Delle bambine, delle bambole, dei dolcini e di altre meraviglie

Quando nacque la sorella di Ryosuke, la madre di mia suocera venne nel Kanagawa dalla prefettura di Oita nel Kyushu e, insieme alla figlia, andarono ad acquistare la collezione di bambole per lo Hina Matsuri, la Festa delle Bambine che in Giappone si festeggia il 3 marzo di ogni anno.

Una tradizione tutta femminile che vuole che sia la famiglia della madre della bimba a caricarsi dell’onere dell’acquisto.

Una collezione splendida invero che spicca per il suo volume. Un angolo della casa viene ad esso dedicato e, nel nostro caso, essa è stata allestita nella stanza del tatami che, più di ogni altra, conserva un’atmosfera tipicamente giapponese.

Ieri, uscendo con carissimi amici che non incontravamo dal nostro matrimonio, abbiamo notato in pasticceria splendidi dolcetti, biscotti, torte e tortine in tema.

I giapponesi vanno pazzi per tutto ciò che è di stagione, amano gioire ed assaporare il momento, quello che sfugge via l’attimo successivo.

E il marketing segue di passo passo questa passione.

Passeggiando a lungo per Kita-Kamakura ci siamo imbattuti in una splendida giornata di sole e in un piccolo museo dedicato proprio alla festività dell’Hina Matsuri.

Oltre all’esposiziozione di bambole antichissime e più recenti vi erano tantissime 「つるし雛」 ”tsurushibina”, un altro splendido oggetto che tradizionalmente si appende ai lati dell’allestimento delle bambole dell’Hina Matsuri (3 marzo).

Si tratta di lunghe cordicelle cui sono appesi più e più oggetti di stoffa cuciti a mano, ognuno con un proprio distinto significato.
Tra i vari la “pace”, l'”abbondanza”, la “ricchezza”, la “salute” etc.

Trovo queste ultime particolarmente belle e nei negozi di artigianato tradizionale se ne trovano anche di stagionali. Frequenti sono i gattini accompagnati da piccoli oggettini di stoffa che rappresentano momiji, fiori di ciliegio, ghiande etc.

Un bel souvenir da regalare e regalarsi durante un viaggio nella terra del Sol Levante e da appendere, una volta tornati a casa, in qualunque luogo si voglia della propria abitazione.

(to be continued…)

Della neve che preannuncia primavera

Basta aprire le tende, così di colpo, la mattina. E la città è lì davanti a te. Oggi tutta bianca. I tetti coperti dalla neve. L’orizzonte ingoiato dai fiocchi e dalla foschia.

Che spettacolo! mi sono detta e quasi mi dispiaceva andare a lavorare solo per non poter andare in giro a scattare foto nelle mie zone preferite. Ma il mio lavoro, per fortuna, l’adoro e so che il prossimo anno, di nuovo, nevicherà~

La Gigia stamattina era tutta felice e non appena ha visto la neve ha iniziato a correre. Io dietro di lei, con la macchinetta fotografica. Con i grandi stivali rosa sono andata anche al lavoro. Niente bicicletta. Nei giorni di neve è autobus.

Forse è la mia romanità, il fatto che fin da bimba la neve è sempre stata un evento eccezionale, ma la adoro. Inoltre, sembra che la città acquisti un non so che di poetico.
Di giorno e anche di notte. Quando le luci dei lampioni, i fari delle macchine, le tinte accese delle insegne della Tokyo più insonne, si ammorbidiscono.

E mentre i miei viaggi in metro vengono spesso sfruttati per scrivere, per leggere e studiare, nei giorni di neve non riesco a rimanere concentrata. Tolgo persino gli auricolari e mi volto a guardare i tetti bianchi susseguirsi l’uno dopo l’altro dietro le ampie vetrate della Tozai o della Chuo Line. Gli alberi carichi di bianco, i campi che mutano colore.

Quando sono arrivata a Takadanobaba nevicava ancora, un pochino meno forte. A malincuore ho chiuso l’ombrello e sono entrata nel caffè.

E’ l’ultima neve dell’anno. La neve che preannuncia la primavera.

