ナマズ o del pesce gatto che muove il Giappone

Stanotte mi sono svegliata che ero già seduta. Il sedere pigiato sui piedi. Il volto verso il muro. Non so cosa ho detto. Era notte. E nel sonno le parole e le cose si mischiano. Deve essere stato “jishin”地震, terremoto.

Ryosuke è rimasto sdraiato, ha detto “daijoubu, daijoubu“ 大丈夫、大丈夫, va tutto bene. E intanto già allungava le braccia tirandomi a sè. Sono rimasta così, con le lenzuola e le coperte per metà spalancate, la testa sul suo petto mentre la scossa, nell’arco di pochi secondi, si assopiva. Dopo qualche minuto il sonno ci ha nuovamente “gremito” e tutto, come sempre, è tornato al silenzio.

In questi giorni le scosse sono frequenti e abbastanza forti. Iniziando dall’Hokkaido, per poi trasferirsi a volo nella zona di Chiba.

Se è cambiato qualcosa dall’11 marzo dello scorso anno è il moto involontario del mio corpo. Non la paura. Io qui mi sento e continuero’ sempre a sentirmi al sicuro. E’ piuttosto la Gigia che mi fa sobbalzare. Perchè anche se in questi giorni non c’è (è a casa dei nonni) so che lei si spaventa e prende ad abbaiare. Prima non lo faceva ma dopo l’11 marzo quando insieme alla suocera e alle amiche di questa si sono rifugiate tutte e quattro sotto il tavolo del salone, vive male il “gata gata”ガタガタ delle porte scorrevoli e inizia a correre per il piccolo appartamento. Così quando c’è un terremoto – senza neanche che io lo voglia o lo intenda – il mio corpo si muove, corre ad abbracciarla. E la ferma. Sembra una continuazione del sonno tanto risulta naturale.

Una volta rimanevo a letto, mi lasciavo cullare dal movimento oscillatorio. E aspettavo che il pesce gatto smettesse di agitare la sua coda.

Namazu ナマズ, namazu, na ma zu. Sembra, ripetuto, il motivetto di una canzoncina per bambini, una marcetta. Na ma zu, na ma zu. Eppure è il nome di un pesce, del pesce gatto che – la leggenda vuole – giaccia sotto l’arcipelago del Giappone. E la sua irrequietezza, il suo movimento di coda si dice provochi le scosse dei terremoti.

E così, sotto il cavalluccio marino che per me da sempre rappresenta il profilo del Giappone – come lo stivale per l’Italia – scopro che c’e’ un pesce gatto. Un pesce baffuto il cui simbolo, per le strade del Giappone, capita di trovare su cartelli stradali che indicano il luogo di rifugio in caso di terremoti.
E’ nell’immaginario dei giapponesi qualcosa di risaputo. Lo si impara da bimbi.

Chiunque decida di vivere in Giappone deve metterlo in conto. Che ci saranno un’infinità di impercettibili scosse e ce ne saranno invece altre, piu’ rare, molto potenti. E’ qualcosa di inevitabile e di legato indissolubilmente alla natura di questo territorio. Dalla mia posso dire che non c’è paese al mondo in cui vorrei trovarmi in caso di terremoto più del Giappone. Qui, ripeto, io mi sento al sicuro.

*La prima immagine è tratta da qui e spiega bene il rapporto tra il pesciolone e il Giappone. La seconda illustrazione, che risale al periodo Edo, ritrae dei namazu che promettono, contratto alla mano/pinna, che non causeranno più terremoti sul territorio giapponese.

* La terza è una foto che scattai parecchie settimane fa su una strada di quartiere e che mostra uno dei cartelli di cui parlavo più su.

Del giungere le mani di fronte ad un panino del Mac Donald

  Una giornata pigra che ha goduto di una colazione che era un pranzo e di una breve corsa in bicicletta verso il mio caffè preferito. Cinquanta pagine almeno al giorno. A volte solo cinquanta, a volte cento. A volte anche di piu’. E’ questo che penso ogni mattina quando mi sveglio e immagino il giorno che verrà. Almeno cinquanta pagine al giorno e vedo che nella lentezza acquisto velocità. Le parole scorrono dall’alto in basso e da destra a sinistra come vuole questa lingua così complicata e affascinante. Una dopo l’altra le parole diventano frasi e le frasi paragrafi. E poi pagine e capitoli. E infine il libro, con il suo significato, è nella mia testa.

  E’ una lingua questa che si acquista e poi si perde. Si può vivere qui anche da vent’anni ma l’esercizio degli occhi non è quello delle orecchie. E c’è fame di possedere più parole. Sempre più parole. Nel sonoro e nel visivo.

