『可愛い子には、旅させよ』 o della maternità
È un serpente che si ingoia la coda. Che si arrotola su se stesso e diventa una girella. Torna e ritorna il pensiero di quello che accadrà, di come andrà. E poi c’è il “se” che rende traballanti fondamenta.
Ed io che son ripetitiva nell’affetto quanto fuggo invece la ripetizione nel linguaggio, che di questo tornare e ritornare sempre sulla stessa cosa sono cosciente senza però la capacità di migliorare, chiedo perdono. Mi scuso in e con continuazione.
“Dico sempre le stesse cose, faccio le medesime domande. Mi dispiace. Ma… secondo te andrà bene? Piacerà? Manca così poco. Verranno a trovarmi? Sarò all’altezza? Andrà bene? Piacerà?”
Ma Ryosuke non mi ignora, mi risponde, ed è sempre un rassicurare. Che è normale, anzi ovvio:
「ピッチャの子供だから」
“E’ perchè è tuo figlio”
Ed è vero. Che i figli non sono solo di carne o di pelo, ma anche di carta, di bites, di tempera, di stoffa, di farina e uova, di colori, di un progetto finanziario o fotografico, di una causa, di parole, di lezioni, di cure ad un paziente, di un viaggio organizzato etc. etc.
E questo sentimento di maternità e di paternità è in fondo un segno di un possesso che non corrisponde ad un comprare ma che è innanzitutto un desiderio ed un impegno.
Perchè ci sono cose che capitano, come capitano a volte i figli, ma ci sono donne e uomini per cui quel che capita per caso e naturalmente ad altri non è ovvio, e loro se lo devono guadagnare, architettare, in un faccia a faccia costante con se stessi e con la propria paura di non riuscire mai. Cose che richiedono un gran tempo e un gran coraggio, perchè la tenacia porta spesso in egual misura a successi e a fallimenti.
Si può allora essere madri e padri a pochi anni, di qualcosa che ci coinvolge da vicino, che sentiamo prolungamento d’arti e di interiora, qualcosa che poi però bisogna avere il coraggio di prendere per mano e spingere con delicatezza al centro di un palco, fuori dal portone di una casa. Qualcosa da presentare un giorno al mondo. Che i cassetti sono fatti per i desideri che non sono ancora maturati a sufficienza per uscire, per cadere come frutti da un ramo ed essere mangiati. Ma che, per quelli già belli e fatti, i cassetti sono tombe.
Per rispettarli i propri sogni è importante prima o poi lasciarli andare, proprio come i figli.
Li saluti a gennaio. Alcuni li vedrai, altri mai più. Forse li incrocerai per strada, nelle casualità che capitano a frotte in questa città enorme. Ed è bella la leggerezza nel distacco, questa inconsapevolezza del mai più. Sono gli studenti che incontro ad aprile, sotto la fioritura piena dei ciliegi, e che lascio andare in inverno, quando scende ormai la neve e il gelo scuote la spina dorsale.
Crescono, un anno è l’arco di un pensiero profondo che alcuni affrontano, altri subiscono, altri ancora ignorano. Arriverà l’anno successivo. Ogni dramma un’occasione per imparare presto la propria forza e la propria debolezza. E non c’è alcuna banalità nella parola “amore”, un sentimento che io avverto per questi ragazzi e che tanti di loro mi dimostrano nel tempo.
In giapponese c’è un proverbio dolce che recita così: 『可愛い子には、旅させよ』/kawaii ko ni wa tabi saseyo/ e che letteralmente significa “il bambino amato, facciamolo viaggiare”. Perchè la tua creatura la vorresti sempre vicino, il bambino amato perennemente tra le braccia per proteggerlo da tutto e anche, egoisticamente, per coccolarlo ancora a lungo.
Ma proprio perchè il bambino è amato va lasciato andare, va liberato, va provato. Bisogna dargli la possibilità di misurarsi con la vita.
Merita fiducia.
