忍耐 della pazienza e del contagio

 
Ciò che seminai nell’ira
Crebbe in una notte
Rigogliosamente
Ma la pioggia lo distrusse.
Ciò che seminai con amore
Germinò lentamente
Maturò tardi
Ma in benedetta abbondanza
(Peter Rosegger)
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  Una cosa che di questo popolo ammiro forse perchè ne sono priva è la pazienza (忍耐, nintai). Vi condivido però la tenacia. Non una insistenza gridata ma una silenziosa, di chi “intigna” e intanto costruisce. Perchè per ottenere certi risultati non basta solo l’impegno ben direzionato ma ci vuole anche tempo.
È il kanji di 忍ぶ  shinobu “sopportare, celare” – il nin del 忍者 ninja che è ‘colui che si nasconde’ – a braccetto con quello di 耐える taeru “resistere, sopportare”. In questa lingua pazienza è allora nascondere la fatica, tollerare in silenzio le difficoltà, resistere all’ansia del tempo. Aspettare.

  Le cose di valore difficilmente si ottengono d’un tratto, per caso. Per me è stato il lavoro che sognavo che è arrivato dopo anni di studio intenso e di gavetta, l’amore che è giunto preceduto da una grande confusione, il romanzo che ha atteso a lungo nella cartella di un pc. E soprattutto è l’integrazione in questo paese complicato che, uno ad uno, ha realizzato i miei progetti.

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  Nintai 忍耐 è rimanere ritti anche se c’è chi spinge per farti cadere. È seminare ed attendere frutti spuntare dalla terra. È sopportare anche gli schiaffi, perchè la vita ne comprende una quantità superiore alle aspettative di ciascuno. E più aumenta la popolazione più le persone a mirare ad uno stesso sogno aumentano, le possibilità sembrano svanire. Per accedere allo studio, ad un posto di lavoro, ad una pubblicazione, ad un amore, persino a un’amicizia ci vuole forse qualcosa più della fortuna.
  In questo momento della mia vita è tutto pazienza ed è tutto costanza. La pazienza d’attendere non l’ho mai veramente avuta e per ingannare questo aspetto crudele del carattere macino progetti. Ed ho capito che funziona.
È allora il 頑張る gambaru il “mettercela tutta, l’impegnarsi”, un’espressione che a mio parere cela una valenza tutta positiva che nell’azione inganna il tempo, la tortura dell’attesa. Mentre attendo la ricezione del primo romanzo ne scrivo un altro, di articolo in articolo mi avvicino un po’ di più alla stesura della tesi di dottorato e per la Gigia, per cui forse non c’è ormai più da fare niente di risolutivo, ci sono passeggiate, dolcezze e tante cure. Si compensa l’impazienza con il fare, l’aspettare con il camminare.
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  C’è insistenza nella gioia, l’ho sempre creduto fermamente. Per chi è stato fortunato e le cose belle sono arrivate insieme al loro desiderio forse non c’è bisogno di apprendere la fatica ma per chi, come me e come tanti altri, se le è dovute sudare una ad una, imparare a immaginare la fine di un percorso è fondamentale.
Questa mia non è una visione del Giappone, è una visione della vita. Per chi conosce la disperazione e la perseveranza che porta risultati, la profondità delle passioni e la difficoltà nel controllarle, forse allora ogni cosa sembra un dono e naturalmente si condivide solo ciò che si ama.
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    L’amore è contagioso, l’odio anche.
   Bisogna operare una scelta: in che misura e in che modo direzionare la propria influenza sul mondo, sulla porzione minuscola o invece immensa di pubblico cui si decide di parlare.
Scegliere se condividere l’odio, la rabbia, il disgusto, il biasimo, la tendenza al bullismo e la violenza del giudizio o invece l’amore, la tolleranza, la diversità che arricchisce, la bellezza, quei minuti quotidiani miracoli per cui vale la pena di vivere ogni giorno, per la speranza che il dolore si dissipi e la gioia se ne appropri. Il primo può essere uno sfogo, può aiutare chi parla o chi scrive a liberarsi di quegli stessi sentimenti, a ridimensionarli o a fomentarli, semplicemente a non sentirsi soli nel “mal comune mezzo gaudio”; ma l’effetto su chi ascolta o chi legge quale sarà?
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  Parlar male di singoli, conosciuti o sconosciuti, di un’intera popolazione, del mondo intero è facile: non richiede tempo, non chiama pazienza, non necessita di un pensiero a guidare il giudizio, aggrega un sentimento elementare come l’odio.
  Non c’è una briciola di nintai.
  Per me non ha valore.
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風 o del vento che è un dragone

