Hatsu-snowbord

🛷 POST di sfacciata condivisione gioiosa🏂

La prima volta in snowboard!!!
Io che credevo avrei mollato dopo dieci minuti mi sono fatta due discese e, come la giostra dell’altro giorno, avrei detto ancora ancora ancora.

Che bello schiaffone ho dato a uno stereotipo su me stessa! Non mi metto spesso in gioco (mentalmente in continuazione, fisicamente mai) quindi è stato bellissimo ❤️

Scrivere, leggere, è visitare l’altrove

«Scrivere, leggere, è visitare l’altrove.

Il posto in cui nasciamo, del resto, non è detto coincida con il posto in cui finiamo per vivere né, cosa ancor più importante, con quello in cui diventeremo felici.
Talvolta fin da bambini, talvolta crescendo – non è raro che ci si trovi a proprio agio in una diversa cultura – magari per la consapevolezza di non essere perfettamente allineati alla propria.

Scavarsi una nicchia di altro nel qui è una risorsa preziosa.

E allora l’altrove nelle storie non serve solo a viaggiare con la fantasia, né a imparare a leggere il diverso come interessante, ma è anche una risorsa importante per rimanere esattamente dove si è – nel centro di Roma, nella periferia di Seattle o nella campagna della Cambogia. E starci, se non completamente bene, perlomeno meglio.

Si tratta, soprattutto, di accettare l’ALTROVE dentro di sè.»

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Lo scrivevo su un pezzo uscito tempo fa su Il Libraio e … DOMANI PARTIAMO per la neve, le montagne, l’Hokkaidō e il bianco che brucia lo sguardo tanto è assoluto.
Penso all’effetto che farà sui bambini con cui non viaggiamo per bene da due anni e mezzo. Anche allora fu l’Hokkaidō, questa terra che per me significa la pausa più di ogni altra. Un altrove che è innanzitutto spazio.

Photo: 📷 di Kazuki → @kz_pht ←

Un boccone alla volta

Non ho mai avuto l’idea che si debba affrontare tutto. Né subito né, soprattutto, tutto insieme. Credo nell’importanza di prendere la vita poco per volta, di lasciarla pure fuori dalla porta quando si sente che, entrando, alzerebbe una tempesta. Per questo, anche il lutto per me è una cosa che si affronta non in giorni né mesi, ma in anni. L’oriente me lo ha insegnato. Io non ho fretta.

Ieri, scrivendo il romanzo, nella playlist è entrata per sbaglio una canzone italiana, una di quelle che mi riportano a Roma, al Giulio Cesare, a mio padre che la metteva su in macchina. Mi sono “accorta” – come mi accorgo un numero imprecisati di momenti in un anno – che lui non c’è più. Sono questi i momenti in cui affronto, a minuscoli bocconi, il lutto. Ho pianto piano, non ho chiamato nessuno. Non volevo che dilagasse perché in questi anni non ho il tempo e la forza mi serve per camminare dritta. L’ho riposto quindi in una delle infinite tasche che ha una giornata.


Ad alcuni paio forse anche assurda, una che tiene il dolore lontano, una che rimuove. Ma io non rimuovo, affronto le cose piano piano. Nei giorni in cui ho quella larghezza nel petto che i giapponesi spiegano con l’espressione 余裕がある “yoyū ga aru”, infilo le dita in quella precisa tasca, esploro l’emozione della sua assenza, e allora ne avverto non solo il pericolo ma anche la dolcezza.

«Il lutto è come qualcosa che si mangia ogni giorno, un panino fatto a piccoli pezzi e ingurgitato con calma. Oggi l’orecchio del pane, il granello rimasto di riso, domani il giallo spaccato del limone. La digestione era lenta.»

Me lo spiegò con la sua pacatezza Yui in «Quel che affidiamo al vento», e io le sono ancora grata.
Perché anch’io sono così. Affronto le cose più grandi e difficili un boccone alla volta. 

Le cose che impariamo facendone altre

Studiando i kanji che compongono la parola “lingua” e “linguaggio” 「言語」  in giapponese, le antiche radici di cui vi parlerò nel primo video della serie, ho capito questa mattina come apprendiamo certe cose facendone di completamente diverse. Impariamo virtù essenziali, le mettiamo pure in pratica, ma non le sappiamo per niente.

