「五月病」 o dello spegnere la testa e accendere le mani

È la malattia di maggio.

Il morbo di gogatsu che ha, in giapponese, un nome proprio. È 「五月病」 gogatsubyō e le sue radici s’attorcigliano in aprile, che è il mese degli inizi, e si sviluppano soprattutto in quelli che lo hanno preceduto – gennaio, febbraio, marzo – che spesso sono un succedersi serrato di prove e di fatiche. Che sia l’università con i suoi terribili esami di ammissione, che sia un posto di lavoro di cui apprendere ogni dovere e ogni potere, non cambia molto.

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Maggio si trascina dietro la Golden Week, giorni di vacanza in cui si paga infine il debito agli sforzi, alla stanchezza accumulata. Rigenerarsi all’improvviso ha anche questo rischio, che invece di tornare alla vita di sempre con più lena, si rimane a desiderare che qualcosa di eccezionale si tramuti piuttosto in abituale. Il piacere molle della sveglia che divora la mattina, del giorno senza spina dorsale.

Chi è felice raramente è acido con gli altri. Lo so bene. E quando sale il nervosismo, quando rimbrotto qualcuno che non fa come dovrebbe, riprendo un ragazzo che corre spericolato in bicicletta con le cuffie nelle orecchie, un altro che supera la folla che accede ordinatamente in fila al convoglio, mi chiedo cosa vi sia che mi fa stare male.

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Lo so cosa c’è che non va. Ma non ci sono subitanee soluzioni a certi sentimenti. Il tempo, solo quello, sa guarire alcune cose. E certe emozioni sono come vestiti, per cui c’è una stagione precisa per indossarli. Vanno riposti con dolcezza in un cassetto, piegati con amore, lasciati ad attendere un’estate o un inverno, una primavera o un autunno.

Di me non sono gli occhi, nè la faccia, nè il corpo, nè una bellezza strepitosa che non ho.

Di me non sono le gambe, nè il seno nè il ventre, di me è la testa soprattutto. La parte che più apprezzo, quella che mi fa pure soffrire, ma che amo e che mi premia.

DSC02234  Eppure a volte la mente si inceppa, non funziona. Dice sciocchezze clamorose, un po’ si offende e si dileggia, si spreme senza soluzione, gira in tondo e s’afferra per la coda. Facendosi oltretutto molto male.

  Cosa fare in quei momenti? Quando i tentativi di risolvere un problema sono come mosche in un bicchiere? Come affrontare quel disagio? Come ingannare l’attesa inevitabile, l’inquietudine che alza la bandiera?

Quando la testa non funziona, quando tutto è trascinato da una valanga che porta a valle ogni tentativo di scalata, bisogna sfoderare solo un paio d’armi: le mani. Solo quelle.

Sarà allora un pavimento da pulire, un vetro da lustrare. La cipolla da tritare fino al pianto sul tagliere, il pomodoro da liberare dalla sua pellicina con l’acqua bollente, l’arancio dalla buccia. Saranno pulizie, sarà del cibo.

Oppure scriverai kanji, uno dopo l’altro, e copierai pagine di un libro in giapponese. La pasta scolerà con precisa convinzione, il riso appena bollito lo girerai con perizia per farvi entrare l’aria e non farlo appiccicare. Pagherai bollette, andrai alla posta a inviare un pacco o una cartolina.

Farai le cose con cura, coccolerai gli oggetti. Tirerai fuori tutti gli abiti dall’armadio, riparerai quel buchino con ago e filo. Poi noterai macchie e metterai su una lavatrice. E benedirai questo secolo di bisogni minuti che hanno troppe cose per le mani.

Cose da comprare, cose da usare, cose da riparare, cose da curare.

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E ringrazierai persino il rosso che si crea ai lati dell’ofuro, perchè adesso lo striglierai a dovere e le tue mani ti allontaneranno di un’altra ora dalla soluzione del problema che ti affligge, quello che anche a pensarci e ripensarci non risolvi. Quello su cui la testa ancora ha bisogno di indugiare, di sentirsi perduta, per poi ricominciare.

Quando la mente si ingarbuglia – perchè la disperazione e l’inquietudine sono veri nodi – saranno le mani a sciogliere la rete che cattura, a tirare filo dopo filo la matassa.

Avrai tanto da fare. Usando le mani, aiuterai così la mente a riposare.

E quando questa riprenderà a funzionare, non avrà di che lamentarsi, del tempo perduto, del tempo passato. Del passato prossimo che accumula saggezza nelle mani.

Si sarà aggiunta piuttosto la soddisfazione di aver fatto cose spesso rimandate, cose che la mente appena sfiora.

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♪ Lecca, For you

A sera ci vuole un poco di dolcezza

  Giornata veloce con un sacco di errori dentro. Ma anche gioie minute, di quelle che portano scarpette di neonato a donne anziane. Inutili ma belle.

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  Bilancio di un giorno. Io lo tiro sempre sulla porta dell’ofuro, quando le ore s’arrotolano intorno alla pelle che bolle, s’appiccicano al corpo che s’abbandona all’acqua calda. Il vapore che fa scivolare le mani e le dita che non riescono a strappare la bustina dei sali termali che nel verde sgargiante, nel giallo senape, nel rosso corallo promettono di portarti a Beppu, Hakodate, Gunma, alle onsen più famose del Giappone.