  La lettura preferita di Mishima, mi ricordava oggi Cristina, era il dizionario. Il miglior amico dello straniero. Ma anche il compagno d’ogni scrittura che miri a superarsi.

  Stasera, dopo la chiusura del mio caffè, sono andata da Mac Donald. E’ un luogo che non amo. Non ne mangio il cibo ormai da tantissimi anni. Ne detesto l’odore. Eppure oggi ci sono andata perchè è aperto fino a tardi, avevo voglia di scrivere e dovevo finire le mie cinquanta pagine quotidiane. Un te’, i libri e il mio pc.

  Così, quando stavo per andare via, ho visto una scena deliziosa che mi ha ancora una volta arricchita.
  Un uomo tra i quaranta e cinquant’anni, la fede all’anulare, gli occhiali quadrati e le vesti da salaryman, ha poggiato il suo manuale sulle ginocchia. Poi, con l’hamburger del Mc davanti, la bibita, le patatine oleose e tutto il resto, ha giunto le mani e ha chinato il capo.

  “Itadakimasu” a fior di labbra e poi, con le mani ha afferrato il panino e l’ha portato alla bocca.

  Lo vedo nei bambini che sotto lo sguardo benevolo della madre si accingono a mangiare ma mai mi era capitato di osservarlo in un adulto, oltrettutto solo, con un panino del Mac Donald davanti.
L’”itadakimasu” che significa letteralmente “ricevo” e che si pronuncia prima di mangiare. Un “buon appetito” con sottili differenze che fanno dell’espressione in giapponese qualcosa di più legato all’atto del ricevere che all’augurio.
E, nel ricevere, si avverte anche un ringraziamento per chi quel cibo l’ha confezionato. O anche, a seconda delle persone e della sensibilità, per l’essere vivente è morto per divenire nostro nutrimento.

  E ho deciso che da oggi cercherò di farlo anch’io. Ogni volta. Giungere le mani, in segno di riconoscenza. Perchè per quanto io sia italiana e sia cresciuta in una cultura diversa da quella in cui ho scelto di vivere, voglio adottare e mantenere il meglio di entrambe. Perchè anche dopo una certa età – quando ormai si è usciti dalla casa dei propri genitori – ci si continui ad educare.

“Itadakimasu”

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14.46~14.47: il ricordo in un minuto

Oggi, ininterrottamente, la tv ha mandato in onda programmi dedicati al memoriale dell’11 marzo 2011. Un anniversario ancora troppo vicino per non far star male.

Prima e dopo. I passi fatti in avanti, il ricordo di quel giorno terribile.

Oggi alle 14.46 si è fermata la gente per le strade, nei cinema, nei teatri.
Si è fermato il baseball, il treno, la spesa nei supermercati.
Shinjuku si è fermata. Immobile. Nel piazzale davanti ad Alta.
Messaggi su alcuni social network intimavano al silenzio.
Shibuya ha continuato la sua vita. Affollata. Rumorosa come sempre.

Ma altrove silenzio. Occhi chiusi. Mani giunte.

Tutti intorno a me in questo paese hanno ricordi dolorosi di quei giorni. Personali e sociali. Una ferita profonda che richiede ancora tempo per rimarginarsi.

Il kanji dello scorso anno – annualmente scelto ed esposto a novembre – è stato 絆 (kizuna) che significa “legame”.

La stessa parola che ha illuminato la Torre di Tokyo ieri ed oggi.

Ryosuke ed io abbiamo aspettato quel minuto insieme.

Le 14.46 del pomeriggio, l’attimo in cui un anno fa è iniziato tutto.

Ci siamo abbracciati forte. E siamo rimasti così, in silenzio, a lungo.

Quel minuto è passato, poi un altro. E un altro ancora.

*Fotografia di @SANKEI SHINBUN e @http://matome.naver.jp

Due ragazze da non dimenticare, Arisa e Miki 3/11/11

E’ la storia di due giovani donne di venticinque anni e ventiquattro anni. 遠藤未希 Endo Miki e 三浦亜梨沙 Miura Arisa che il giorno del terribile terremoto si trovavano sul posto di lavoro, ovvero nel “Centro per la prevenzione dei disastri” della città di Minamisanriku 南三陸町. Erano compagne di classe al liceo. Si conoscevano dalle scuole medie.

Lo scorso 5 marzo sono stati infine resi noti i messaggi che la giovane Arisa ha inviato alla madre e al fidanzato prima che lo tsunami spazzasse via tutto.
Scriveva alla madre che era previsto l’arrivo di un’onda di 6 metri di altezza.