Così, quasi esagerando sul paradosso del binomio, recitavano oggi in televisione. Durante una di quelle appassionanti discussioni sul tempo tutte giapponesi. Pupazzetti che animano cartelloni preparati per l’occasione, mostri che soffiano vento in direzione del Giappone, soli o nuvole sorridenti. Tutto trasformandosi in un gioco.

* In fotografia Takadanobaba coperta dalla neve, la piazza e le “orme” dei bus e dei taxi che vi girano tutto intorno (1); una donna che sale su un taxi, il suo volto di profilo, l’altra che aspetta che arrivi la prossima vettura (2); un tempietto piccino picciò coperto dalla neve di questa mattina (3).

Cosa mi sorprende ancora del Giappone~

E al volgere dei miei sei anni e mezzo in Giappone cosa ancora mi sorprende?

Fino a un anno fa non ci pensavo così tanto. Avvertivo l’eccezionalità di certe abitudini, di certe scene tokyote che ormai erano divenute per me la “normalità”, solo parlando con gli amici italiani durante una delle mie sporadiche trasferte.
Vivevo la bellezza del mio oggi ma non fotografavo il poliziotto vestito da mascotte (foto 2) che agita la mano davanti al koban di Takadanobaba (centro di polizia di quartiere), non riflettevo sul fatto che anche in tv i presentatori fanno sempre un piccolo inchino prima di iniziare a parlare e, ancora una volta, al momento di congedarsi. Attendevo pazientemente che la schermata dell’ATM passasse oltre senza notare che anche lì due immagini rispettivamente di un uomo e di una donna si inchinavano per ringraziarmi del servizio, scusandosi se necessario.
Non avrei fermato lo sguardo ad Aoyama sulla donna vestita in kimono che alza la mano, srotolando l’ampia manica rossa, per chiamare un taxi (foto 1).

E la mattina, quando l’immondizia va buttata, non avrei avvertito stranezza nel controllare il calendario perchè ad ogni giorno corrisponde un tipo differente di spazzatura da buttare. Avevo smesso di stupirmi di fronte all’incredibile precisione dei treni e degli autobus che se recitano 16.03 sul tabellone puoi star certo che alle 16.03 tu salirai a bordo e arriverai a destinazione esattamente quando prevedevi. E quando, nei giorni di pioggia, il capotreno ricorda ai passeggeri di non dimenticare l’ombrello, non avrei sorriso.
E quando ti si invita per un caffì tu, qui, sai che è per un tè. Perchè se gli italiani dicono “andiamo a prendere un caffe’?” i giapponesi te lo chiedono immergendo l’invito in una tazza di tè, sia che tu beva l’uno o l’altro「お茶でも飲みに行きませんか」.

Non mi sarei sorpresa di ottenere incarichi in università prestigiose senza conoscere nessuno dell’ambiente, senza avere neppure un parente su cui contare o amicizie dall’interno. Forte del mio curriculum ad affrontare ogni concorso e a vincerli tutti. Uno dopo l’altro. Perchè qui vige la meritocrazia.

Del Giappone non mi stupisce più il rispetto, l’indifferenza dosata e distribuita nei confronti dell’aggressività latente di alcuni. Qui non si litiga. Ci si scusa a priori, si blocca la rabbia dell’altro e solo dopo – se necessario – se ne parla.

La lista è ancora così lunga. Il pulsante, nei bagni pubblici, da premere per coprire i rumori imbarazzanti, 1m X 1m di grandezza di quelli privati. I grandi templi ma anche quelli minuscoli incastonati tra due grattacieli o quelli, ancora più minuti, che si trovano persino in cima ai palazzi di Tokyo.

Le divise, i tassisti, gli autisti d’autobus che indossano guanti bianchi. Le portiere del taxi che si aprono e chiudono da sole. L’efficienza, sempre.
Incontrare un atleta di sumo nella metro (foto 4). La fila ordinata e spesso lunghissima di chi attende l’autobus. Anche trenta persone, l’una dietro l’altra. I pacchetti regalo, il modo tutto giapponese di incartare gli oggetti. Le voci stile manga delle donne negli esercizi commerciali. Le grida/frasi di benvenuto all’ingresso di ogni negozio o ristorante. I bimbetti di sei anni che tornano da soli a casa attraversando Tokyo con la loro cartella rigida in spalla e il cappellino sulla testa, quelli, ancora più piccini, portati in giro dalle maestre dell’asilo in immensi carrelli (foto 3). Li guidano fino al parco, per le strade meno affollate, li portano a guardare i treni passare…

Ma poi un anno fa è successo quello che è successo ed ho sentito il bisogno di spiegare, di documentare quello che stava veramente accadendo a Tokyo. E da lì ho aperto questo blog, ho iniziato a portarmi sempre dietro la macchinetta fotografica nella borsa e il mio sguardo ha ripreso a stupirsi, a notare cosa da italiana mi sarebbe sembrato “eccezionale”.

