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「節」 è setsu, il “passaggio” e il “periodo”, ma è anche – a seconda della lettura del kanji – fushi, l’“articolazione”, la “giuntura”. Il “nodo”.
Aggiungici l’occhio ed esso si trasformerà in 「節目」 fushime, nel “punto di svolta”, quello che determina il cammino, la crescita d’un albero, lo sviluppo d’un bambino, la psiche di un adulto.
I giapponesi sono soliti spiegare questo concetto con il bambù, con l’immagine dei nodi che si creano di sezione in sezione e sostengono, del suo fusto cavo e legnoso, l’allungarsi solido e ritto verso il cielo. La crescita che inizia da un nodo e in un nodo finisce. Così sono le fasi della vita, ed ogni svolta è un irrobustirsi. Così ogni periodo dell’esistenza risulta necessario ed esso va affrontato bene, dal suo inizio alla sua fine.
Così l’anno dei giapponesi è punteggiato, come un quadro di Seurat, di cerimonie che determinano il passaggio da una fase all’altra della vita. E non vi è nulla di superfluo nel cerimoniale, che sia quello delle grandi occasioni o della vita quotidiana. Lo shichi-go-san, il rituale dei saluti, il biglietto da visita, il funerale. Eccetera eccetera.
Ogni periodo si congiunge a quello successivo, e lo 「繋がり」 tsunagari è il “collegamento” che preserva dalla fine improvvisa, che previene l’incrinarsi dello 「和」 wa, dell’armonia.
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Accade alla fine della prima ora. Una studentessa mi si avvicina. È M-chan, che ha una malattia della pelle che le oscura il volto, le braccia e il collo, che le apre ferite e mostra spesso del suo corpo lo scarlatto. È la più grande della classe e lo testimonia il puzzo di fumo che si porta dietro nella trama dei vestiti, nei capelli che lascia sciolti e neri sulle spalle. Se non avesse più di vent’anni non lo potrebbe fare, non potrebbe neanche bere: la maggiore età in questo paese arriva tardi.
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Mi chiede la situazione delle sue assenze ed io, che ho il registro davanti, le dico che non può più farne ma che non si preoccupasse, che anche l’altro semestre aveva raggiunto il limite e poi, all’esame, aveva preso un ottimo voto e che, quindi, mi aspetto a gennaio molto da lei.
Le tremano terribilmente le mani. Vuole parlarmi di qualcosa. Mi dice che di assenze non ne farà più, che cercherà di venire sempre, ma che non sta bene e che non è una scusa. Mi porge una busta, le faccio una carezza sulla spalla. Mi ringrazia, se ne va.
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I ventuno sembrano anni belli e per qualcuno lo sono veramente. Ma ad altri confondono le idee, rimescolano ogni cosa. Forse è una coincidenza puramente numerale ma così è stato per me e così è per tanti miei studenti. Almeno uno o due, ogni anno, sembrano cadere. Si perdono. Iniziano a star male. Arrivano pesti dal sonno, lo sguardo torvo, sul viso si spengono luci e restano finestre con le persiane sempre chiuse, facciate senza ornamenti.
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A questi ragazzi io porgo la mia storia, liberata dalla lische, spiego quanto anch’io una volta mi sentissi sradicata, vivessi perenne il sentimento della fine. Racconto loro dei litigi, del significato latente dei giorni che mancavo di contare perchè, a viverli così, non c’era desiderio di ricordarli. Ma poi parlo loro anche della fatica – che, se è originata da se stessi, sa di autostima duratura e regala inacquistabile potere – dell’essere testarda, dello studiare con una passione esagerata, figlia in egual misura della gioia di sapere e del desiderio disperato di salvarsi. Del “periodo” che finisce, del nodo robusto che si crea e del nuovo che nasce da quello che sembrava, invece, un completo fallimento.
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Ed ogni volta che me li trovo davanti con una busta chiusa che mi racconta di diagnosi di depressione, di malattie nervose, o magari di malattie fisiche che li costringono a complicate operazioni e ne fiaccano la mente, ogni volta che mi porgono con mani tremanti e viso indifeso dichiarazioni della loro debolezza, penso a quanto sia maledettamente complicato crescere. È una vertigine, è la “balbuziente grandezza” della gioventù. Tutti perennemente impreparati ad ammirare cieli ardesia che invece di stelle chiamano tempesta. Eppure, nonostante tutto, li guardano quei cieli che tendono al grigio e poi al blu, e sperano, nonostate il vento che si alza e le nuvole che affollano la vista, nelle stelle.
Ci sono persone che queste fasi le vivono a ventuno anni, altri che le vivono ininterrottamente dall’adolescenza alla maturità. Altre che vi passano attraverso incolumi, come piedi di fachiro sulla brace, e ignorano nel profondo quanta fortuna serva perchè ciò accada. Ma quel che dico a questi giovani uomini e donne, è che bisogna imparare presto, nella vita, a chiedere aiuto. Che fare terapia aiuta ad accorciare la via. Ma soprattutto che c’è sempre una strada che ci porta fuori dalle prigioni e non è una strada che costruisce qualcuno per noi, è una strada che ci costruiamo da soli, come carcerati che guadagnano la libertà con solo un cucchiaino e un pezzetto di ferro. Scava, scava, prima o poi ti trovi all’aria aperta, faccia a faccia con la luce, il cielo pieno e sconfinato.
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E non bisogna stare troppo tempo ad odiare chi ha costruito intorno a noi quella prigione. A volte è solo troppo amore, errori subiti e reiterati, perchè è facile confondere la “vivenza” con la sopravvivenza.
No, non bisogna perdere tempo. Che non passi giorno senza cucchiaino e pezzetto di ferro alla mano.
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E mentre parlo o scrivo loro, sento che davvero è valsa la pena di stare tanto male. Sia perchè adesso darei per scontato molto di quello che ho e che ricevo, sia perchè altrimenti non potrei aiutare altri.
Spesso si ha una insensata, benchè naturale, paura di soffrire. Ci si dimentica che anche la sofferenza serve a creare nodi di bambù, ch’essa costituisce parte di ogni setsu. Basta non lasciarsi incattivire dai dolori e portare a termine, con caparbietà, ogni sezione del percorso.
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A me tutto questo ha portato una serenità bella ma complessa che è adesso la mia vita. Con Ryosuke, la Gigia, questo paese annodato tutto intorno e centinaia di studenti che di anno in anno mi donano le loro fragilità. Una vita che amo tanto.
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