忘れ物 o lo spirito degli oggetti
Sali e scendi e sembra di stare sempre in altalena. Che la vita sia tutta un allungare gambe per montare a bordo di qualcosa, girare il corpo, aspettare d’essere partiti per assestarsi bene o solo “alla meglio”, dondolare nel passaggio da una stazione a un’altra, e poi scendere e dimenticare così la verità della distanza, che non si misura più in termini di spazio ma di tempo.
Ma i treni a Tokyo non sempre dimenticano chi ha viaggiato al loro interno. Arrivano spesso al capolinea conservando il passaggio di migliaia di persone. Sono gli oggetti che raccolgono ad ogni corsa gli addetti e i capotreno. Come un rastrellino sulla sabbia, un passino che conserva grumi di farina. Perchè molte di quelle persone dimenticano quotidianamente a bordo dei convogli un frammento della propria giornata, di quella che inzia, che è ancora in corso o di quella che finisce.
Sono i wasuremono 忘れ物, le cose che si dimenticano al presente, le cose che si sono dimenticate al passato. Sono gli otoshimono 落し物, le cose che si lasciano cadere, smarrimenti delle mani, di una borsa, di una tasca ballerina. Sono gli oggetti lasciati dietro sè.
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E in ogni stazione, in ogni grande magazzino, università o ufficio, vi è un centro che raccoglie gli oggetti smarriti, che mette insieme piccoli tesori personali che i luoghi non hanno assorbito, perchè se la natura cela, i materiali duri della città tendono invece a svelare. A volte hanno nomi precisi come otoshimono center 落し物センター, a volte assorbono anche molte altre funzioni.
Se gli oggetti sono stati scelti, se gli oggetti sono stati amati, ogni perdita è un lutto. Ogni wasuremono e otoshimono è qualcosa che rattrista e non lascia indifferenti.
Così che per quanto “inutile” possa sembrare, quando trovo questi rimasugli sulla strada o in un negozio, vado all’ufficio preposto o al koban (cabinotto della polizia di quartiere) a depositare non solo portafogli e carte Suica, ma anche pupazzetti, sciarpe, ciondolini. Giorni fa in aeroporto ho trovato un orecchino, per strada uno strap di Kumamon.
Questa a Tokyo è la stagione dei guanti. Decine di mani dimenticate per la strada. E l’unica cosa da fare è poggiare questi figli spaiati di mani minori in una posizione che spicchi. Così che da lontano, infilati dritti e spalancati sul pomello di un vaso di fiori, appese a un cartello di segnaletica stradale, poggiati su una panchina, appaiono quasi come un saluto e insieme uno stop, fermati, aspetta, cosa fai?. Creste di gallo, scherzi di bambini.
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E capita tanto spesso anche a me. Che esco con un mucchietto di oggetti la mattina e torno a casa senza alcuni di loro.
Come l’ombrello rosa pieghevole lasciato ai miei piedi giorni fa sulla Linea Tozai perchè ero troppo concentrata nella scrittura e, quando a Nakano il treno ha abbandonato la superficie e ha ceduto al sottosuolo, avevo già dimenticato che fuori pioveva ancora. E l’ombrello si è fatto wasuremono.
E poi chiavette con dentro proiezioni per i seminari, spezzoni di film da analizzare, lezioni intere, articoli in divenire, racconti, il mio diario di dieci anni, fotografie. Ma anche penne a inchiostro, cuffie, elastici per capelli, guanti, cerotti, matite per gli occhi, medicine. Disattenzione del vivere sopra alle righe dell’ora e del qui, perchè la testa è immersa in tante storie, in frasi che ti vengono in mente all’improvviso e corri ad appuntarti. Perchè evaporano le idee.
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Sono quelli soprattutto i momenti in cui perdo pezzi. In cui gli oggetti mi abbandonano, forse gelosi di tanta disattenzione.
Ma le cose in Giappone godono nel tempo di un privilegio che rimane: diventano spiriti. Una bella credenza giapponese, chiamata tsukumogami 付喪神, vuole che le cose che vivono un centinaio d’anni si facciano una sorta di deità.