  Giorni di vento e nuvole immense. Cielo di lapislazzuli e biancore di cotone. Sembra che ti venga incontro questo cielo, così alto e gonfio all’orizzonte.
  Giorni in cui il vento ha fatto tremende piroette e nel tornado in cui si è trasformato ha divelto tetti, devastato campi, spezzato pali della luce nella zona di Saitama e Chiba. I notiziari rincorrono la sua scia, i testimoni oculari raccontano la furia di quel vento che non si avverte soltanto ma si vede, mentre come un fuso di strega s’avviluppa tutto in tondo collegando terra e cielo.
  In giapponese si chiama 竜巻き (tatsumaki) ed è la tromba d’aria, il tornado, un vortice di vento.
  Ma come sempre basta seguire il filo d’una parola, il kanji di cui s’adorna, per immaginare altri mondi. tatsu/ryū è “il drago, il dragone” in giapponese e  巻き maki è “arrotolare, arrotolarsi, avvolgere”.
  Così il tornado suggerisce d’un tratto il volo di un dragone verso l’alto, il corpo avviluppato nelle proprie spire che trascina con sè, nello slancio del suo corpo massiccio e delle sue immense ali, ciò che gli capita intorno. Allora ecco che la segnaletica stradale si scardina da terra, le tegole abbandonano la superficia piana dei tetti, le costruzioni un po’ accrocchiate perdono peso e si spargono nella campagna circostante, sui fili dell’alta tensione. Terribile, terribile. Ma nella parola che rappresenta tutto questo anche tremendamente affascinante.
  Cosa è allora il vento, mi chiedo. Cosa si nasconde dentro alla parola giapponese che ne custodisce il significato?
  È 風 (kaze, fū) e mentre mi torna in mente la gonna che oggi s’agitava scalmanata sulle gambe in bicicletta, una mano a tenerne fermo l’orlo e l’altra a dirigere il manubrio, l’ampia campana dell’abito bianco e nero acquistato una lontana estate newyorkese e indossato in tanti appuntamenti d’amore con Ryosuke, mentre il vento rende infermi i miei movimenti e ritarda la mia corsa verso il lavoro, scopro che la forma del suo kanji non racconta l’aria che si muove ma dipinge esseri che abitano il tetto del cielo. Uccelli, dragoni.
  Nell’antichità si credeva che il dio del vento avesse l’aspetto di un volatile, che viaggiasse per terre diverse e influenzasse così la nascita di differenti costumi, tradizioni (風俗) e paesaggi (風物) locali.
  Così, nel mutamento del vento sbocciano ali di uccello, spire di drago, creature che abitano il cielo e con le loro volute, la violenza del tornado, la dolce brezza della sera, trasformano anche i paesaggi e le persone.


♫ Enya, Flora’s Secret

“La Terra ci è data in prestito dai nostri figli”