「無事ですか?!6メーターの津波きます。役場流されたらごめん」
“Stai bene? Sta arrivando uno tsunami di 6 metri. Se l’edificio verrà spazzato via, perdonami”

Ed è solo dopo un anno da quella terribile data che la madre è riuscita a leggere nuovamente quel messaggio. Quel “gomen“, quello scusa finale che le ha stretto il cuore per mesi.
Il 17 gennaio scorso il cadavere di Arisa è stato scoperto da un passante a lato di una montagna di macerie. Il numero idenficativo dell’abito che era stato confezionato a mano ha suggerito che fosse lei, la prova del DNA ha fatto il resto.


「ぜってー死ぬなよ!」
“Non devi assolutamente morire!”

「うん、死なない!!
愛してる!!」
“Sì, non morirò!!
Ti amo!!”

Questo l’ultimo scambio di email tra Arisa e il fidanzato. Lui che le ordina di non morire. Lei che promette che non lo farà. Un’ultima dichiarazione d’amore e poi, dopo pochissimo, arriva quell’onda che non fu di 6 ma di più di 10 metri.
E che spazzò via tutto l’edificio, lasciandone semi-intatto solo lo scheletro.

E in quella cittadina sono tante le testimonianze di chi ha riferito di aver sentito fino all’ultimo istante la voce di Endo Miki all’altoparlante, una voce che, fin da subito dopo il tremendo terremoto, non ha mai smesso di fornire comunicazioni sulla situazione, sull’arrivo del micidiale tsunami.

Delle cinquanta persone che erano al momento dello tsunami nell’edificio se ne sono salvate solo undici. Alcuni che si sono aggrappati alle ringhiere sul tetto, altri all’antenna che lo sovrastava.

Leggo queste notizie, leggo questi messaggi rubati al privato perchè si possano celebrare quelle persone che fino all’ultimo hanno continuato a fare il proprio lavoro.

Perche’ la parola “eroe“, che troppo spesso viene abusata o usata impropriamente, ha un significato preciso.
Ed e’ qui, in situazioni come queste, che personalmente io la trovo, invece, assolutamente appropriata. Appropriata. Esatta. Dolorosamente giusta.

* In fotografia il messaggio inviato da Arisa al fidanzato e lo scheletro dell’edificio in cui, quel giorno, si è consumata la tragedia. Fonte Sankei Shimbun e Asahi Shimbun

Tornare a casa in un giorno di pioggia

Oggi in Giappone è il giorno del corallo. Una parola così musicale in italiano, così rossa nel mio immaginario. Una parola che ha dentro il ricordo dei gioielli di bambina.

E quasi ad omaggiare questo giorno nel Kanto oggi piove. In ogni spicchio di Giappone che oggi ho attraversato, nell’ora di viaggio che mi separava da casa dei suoceri a casa mia, l’acqua cadeva. Bagnava. E profumava l’aria non di freddo ma di fresco.
Perchè sono otto gradi e si sta bene a passeggiare.

Una settimana lontana mi dona nuovi ricordi e insieme mi ribadisce la nostalgia che io ho di casa mia. E non c’è niente da fare. Perchè dalla stazione, nonostante il trolley più pesante e le strade umide di pioggia, mi viene irresistibile la voglia di percorrere la distanza a piedi. Di guardare la città, di osservare il lunedì di Kichijoji, il cielo di marzo che diviene di un grigio più cupo pian piano che si avvicina l’ora del tramonto.

La pioggia smette di cadere e, avvicinandomi al portone di casa, con i podcast di Radio Deejay nelle orecchie, annuso un buon odore di curry, immagino il riso uscire dal bollitore e mi sento – se possibile – di un gradino più felice.

Raccolgo il mare di posta, liquido lo metto sottobraccio e giro le chiavi di casa. Ed entrando apro tutte le finestre. Che la casa respiri. Che riprenda fiato.

A giorni si ripartirà ma, ci penso, è meraviglioso essere felice non solo nel partire ma anche nel tornare.

*In fotografia
(1) il quartiere di 赤坂見附 Akasakamitsuke, sulla Linea Ginza, vicino all’immensa Aoyama Doori. Dopo uno splendido pranzo con delle colleghe in un ristorante italiano ad Aoyama. Tantissima luce, stradine secondarie e la città a più strati che si intravede sul fondo tra cartelli, insegne, macchine e lampioni… (Tokyo, 24 febbraio 2012)
(2) Un dettaglio di kimono. Tre generazioni di donne. Una nonna, una madre e una bimba vestite tutte e tre, nei differenti toni delle stoffe che s’addicono all’età di chi li indossa, in kimono.
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