Cento anni è quanto basta a un oggetto per acquisire un’anima. Perchè assorbe il tempo che passa e con esso la saggezza che da esso deriva. È il perdurare nonostante tutto, lungo le ere degli uomini capricciosi ed incostanti, assorbendo il loro amore e la loro cura, tollerando l’incuria, osservando spazi cambiare freneticamente come in un time-lapse.
Ma il cento è solo un numero approssimato per dire che ci vuole tanto tempo.
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L’occidente ha frainteso questa leggenda e immagina lo tsukumogami come uno spirito, uno solo, che entra negli oggetti e vi si installa.
E invece è proprio quella cosa che cambia e quando la credenza scende nel dettaglio, si comprende come gli oggetti premino e portino del bene a chi li cura, come portino sventura a chi li maltratta, li disprezza o li ignora. Che gli oggetti avvertano qualcosa, che l’anima acquisita in lungo tempo li renda grati e fortunati o vendicativi e maledetti. L’harikuyo 針供養 del resto serve proprio a questo. A ringraziarli per tempo.
Quanti oggetti adesso superano due o tre generazioni? Quanti superano uno o due cambi di stagione? Un trasloco? Una relazione che inizia e una che finisce? Una moda?
Basta saperlo. Che la cura premia. Che possiamo offrire un’anima a una casa, a un mobile o anche a un libro. Che donandola a loro ci verrà del bene.
E forse avremo infine più cura anche di noi stessi.
におい o dell’odore
Vi sono in giapponese parole che si pronunciano allo stesso modo ma che, a guardarle bene, rivelano un corpo differente. Gemelli con voce che coincide ed aspetto che non suggerisce parentela.
In una piccola variazione di intonazione, la carta si fa dio oppure dei, e poi, in un altro salto della corda, si sfa in una ciocca di capelli. È kami, si dice sempre kami, ma allo specchio ogni kanji si vede per quello che è. 「紙」 「神」 「髪」e sciogliendoli, come si fa con i nodi del mare, ne scaturiscono storie differenti.
La poesia 「詩」che si fa morte 「死」, che si trasforma in un guerriero 「士」, poi in un figlio 「子」, nel quattro 「四」, nella città 「市」e nel filo 「糸」, nei testi musicali 「詞」, in qualcosa che collega un’altra frase, come una “e”. E tanti tanti altri che però, nell’ascoltarli letti dalle labbra di qualcuno, sono sempre e solo shi.
植物に水をあげるし、話しかけるし・・・
……..Do l’acqua alle piante e parlo loro…
Accade anche con l’olfatto e il sostantivo che in questa lingua si tira dietro gli odori. È nioi 「匂い」 ed è nioi 「臭い」, solo che il primo loda ciò che è gradevole, l’altro accusa quello che fa senso.
Ogni volta che la Gigia torna da casa dei miei suoceri me ne accorgo. Che una famiglia nasce da un odore, che quest’ultimo è il cibo che si prepara e che entra a far parte del corpo di ognuno, il detersivo che libera i panni dalle macchie, è l’animale che abita la casa, il sole che batte sulle finestre se vi batte, la vegetazione che allunga rami sul balcone e dentro casa. È l’umidità che s’infila nei muri e ne indebolisce la trama e la salute. È il deodorante per ambienti, è la cucina che magari è un tutt’uno con la sala da pranzo, è la quantità di carta che si spalma sulle pareti, il legno del parquet, è la fragranza del caffè, del tè che si preferisce, è il bollitore del riso, il sugo della pasta.
Frammenti di un aroma che, come un puzzle, determinano quel particolare odore e nessun altro.
È l’odore della casa. È l’odore del Giappone.
. Per me il Giappone è lo zampirone che caccia le zanzare e chiama i miei ricordi. Perchè fu in estate che giunsi, per la prima volta, in questo paese. Quando nella stanzetta dell’homestay quello che mi agitava veramente era la lontananza da un ragazzo italiano, dal mio cane Topo, dalla solitudine in cui vivevo già dai sedici anni. Era una stanza con la moquette rosa, senza tende spesse che accoglievano quindi la luce tutta, uno shock per me che ero avvezza più al buio che alla luce. La camera dei signori Kusama, la scrivania di legno chiaro su cui studiavo fitto kanji, la lampada nera che un gatto di pezza cavalcava.