Come si assaggia la fatica, ad esempio, e come si impara la pazienza, che è capacità che il corpo per primo assorbe, passando la dritta alla mente che a sua volta processa la fonte. Ci sono qualità come la perseveranza, la tenacia, l’amore più resistente, tutte cose che in buona parte ci accade di intuire profondamente solo quando NON riusciamo a ottenerle. È quel perdere tempo in attesa di riuscire che rende quel tempo, precisamente, il più utile alla nostra formazione.
Primo Levi raccontava di come “Un’altra virtú che il mestiere di chimico sviluppa è la pazienza, il non aver fretta. Oggi la chimica è completamente cambiata, è una chimica rapida. Oggi l’analisi di un minerale non è piú manuale, viene fatta a macchina, e richiede pochi minuti, quando prima occorrevano settimane. Naturalmente era svantaggioso lavorare una settimana per analizzare un minerale, però questo consentiva di sviluppare altre virtú, che sono appunto quelle della costanza, del non scoraggiarsi, dell’applicazione assidua”
Corsi di pazienza io non ne conosco e anche esistessero è difficile credere in qualcosa di così immateriale. Ma ricordo di ogni riga che ho scritto, libro, articolo o post che fosse, gli almeno sette/otto passaggi fatti di cancellature, correzioni, riscritture, ribaltamenti, un articolo determinativo che diventa indeterminativo, un altro che sparisce, un singolare tramutato in plurale, parole che cambiano pelle perchè suonano ripetive, altre invece rinforzate proprio perchè nella ripetizione trovino la forza di raccontare il senso profondo di quella frase. E via, da capo, di nuovo. Fino a che un libro lo chiudi non perchè finisce ma perchè, come ho letto una volta, l’autore è sfinito e non ce la fa più a modellare quelle vite.
E scommetto che ogni mestiere, a partire dall’essere figli, dall’essere cuoco o genitore, assemblatore, meccanico o professore, avvocato o programmatore, ha certe zone di contrattazione, quel tempo che si teme di star perdendo, il non riuscire, ma che invece ci sta impartendo una lezione fondamentale: la pazienza, la perseveranza, e insieme l’amore che ci spinge a continuare, perchè in fondo vogliamo vedere come andrà a finire.

Teshima e gli Archivi (dei battiti) del Cuore

«Nella ricchissima onomatopea del giapponese doki doki racconta del cuore l’emozione, baku baku ne spiega invece l’ansia; toku toku si usa quando il cuore fa un piccolissimo rumore, come quello di un bambino che pulsa sottovoce. Il suono si fa accelerato in un neonato, in un cagnetto; qualcuno perde un battito, qualcun altro nel cuore ha un soffio.
Sull’isola di Teshima, nell’arcipelago della prefettura di Kagawa a sud-ovest del Giappone, nasce e cresce un museo che raccoglie i battiti del cuore di decine di migliaia persone: Les Archives du Cœur, gli Archivi del Cuore. […]
Dei tanti cuori che ascolto quello che mi commuove alle lacrime è di Arima Hanane, cui si mischia forte il suo pianto dopo pochi secondi dall’inizio. È il numero 42797, registrato il 2021/08/15 in questo stesso luogo dove io adesso siedo, con il mare di fronte. “Ho zero anni, e sono venuta con mamma e papà” recita il messaggio di accompagnamento.
Il numero del mio cuore – Laura Imai Messina, 2021/08/19 – sarà il 42818 ma io ancora non lo posso sapere.»
 ↑ Questi sono frammenti del lungo pezzo/reportage che esce oggi su la Repubblica e a cui tengo #immensamente. Lo trovate in edicola o qui https://www.repubblica.it/…/tokyo_museo_cuore-315095534/
Sul mio profilo Instagram @lauraimaimessina invece mille foto ❤️❤️❤️ in più di questo posto meraviglioso.
 Scrivo di questo museo dei battiti del cuore, della storia di un’isola che si è riscattata da un destino feroce. Vorrei lo leggeste. Perché su questo luogo sto progettando grandi cose. Mi è rimasto, letteralmente, nel cuore.