Defamiliarizzazione, così la chiama Shklovsky . Una presa di distanza dalle cose che permette di vederle sotto un’altra, inedita, luce. Rinfrescare lo sguardo e riprendere a vedere tutto ciò che era inghiottito dalla ripetitività del quotidiano.

E dato che è una cosa preziosa, intendo continuarla.
Grazie pertanto a chi mi legge, a chi mi scrive spesso e con affetto. Nel desiderio di mostrare a voi, vedo anch’io. E ogni giorno mi sorprendo.

    r’⌒ヽ
ノ o ○、
(,,,O,,,,)
(´・ω・`)
ノ つつ
⊂、 ノ アラエッサッサ
し’

La Prima Lettera

Stasera sono emozionata.

L’ho saputo proprio stasera. Ero in un caffè leggendo un libro e l’ho saputo. Che domani mia nipote nascerà.

E tornando verso casa sono andata nella cartoleria dentro la stazione. Ho comprato la carta da lettere, le bustine, gli adesivi e nel ricevere il pacchetto dalle mani della giovane inserviente che sorrideva forte mi sono nuovamente emozionata.
Ho dimenticato persino d’essere uscita stamattina in autobus e non in bicicletta, perchè oggi pioveva, e mi sono diretta sicura verso il parcheggio delle bici. Solo allora ho ricordato, ma a questo punto – ho pensato – tanto vale fare di questo sbaglio un ricordo.

Allora ho sceso le scale, sono tornata in strada, mi sono fermata al negozio di articoli per animali. Ho comprato un regalino per la Gigia. Perchè tutti, tutti devono essere felici di questa nuova vita che verrà.
Ho camminato tra le stradine umide di Kichijoji, ho osservato con più attenzione le persone, le cose, i colori di questo splendido quartiere già ricoperto dalla notte.
Operai al lavoro, universitari in bicicletta, un ragazzo e una ragazza, lei che lo stringe forte da dietro, lui che sorride mentre parla ad alta voce. Sembra quasi gridare.
Incontro cagnolini, finestre illuminate, caffè dalle cui vetrate si assapora una sera che va lenta.

E mi chiedo se potro’ mai mostrare a questa creatura, che pesa ancora solo poco piu’ di due chilogrammi, una sera come questa. Una giornata bella come questa. In cui ho scoperto un nuovo quartiere di Tokyo, ho trovato in una collega una splendida persona, mi sono scoperta come ogni giorno più innamorata dell’uomo che ho accanto, ho ricevuto lettere da amici cari e ho sentito ancora una volta di amare profondamente questa vita.

E intanto che cammino e ripenso alla giornata che è appena passata recito a mente tutto quello che le scriverò. Perchè stasera le scriverò la Prima Lettera.

Prima lettera di una lunga serie. Perchè lo farò sempre, ogni mese, finchè non diventerà abbastanza grande per capire. Che le lettere sono email ma non sono solo quelle. Che esse si scrivono anche con la carta e con la penna. Che dentro a una busta ci sono parole che hanno viaggiato da un continente all’altro. Che il mio amore, da lontano, trova questa forma come la più genuina per esprimersi a lei.

Sì, le scriverò una lettera ogni mese. A mano. E la carta sarà scelta. Ogni parola sarà pensata. E lei la toccherà, osserverà i disegni. E la sensorialità sarà difesa.