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                  “La Terra ci è data in prestito dai nostri figli”
(detto amerindio)
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 “Il 6 agosto 1945 una bomba atomica distruggeva la città giapponese di Hiroshima. Tre giorni dopo Nagasaki fu a sua volta colpita. L’8 agosto, nell’intervallo tra i due episodi, il tribunale internazionale di Norimberga si era arrogato il diritto di giudicare tre tipi di crimini: i crimini contro la pace, i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità. Nel giro di tre giorni, i vincitori della seconda guerra mondiale avevano aperto un’èra nella quale la potenza tecnica delle armi di distruzione di massa rendeva inevitabile che le guerre diventassero criminali rispetto alle stesse norme che stavano emanando.
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 Questa «ironia mostruosa» avrebbe segnato per sempre il pensiero del filosofo tedesco più misconosciuto del XX secolo, Günther Anders […] uno dei rarissimi pensatori che abbiano avuto il coraggio e la lucidità di paragonare Hiroshima ad Auschwitz senza togliere nulla al triste privilegio che possiede il secondo di incarnare l’orrore morale senza fondo. Ha potuto farlo perchè ha capito, come Hannah Arendt e probabilmente prima di lei, che una volta superati certi limiti, il male morale diventa troppo grande per gli uomini che ne sono responsabili e che nessuna etica, nessuna razionalità, nessuna norma che gli esseri umani si possono dare ha la minima pertinenza per valutare ciò che è successo.
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C’è bisogno di coraggio e di lucidità per fare questo accostamento, perchè Hiroshima rappresenta ancora, nella testa di molta gente e, a quanto pare, della stragrande maggioranza degli americani, l’esempio per definizione del male necessario […]  Interrogarsi sulla razionalità e sulla moralità della distruzione di Hiroshima e Nagasaki vuol dire anche trattare l’arma nucleare come uno strumento al servizio di un fine. Sennonché un mezzo si perde nel suo fine come un fiume nell’oceano, ne è completamente assorbito. La bomba, invece, va al di là di tutti i fini che le si possono dare o trovare. […] Perchè l’orrore morale del suo impiego non può esser percepito? Perchè questa «cecità dell’apocalisse»?”*


Mi capita raramente di citare a lungo brani di un autore senza avvertire la possibilità di rielaborare, spiegare, ingoiare e restituire a parole mie qualcosa.   Questa è una di quelle occasioni preziose che svelano come vi sia chi ha saputo, in un brevissimo saggio, illustrare l’Assurdità del male con lucidità perfetta. È Jean-Pierre Dupuy, professore di Filosofia sociale e politica presso l’ Ècole Polytechnique e l’Università di Stanford e il suo libro si intitola “Piccola metafisica degli tsunami. Male e responsabilità nelle catastrofi del nostro tempo”. Merita d’esser letto per intero nelle sue cento paginette o poco più.

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  Il detto di apertura di questo piccolo intervento è anch’esso partorito dal libro suddetto. “La Terra ci è data in prestito dai nostri figli”. È un po’ come quando Jorge Luis Borges scrive che “Possiamo dare solo ciò che è già di altri” e ci ricorda il debito che fin dall’istante in cui nasciamo – come esseri viventi oltre che come produttori di parola – abbiamo contratto nei confronti di tutto ciò e di tutti quelli che ci hanno preceduto e che verranno.  Nulla è nostro, in sostanza. A noi tocca solo amministrare una concessione, un prestito. Una lunga catena di debiti su cui varrebbe la pena di riflettere ogni volta che si decide di muoversi verso la distruzione di qualcosa, di qualunque cosa.
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   Oltretutto, e questo forse più di ogni altra cosa mi indigna, immenso è l’egotismo dell’uomo che è convinto che questo pianeta sia cosa sua. Forse, in un tempo in cui la terra, le foreste, la natura tutta si ritrae ferita, sotto il passo incessante ed arrogante dell’essere umano, sarebbe il caso di domandarsi chi gli ha dato il diritto di arrogarsi il possesso del pianeta, quale religione auto-architettata ed auto-imposta gli abbia concesso la possibilità di agire a proprio piacimento. Da dove nasce l’eliminazione dell’alterità, il senso di mostruosa superiorità che egli esercita con una disinvoltura ancora più mostruosa?

E mentre noi stiamo a dibattere su Hiroshima, Pearl Harbor, le responsabilità di allora, le efferatezze e simili diatribe prive di reale conoscenza e di spessore, è interessante quanto sconvolgente notare – come fece lo stesso Günther Andersen (che nel 1958 si recò alle commemorazioni ad Hiroshima e Nagasaki) – che:

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  “La regolarità con cui [i giapponesi] omettono di nominare gli autori, con cui tacciono del fatto che la catastrofe è stata prodotta dall’uomo; e con cui, benchè vittime del delitto più orrendo, non mostrano il minimo risentimento – tutto ciò mi pare eccessivo, non mi piace affatto
  Un sentimento che ahimè comprendo e che riconosco parte dell’animo giapponese che, al contrario del trattamento che subisce per crimini di un lontano passato certamente commessi (ma non più efferati di quelli perpetuati dalla nostra civilissima Europa o dall’America o dall’Asia in millenni di guerre e d’una quotidianità violenta e brutale), non condanna nè attacca chi ha fatto loro un torto tanto grande.
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  L’idea è 「ひどい事をしたから、ひどい事をされても仕方ない」 “Dato che abbiamo fatto cose terribili, ci sono state fatte cose terribili. Non c’è nulla da fare”

  Qualcosa che l’occidente di questo paese ignora tutt’oggi totalmente. Qualcosa che un occidentale non comprenderà probabilmente mai. Del resto il mix di uno stereotipo ben edificato dai suoi detrattori, unito ad un’indole affatto accusatoria, porta il Giappone ad essere vittima di insopportabili (solo per me che sono occidentale) affronti.
Accompagnata dalle melodie della meravigliosa canzone composta da Sakamoto Ryuichi e interpretata da Hajime Chitose “Shinda onna no ko” (La bambina morta), rivolgo una preghiera alle vittime di Hiroshima e Nagasaki e soprattutto una preghiera per l’uomo, senza sterili differenziazioni di nazionalità.  Perchè si renda conto della responsabilità che ha, della bellezza e fragilità del pianeta che abita e della terribile capacità che ha di distruggere qualcosa che neppure gli appartiene.
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♪ Sakamoto Ryuichi e Hajime Chitose  “Shinda onna no ko” 
✿ Le meravigliose illustrazioni sono dell’artista Seiji Fujishiro
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*(il grassetto e la spaziatura, nel testo citato in apertura, sono miei)

Kaze tachinu, ‘Il vento si alza’. L’ultima opera di Miyazaki Hayao

“Le vent se lève, il faut tempter de vivre”
“S’alza il vento, bisogna tentare di vivere”
Paul Valéry
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  “Kaze tachinu”, l’ultimo lungometraggio di animazione diretto da Miyazaki Hayao, prende il nome dai versi di Paul Valéry, citati in apertura dell’omonimo libro dello scrittore Hori Tatsuo (1904 – 1953). Questo testo, insieme a “Zero sen – sono tanjo to eiko no kiroku” di Horikoshi Jiro (1903 – 1982), costituisce il riferimento letterario del film che, per la prima volta nella vasta produzione del regista giapponese, si ispira a un personaggio realmente esistito.
Egli ha sovrapposto la vita del famoso ingegnere Horikoshi Jiro a quella di Hori Tatsuo e ne ha tirato fuori “Jiro”, il protagonista.

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  Non c’è dubbio, “Kaze tachinu” non solo non è un film per bambini ma, forse, non è neppure un film facilmente esportabile all’estero.
Si tratta di una pellicola intensissima dentro cui Miyazaki Hayao getta molte, moltissime tracce, così tante che si fatica persino a seguirle tutte, almeno nel senso occidentale del termine (che vuole cioè che ogni tema venga approfondito a sufficienza da risultare al pubblico di facile comprensione e dotato di un suo chiaro inizio e di una sua altrettanto precisa fine).
Ed il messaggio, solitamente evidente nei suoi film (che sia ecologico, sentimentale, sociale o altro), qui non appare nè univoco nè definito.

  Tra i vari filoni narrativi, preponderante è quello che narra la vita del protagonista, Jiro, la cui esistenza è tutta incentrata sull’inseguimento di un sogno immenso – quello di costruire un “bellissimo aereo” 「僕は美しい飛行機を作りたい」– ,  sulla dedizione e sulla passione smisurata che egli nutre per la progettazione dei veivoli, sul solidissimo sistema di valori che possiede e che fa di lui non solo un geniale ingegnere ma una grande persona.

  Vi si intreccia poi il più esile ma resistentissimo tema dell’amore che, come un’aquilone, rimane impigliato alla vita di quest’uomo gentile e ne fa un individuo ancora più consapevole: quando si è trovata la persona giusta, sembra suggerirci, la durata non conta. Giorno per giorno, tenendosi per mano, si procede e si cura ogni ora, ogni minuto che ci è stato donato da trascorrere insieme.