DSC01993  Io lo schiaffo lì dentro il bilancio del mio giorno, che s’ammolli anch’esso nella vasca, che s’abbandoni al benessere che porta con sè un tempo libero dal fare, dal riuscire, dal dovere.

  Che l’inutilità mi rassicuri che le cose giuste sono anche quelle senza un fine, senza uno scopo da quantificare. Perchè il benessere non ha numeri e non ha scale.

 「一日を振り返る」ichinichi wo furikaeru è letteralmente, in giapponese, “voltarsi verso il giorno”, guardare indietro quel giorno che è appena terminato. Un’azione che comprende spesso  se + congiuntivo, condizionali un po’ feroci, che si mordono le labbra.

 È faticoso dire bene di se stessi. Più facile dire male.

 Eppure è giusto, a fine giornata, proteggersi dalla severità del proprio giudizio. Esser misericordiosi con le proprie debolezze, con quanto di sbagliato storce i gesti quotidiani. La meschinità dei pensieri.

  Come è andata questa giornata, Laura? Cosa hai fatto? Hai fatto abbastanza? Hai fatto tutto quello che dovevi fare?

  I bilanci che galleggiano placidi tra le tue ginocchia, carezzano l’alluce e tornano indietro, verso le spalle che rimangono un poco fuori, il collo che s’infreddolisce, la nuca protetta da un panno perchè i capelli continuano a crescere lunghi, sempre più lunghi e le punte non si devono sciupare.

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  Nell’ofuro c’è solo l’acqua che ti avvolge, la voce della radio che ti insegna, i pensieri che seguono traiettorie tutte loro. Scocchi frecce senza bersaglio. Dove cadranno, ovunque sceglieranno di arrivare sarà giusto.

  Alla fine del giorno ci vuole più dolcezza del consueto. Ci vuole un po’ di calma.

  E lì, mentre fuori dalla porta trasparente dell’ofuro scorre la voce di una professoressa di letteratura francese che ti racconta in un podcast avventuroso i guai giudiziari di Rochè e di Flaubert, ti fai conquistare dalla fine delle cose. Dal termine del giorno, che non può più farti male. Domani andrà meglio. C’è tempo. C’è ancora il riposo in mezzo.

  Domani è lontano un’altra notte.

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♪ John Legend, All of me

«Tokyo non ha bisogno di maschere»

   «Shinjuku ha gli occhi spalancati. E non dorme mai.

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O così almeno credono i tokyoti. In verità, fa brevi ma frequenti pisolini a bordo dei treni che transitano sui binari e si concede la pigrizia dell’attesa in alcune domeniche di luglio, di mattina presto, quando le rotaie sono ancora fredde e la pioggia soffoca l’aria di umidità.

   Un occhio aperto e l’altro chiuso, fingendo una vigilanza che non le appartiene. Shinjuku è tentacolare e allunga le sue ventisei braccia, tredici linee in doppia direzione, sopra e sotto la superficie di tutta la città.

   DSC01882Non ha ciglia e non le sbatte mai. Ma deve stare in guardia dagli stuoli di ubriachi che si riversano in strada ogni notte e dalla yakuza che passeggia per Kabukichō.

E se Shinjuku lo fa, il suo mabataki – il ritmo delle ciglia sulle guance, dell’occhio che si apre e poi si chiude, che si chiude e poi si apre –, ecco se lo fa è solo per incantare chi ha voglia di cadere. Shinjuku ci gioca con la sua immagine di sirena ammaliatrice piena com’è di locali di piacere. Di postacci.

  Ma poi ecco coppie di una o due generazioni fa che camminano separate da mezzo metro di cemento, lui davanti e lei dietro, rispettando un’andatura che mantiene volutamente una distanza che non ha nulla di affettivo – perché l’amore c’è e c’è sempre stato – ma che conserva tanto, tantissimo di culturale; ed ecco gruppi di cinque, sei bimbi che si affacciano da grossi carrelli colorati, giovani maestre dell’asilo che li spingono per le strade in fila indiana e i bambini che sporgono ciglia, cappellini pigiati sulla testa e orli di uniformi tutte intinta; ed ecco cani al guinzaglio dei padroni, altri dentro a passeggini o musetti che sbucano dalla cerniera di una borsa.

  Così il quartiere muta volto d’improvviso rivelando quello che solo i tokyoti hanno sempre saputo: che non c’è stereotipo che tenga e che Tokyo non ha alcun bisogno di maschere.

DSC01918Perché per essere se stessa, le bastano tutte le facce che ha già

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Estratto da Tokyo Orizzontale, Piemme, 2014, pp. 216-217

«Quei giorni là»

  DSC01261 - コピー «Ci sono giorni sempre uguali, che si ripetono con insistenza. Giorni senza neppure un capello fuori posto, con un’espressione ebete sul viso e fraseggi fatti di rime prevedibili e scontate.