E sulla superficie della bustina che contiene la Prima Lettera, che partirà domani da Tokyo e raggiungerà Roma, è scritto il suo nome. Che fa di mia sorella una madre. Di mia madre una nonna. E di me una zia.

a Livia…

In foto (1) Todoroki, un quartiere a breve distanza in treno da Shibuya, di cui mi sono innamorata. Qui, ancora bagnata dalla pioggia mattutina, una scalinata che porta al fiume, un viottolo che lo percorre per tutta la sua lunghezza e che porta a sua volta ad un tempio immerso nella natura. Alberi, lunghe canne di bambù. Un micio miagoloso all'”ingresso” del cammino. e (2) la carta da lettere, le buste e gli adesivi acquistati da Maruzen che accompagneranno le mie prime lettere per la mia nipotina. (3) I tetti innevati e, in fondo, quello che luccica è il mare della baia di Tokyo. E prima ancora dei palazzi c’è il grande parco di Shinjuku.

DCL 8 o di una grande soddisfazione personale

DCL 8
Il mio codice. D come Doctoral C come Course L come Languages. Ed 8 è il mio numero.
Nella lista di codici appesi fuori dalla grande bacheca che si erge all’ingresso dell’università, antistante la strada, ho scorto il mio DCL 8.
“Sono dentro”, mi sono detta e l’ho fotografato.

I risultati sono stati attaccati in bacheca stamattina alle dieci, quando mi apprestavo a fare la passeggiata con la Gigia. Io, perciò, li ho visti solo a mezzogiorno, orario in cui sono giunta in bicicletta all’università.

Ho lasciato le mie cose in aula professori, ho telefonato a Ryosuke, sono andata a salutare il Professore, ho chiamato e scritto messaggi agli amici – quelli veri – che in questi mesi hanno tifato per me senza appesantirmi di sensi di colpa. Poi sono tornata nuovamente nell’aula professori in cui oggi, per l’ultima volta, sono entrata da docente.

Ho assaporato a lungo il caffè della macchinetta, ho consegnato i voti di fine anno degli studenti, ho svuotato il mio box sotto gli occhi benevoli della segretaria e sono andata a salutare le persone con cui, in questi anni, ho lavorato. In aula fotocopie, nella stanza multimediale etc.

E’ una sensazione curiosa. Che potrebbe suonare come un passo indietro ma che, in realtà, è un enorme passo in avanti.
Da studente a docente. Da docente a studente. E per almeno due anni dovrò sospendere il mio incarico in questa università. Nelle altre continuerò ad essere chiamata “sensei 先生”, in questa dal prossimo aprile vi accederò invece come “gakusei 学生”, studente di PhD (dottorato di ricerca).

Torno con la mente alla fine di gennaio, ai terribili esami di ammissione, al 『文学論』 di Natsume Soseki, al tema da scrivere a mano, in giapponese, a commento di quel lunghissimo estratto. Alle pagine e pagine di traduzione inglese-giapponese giapponese-inglese sugli argomenti più vari (dal futuro dell’editoria alla scienza dell’etimologia passando per la modalità di approccio tra primati e la funzione del parlare del tempo nella cultura anglosassone). Ripenso all’orale, alla dissertazione della mia tesi di master (quello conseguito a Tokyo), alla letteratura giapponese contemporanea, all’arte e all’astrattismo. Alla discussione sul progetto di ricerca su cui mi concentrerò per i prossimi tre anni. Quanta fatica. Ma adesso quanta gioia. Quanta soddisfazione.

Di quei giorni che diventano ricordi per forza. Perchè sono carichi di un’intensità che suggerisce le loro conseguenze.
E da aprile, per quanto il resto della mia vita rimarrà immutata tra lavoro all’università, scrittura e famiglia, vi si aggiungeranno lezioni da seguire, paper da consegnare, presentazioni da preparare e una tesi appassionante da scrivere.

Ma ora no. Ora c’è solo da festeggiare!!!

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In foto: (1) La discesa dal tempio, un ponte di legna e paglia. Il bellissimo pino con le sue dita incurvate e chiazze di colore qui e là. In fondo sulla sinistra la fonte in cui ci si purifica versandosi l’acqua sulle mani; (2) una enorme carpa arancio nel laghetto (3) Un minuscolo ponte - di un solo metro -a cui, però, è stato attribuito un suo nome~♥ Sulla via verso il tempio, qualche altro metro e vi è la scalinata che porta a Jindaiji 深大寺. Tutti scatti di febbraio 2012.