  È anche la storia di un Giappone che fatica a raggiungere l’Europa, che l’insegue e non si arrende. Il periodo subito antecedente alla seconda guerra mondiale fa da cornice e sfondo a questa storia individuale e insieme corale, raccontata con un amore che mai, forse, avevo percepito così forte nelle opere di Miyazaki.
Vi si avverte la voglia del regista di dire ancora di più, di raccontare la forma dei desideri di alcune persone e di una nazione, di come un sogno investe un ragazzino e lo trascina verso il suo destino, di come una bambina trasformatasi in adulta non smette di lottare, cresce con la preghiera di un incontro e affronta la malattia con la caparbietà che solo una donna innamorata sa possedere.

  La sospensione in “Kaze tachinu” resta, ma il sogno è esaudito, l’amore è conosciuto, la bellezza sempre percepita.

  Visivamente “Kaze tachinu” è d’una bellezza che toglie il fiato. Miyazaki disegna paesaggi di un Giappone che la città oggi ha forse perso ma che cova ancora in provincia, sguardi di un paese estremamente povero che cerca in tutti i modi di accelerare il passo per non rimanere indietro. Una sensazione, questa, che solo il sud-est asiatico e forse la nostra Europa dell’est è in grado di comprendere a fondo. Rincorrere chi è avanti senza però perdere se stessi e la propria identità, guardare al futuro senza gettare via il passato, ciò che procede a passo lento è complicato. Ci vuole coraggio e genio, ma ci si può riuscire. I riferimenti a questo tema sono disseminati in tutta la pellicola e costituiscono una traccia sotterranea imprescindibile dal resto.

  La varietà del disegno oltretutto è impressionante. Miyazaki ci mostra Tokyo, Nagoya, Karuizawa, la Germania prebellica, treni, abitazioni squisitamente giapponesi (dove verrebbe voglia di trasferirsi immediatamente), campagna e città, interni di aerei, alberghi, studi di progettazione, portaaerei etc. etc. Si resta rapiti, incantati.
Gli effetti sonori sono degni di nota. Il terribile terremoto del Kanto, l’elica degli aerei sono resi nel suono da voci umane. Ogni dettaglio è curato, ogni disegno raggiunge la perfezione, ogni suono architettato. Lo spettatore, al di là della comprensione profonda della storia e del finale, non potrebbe mai restare deluso.

   La dimensione onirica è assai presente in questo film. Nei sogni, tra l’altro, compare un mentore tutto italiano, Gianni Caproni, che guida Jiro dall’inizio alla fine della sua avventura, fino alla realizzazione del sogno.

  Arriverà la guerra ma essa non è protagonista. Per Jiro ciò che conta è il “bellissimo aereo” che vuole far volare, solo quello.

Del resto, come viene chiaramente scritto dal produttore Suzuki Toshio nel libricino che ha accompagnato l’uscita del film nelle sale:

「戦闘機が大好きで、戦争が大嫌い。駿は矛盾の人である。」

“Miyazaki ama gli aerei da guerra, ma detesta profondamente la guerra. Hayao (Miyazaki) è un uomo pieno di contraddizioni”

*Le immagini sono tutte tratte dal libricino suddetto e qui sotto trovate la canzone che accompagna il film.
**Ho volutamente eliminato dati troppo precisi della trama onde evitare di togliervi il piacere della visione. Gli spoiler non sono mai apprezzabili.

♫ ”ひこうき雲” 荒井由実 

ちょっと o della chiarezza del non detto

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  Ci sono parole misteriose. Che sembrano una cosa e poi sono tante altre.

Studiare una lingua straniera e soprattutto poi provarla sul campo è un notare continuo non solo del suo “centro” – delle sue vie alberate, delle strade eleganti piene di negozi, delle piazze con nomi famosi e altisonanti – ma anche delle sue apparenti “periferie” – viuzze, slarghi e rotonde poco frequentate da chi non conosce la città ma di cui, chi la abita, non può fare a meno.
Periferie che di una parola, di un’espressione, fanno spesso qualcosa di diverso.

