affatto. La chiamerei piuttosto presa di coscienza dei ritmi, dello scorrere del tempo che è diverso per ognuno di noi. Come differente è il modo di rapportarsi all’altro. Da queste parti non si salta tanto facilmente alle conclusioni. Le si sospende. E si aspetta che il reale ci fornisca le risposte.

Se un amico non si fa sentire probabilmente “sarà occupato”. Non e’ che “machebastardomancoun’emailvediselochiamoiolaprossimavolta” o “stinfamonechiamasoloquandoècomodoalui” etc. ^^;

Una volta una simile reazione – all’inverso – mi avrebbe fatto sentire sola, poco considerata, poco amata. Perchè nella passione italiana del “dopo” che sa persino precedere il “prima”, avrei decifrato il silenzio, la mancata insistenza come assenza di reale interesse e avrei letto un eventuale messaggio successivo ad un lungo periodo di assenza come una forma di mal celata ipocrisia.

E invece, a distanza ormai di tanti anni di vita giapponese, scopro che qui è abitudine non insistere se l’altro non si fa sentire. Lo si immagina occupato, magari solo preso da altro, impossibilitato praticamente o mentalmente ad occuparsi della corrispondenza, degli incontri. Perchè capita che la testa sia piena. E scrivere anche solo un’email costi fatica.

In questi mesi in cui il mio unico passatempo è stata la cura di questo blog e della pagina fb – dedicando tutto il resto allo studio, al lavoro e a cose importantissime da raggiungere con la punta delle dita – ho riflettuto su quanta impazienza governi i rapporti.
Alcuni sopravvalutati per leggerezza, altri per troppa speranza, altri ancora per una mia incapacità di gestire virtualmente ciò di cui non ho mai avuto pratica esperienza, si sono persi. E la cosa non mi stupisce. Forse, persino, mi restituisce una sorta di serenità.
Perchè accadrà ancora. Che sarò occupata. Che non mi farò sentire per mesi. E so che le persone importanti, italiane e giapponesi che siano, resteranno. E che chi andrà via, probabilmente, non c’è mai davvero stato.


* In fotografia uno scorcio del fiumiciattolo che scorre accanto all’universita’ e che in questi giorni si è ghiacciato (1), il passaggio tra Kagurazaka e Iidabashi, il fiume Kanda (2) e il monte Fuji, in uno scorcio serale in cui il cielo va dal blu all’arancio (3).