E poi c’era il daruma di un qualche studente che in quella stanza aveva vissuto prima di me il suo Giappone, un solo occhio disegnato, l’altro probabilmente chiuso per sempre nel biancore.
Sono come le monetine a Fontana di Trevi, gli occhi del daruma. Perchè chi viene, e si innamora, vuole ritornare e spera che non passi troppo tempo.
È strano ma trovo spesso in queste stradine tanto lontane da casa i profumi dell’infanzia, la montagna bella dell’Abruzzo, il mare di Nettuno e quelle sere in spiaggia quando il solo sopraggiungere del buio era un evento.
Nel minuscolo bagno che in Giappone accoglie il water, accendo una piccola stufetta elettrica, dopo la pausa dell’autunno, e ne esala un odore dell’infanzia, delle ciambelle, del pane del forno a Nettuno, le mattine in cui ci si voleva viziare e si comprava la pizza da farcire con prosciutto e mortadella.
Scopro così che gli odori si assomigliano nella diversità e non nella coincidenza. Perchè il ricordo olfattivo richiede precisione, perfetta adesione. Perchè uno stesso cibo profuma diversamente a seconda di dove lo si mangia, di chi lo prepara, di chi lo mangia. Ci sono troppe incognite nel gioco degli odori. Ma il profumo arriva inaspettato, non lo si architetta così come non si costruiscono i ricordi. Proprio come i due kanji dell’odore, che sono vicini (nioi 「匂い」nioi 「臭い」) , si leggono persino uguali eppure sono il più e meno di qualcosa. Il positivo e il negativo.
L’odore preferito è quello della pelle di Ryosuke. Mi trasmette pace. E infilo il naso nello spazio tra la maglietta e il suo collo.
Entro in casa e non conosco più il suo odore perchè mi si deve essere posato addosso in questi anni, e non lo potrei più distinguere da me.
E avvicinandomi a qualcuno mi affascina pensare che ognuno si porti dietro l’odore della propria casa e dei propri affetti, forse acre oppure dolciastro, l’odore delle scelte, del vivere da soli, del vivere insieme ad un cane o ad un bambino.
E tra una manciata di giorni sfoglierò “Tokyo Orizzontale”, vi immergerò il naso nella libreria di una città italiana, chissà quale, e già so che quello diventerà un nuovo ricordo.
Sarà l’odore del mio primo libro, di un romanzo che mi ricorda tante cose, della gioia di raccontare una storia tutta mia e di condividerla con chi la leggerà.
Non vedo l’ora.
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距離 o della distanza
距離 kyori è la distanza. A volte in giapponese la distanza la si “posa” (距離を置く kyori wo oku), oppure “c’è” (距離がある ga aru), semplicemente. Come in italiano la si “prende” (距離を取る kyori wo toru) e così fiorisce tra sè e qualcosa che fa male o tra sè e qualcosa che invece si vuole riaffrontare dopo, con più calma.
Ho sempre vissuto il vuoto come horror vacui, il niente come “niente”. La lontananza come paura ed afflizione. Ma questa città orientale mi ha insegnato la distanza. La sua necessità. E la sua intrinseca bellezza.
Perchè la distanza è anche desiderio. È nostalgia: non quella che ti fa piangere e star male, ma quella buona che ti fa comprare un biglietto per partire e ti sostiene ogni santo giorno che lavori per mettere da parte il denaro necessario. Quella che ti dice che prima o poi, dietro a un mucchio di storie andate male, spunterà il giaciglio d’una vita. Quella che ti indica la strada per scalare la montagna che vuoi tu.
Tra te e il tuo progetto, qualunque esso sia, c’è la distanza che si intreccia alla fatica, all’impegno. E nel tempo che ti separa dalla sua realizzazione potrai capire se davvero è quel che vuoi. Perchè in questa vita si può cambiare idea e la distanza aiuta a farsi domande (“è proprio questo quello che voglio?”) e di giorno in giorno aiuta a confermare una passione. Maggiore è la distanza, maggiore è il desiderio che le cresce dentro.