Lo insegno sempre ai miei ragazzi, che più una parola la si usa più è soggetta a mutamento. Passa di bocca in bocca, attraversa regioni, fasce d’età, stati d’animo e ama cambiare, come le scale a Hogwarts, come le ragazzine di Shibuya.

Delle tante espressioni di cui ho imparato a scoprire giardinetti nei sobborghi, viuzze ignorate dalle cartine più importanti, ce n’è una: ちょっと che si pronuncia “chotto”, “ciotto”, e che, per il mio orecchio italiano, ha fascino nel suono. Ciotto, ciottolo, ciò, ciotola. Ha dentro un rumore che rotola via.
Ha il suono dell’acciottolio delle stoviglie nell’acquaio, di qualcosa di tenero e cicciottello, diminuisce ciò che rappresenta e insieme lo ingrassa.

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ちょっと  adesso lo si scrive in hiragana ma, insegna il giapponese di una volta, poteva essere anche un kanji, anzi due 「一寸」 dove 「寸」 era un’antica unità di misura e 「一」 è l’uno in giapponese oppure 「鳥渡」 che è un uccello, un volatile che attraversa. E chi lo sa che cosa era… 

Chotto matte ne. (Aspetta un attimo)Vuoi la torta?
Chotto dake. (Solo un po’)

Chotto, una parola che significa “un po’” ma che in realtà ha molto più tempo e materia al suo interno. Chotto non è solo un avverbio per chiedere di attendere un po’, per indicare una quantità limitata; è anche una risposta già di per sè. E spiega un altro pezzetto del popolo che lo pronuncia.

Scusi potrebbe dirmi quando arriva questo libro?
Chotto… (wakarimasen)

Quando crede si libererà un tavolo?
Chotto… (wakarimasen)

Il chotto sospende, omette, ferma l’interlocutore senza dire. E proprio qui sta il punto. Che non c’è bisogno di dire no, di dire , di dare una qualsiasi risposta. Il chotto mette Pause su tutto ed interrompe.
Diventa allora traducibile come un “non saprei”, un “ehm”. Sottintende una negazione.

Ma tra di voi che rapporto c’è?
Chotto…

Perchè non vuoi parlare con lei?
Chotto…

  Chotto è la distanza dalle cose, da un giudizio, tra una persona e tutto il resto del mondo. Una bolla che circonda e che ferma mani curiose, domande impertinenti, intrusioni nel privato. Perchè non c’è bisogno di dire – in giapponese non c’è n’è mai veramente – e la sospensione basta. L’altro capirà che non si può chiedere oltre.

Quel che ho capito in questi anni di un Giappone, che per me non è e mai sarà part-time, è che a dire le cose all’italiana spesso si arriva prima all’obiettivo ma che ad attendere e non dire alla giapponese spesso si arriva lo stesso, ci si mette tanto tempo e non si procurano ferite.

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  Non c’è un modo giusto, non c’è l’illusoria “via di mezzo”, c’è una situazione e varie possibili soluzioni e sta a chi cavalca due o tre o quattro culture scegliere quale strategia comunicativa usare. Mai privarsi dell’essere italiani ma mai far assurgere la propria cultura a quella “giusta”. Limita, rovina.

Il non so, il chotto che sospende è qualcosa che all’inizio confonde e indispettisce lo straniero “eccheppalle, un po’ di elasticità”, “suvvia, rispondi, un’approssimazione perlomeno” ma che poi, a lungo andare, lo rassicura “se lo ha detto è sicuro che sarà così, ci si può fidare”. Perchè nel tempo del non so, non posso dire non c’è menzogna.

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  Chotto poi serve anche a chiamare e insieme a protestare. Che suona come un “Ehi, scusi…”. Magari qualcuno che ti sta coprendo una visuale che ti spetta di diritto, qualcuno che intralcia il passo e allora diventa “scusi, permesso”.

Ma la lista è lunga ed io mi fermo qui.

Perchè Laura, adesso cosa devi fare?
Chotto…  ^^;