C’è poi la distanza del nascere in un posto e finire invece altrove.
Vivere all’estero ti muta prospettive e per quanto ormai l’estero sia casa e casa sia un concetto che trasloca, rimane quel margine di incomprensione che ti ricorda che hai ancora tanto da imparare. Che per quanto ci vivrai, ovunque sia, ci sarà sempre qualcosa che non sai.
La distanza ti fa allora dubitare dell’infallibilità delle tue opinioni, ti insegna la caducità delle conoscenze che hai accumulato. È un perenne autunno la memoria. Quel che non sai è, e sempre sarà, maggiore di quello che sai o che ricordi. E persino quel che sai, chissà… potresti averlo sentito male, potresti averlo appreso già viziato da un pregiudizio che filtrava un tempo la tua visione sulle cose. Magari un errore di pronuncia, la via sterrata di un discorso con qualcuno, polvere e terriccio che ti fanno andare naturalmente dove tu conosci, e che quindi immagini vero ovunque. Ma l’altro no. Che lui è già altrove. E ti guarda da lontano. La distanza ti insegna l’umiltà.
E nella distanza che nel quotidiano adesso è tra me e la mia lingua madre ho trovato un modo di amare questa di un grado in più.
Non parlo mai italiano nel mio giorno. Ryosuke mi dice la sua vita in giapponese, io gli racconto la mia nella sua lingua. L’italiano sono le chiacchierate su skype con le mie amiche, quando per miracolo gli orari si mettono d’accordo. Poi nient’altro. Perchè nell’insegnarlo è un’altra cosa e va tenuto al guinzaglio per non confondere chi lo sta imparando con fatica.
E allora leggere libri e farmeli raccontare, perchè lo voglio anche sentire l’italiano, che vederlo solamente certi giorni non mi basta. In Giappone ho scoperto su iTunes programmi della radio come Ad Alta Voce, che mi raccontano le “Favole al telefono” di Gianni Rodari, “Riflessi in un occhio d’oro” di Carson McCullers, “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo o “La peste” di Albert Camus, Alberto Moravia e il suo “Agostino”, Primo Levi e la prosa straziante che risuona nei miei viaggi in bicicletta verso il lavoro, tra gli scaffali di un kombini, mentre faccio le pulizie a casa o porto la Gigia a passeggiare. Radio2 e i programmi de Alle otto della sera mi spiegano 20 film, 20 imperatori romani, mostri e principesse. Radio3 e Wikiradio, perchè ogni data ha dentro almeno una storia.
Belli? No, di più. Grazie alla distanza ho capito ancor di più come la lingua vada coltivata. E non solo una straniera, ma anche e soprattutto quella propria. Perchè più modi di dire si impareranno più sentimenti si sapranno raccontare, più nel linguaggio riusciremo a dirci, e il nostro scrivere e parlare non ci tradirà. Comunicheremo esattamente quello che vogliamo comunicare.
Distanza, una mano che si avvicina, lo spazio di un bacio. La distanza tra la bocca e una guancia, tra una bocca e un’altra bocca. La distanza tra un amico ed un amante e quel fazzoletto di niente che permette la trasformazione di quel che era in quello che sarà. È la distanza che è sensualità.
È bella allora la distanza. È un fingersi lontani per capire meglio quel che, per una serie di ragioni, si è avvicinato troppo. Sono le abitudini, ciò che si dà per scontato. E a un centimentro di distanza l’occhio non può vedere niente.
Sciogli un attimo l’abbraccio. Posa della distanza tra di noi. Voglio guardarti in viso e trovarci quello che, in quest’intervallo, ho dimenticato. Che io mi accerti del tuo volto, che negli anni forse è mutato, che io trovi l’espressione che amo sempre ma che ho scordato.
E per caso, proprio oggi, in Giappone è il ‘giorno degli amori a distanza’ 「遠距離恋愛」