Sono la maggior parte in un’esistenza vissuta nella media, in cui l’unica certezza è che accadranno cose che ci piaceranno e altre no ma che la loro somma porterà comunque a un più o meno stabile equilibrio.

 Ci sono poi quei giorni in cui succede qualcosa di diverso. Niente di speciale in fin dei conti, ma sempre qualcosa. Una telefonata inaspettata, un incontro a lungo atteso, un piccolo tesoro ritrovato.

Sono giorni che ci lasciano appena stupiti, che per un momento ci fanno temere che niente sarà come prima.

O che magari invece ce lo fanno sperare.

Che ci illudono che il mutamento è alle porte e che possiamo finalmente sognare un’altra vita nella nostra, come un gioco di bambole matrioške in cui, spalancandoci all’ignoto, potremmo scoprire di possedere dell’altro al nostro interno.

Ma in questi giorni qua, al proprio interno, si scopre solo una miniatura di se stessi, una copia di quello che eravamo. Le cose rimangono immutate, impermeabili alle minuscole fortune o ai microscopici incidenti. Tutto come prima.

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  Poi, però, arrivano quei giorni là. Quelli che cambiano tutto. Quelli che ci insegnano che la vita segue direttive che noi, nonostante ne siamo i protagonisti, ignoriamo totalmente. Accadono raramente e ci spiegano di noi cose che non sapevamo. Sono quelli che usano maggiori cautele per non farsi scoprire e capita che le conseguenze le si gusti con ampio ritardo. Perché passano inosservati e svelano solo nella lunga distanza i loro effetti.

Altre volte, invece, lo si capisce da subito, da quando ci si sveglia la mattina – prima ancora di raccogliere il coraggio e mettere i piedi fuori dal letto – che niente tornerà al proprio posto. Capita quando muore qualcuno di mportante, quando una partenza sconvolge i nostri piani, quando un amorevero finisce o un amorenuovo inizia. Quando si brucia di passione o quando si brucia e basta.

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  E questo è proprio uno di quei giorni là. Ma nessuno ancora se ne è accorto.»

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Estratto da Tokyo Orizzontale, Piemme, 2014, pp. 169-170

「心の準備」o la preparazione al dolore

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S-chan non piange mai eppure ultimamente lo fa spesso.

È che ha deciso di fidarsi e quando si tenta di aprire il proprio cuore dopo anni di disuso, è come spaccare il guscio di una noce.

A volte si spalanca al centro, nella perfezione benedetta che suggerisce la metà, a volte invece si frantuma in tanti pezzi, da staccare con le dita e con le unghie, uno ad uno. Li si raccoglie pure a terra, perchè schizzano lontani, un panno a scivolare sulla superficie del tavolo di legno.

Il risultato, però, in fondo è sempre lo stesso. Il guscio si schiuderà, si gusterà infine il frutto. Sarà valsa comunque la pena di tentare.

S-chan guarda in basso e piange ancora. Le sue lacrime chiamano i miei palmi e, al di là della cultura del corpo che ci separa, non posso fare a meno di prenderle il volto tra le mani, lì in mezzo a una strada qualunque di Kichijoji, e dirle che andrà tutto bene, che sarà forte, ma che il dolore non lo si può anticipare, che la previsione delle cose negative non ce le risparmia veramente.

È una delle persone importanti della mia vita, un’amica di spessore. Dopo anni di storie da dimenticare sembrava aver trovato finalmente quello giusto. Ma poi da alcune settimane, lui non si fa più sentire. Un messaggio a settimana, promettendo presto una risposta che tarda ad arrivare e forse, forse, non arriverà.

 DSC09081  Immagini quello che sarà. E tenti, tornando ossessivamente al suo pensiero – come un girotondo intorno al mondo – di affrontare la paura di soffrire.

  Accade così di fronte a una cosa bella che lo sai che finirà, a un amore che senti sta scemando, a un lavoro che per contratto non si rinnoverà. A qualcuno che a breve morirà.

  Tutte cose che ti lasciano solo con la sensazione di non aver costruito nulla, d’essere vittima d’un costante punto e a capo, perennemente in balia di nausee e mal di testa lancinanti, perché di fronte a certe cose la mente – per quanto tu la possa stimolare – ti darà sempre le stesse risposte. Un ripetuto non lo so.

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 Che poi quando e se ci sarà veramente questa fine, perdita o abbandono tu invero non lo sai.

 A volte allora è inutile il dolore. Va sprecato. Fa al lupo al lupo e ti rende, per assurdo, meno preparato al dolore che davvero giungerà.

 Perché magari la storia si trasformerà, passerà una fase di dolore per poi farsi nuova vita, per mettersi un abito elegante e magari fare il grande passo. Perchè il contratto invece si rinnoverà o, a distanza di un tempo breve, uno nuovo si presenterà. Perché chi muore vive nei nostri ricordi, ci accompagna come un’eco nei giorni in cui quel qualcuno lo chiameremo a noi.

 Ci si può preparare ad alcune cose. Si può fare quella che i giapponesi chiamano 「心の準備」 /kokoro no junbi/ la preparazione del cuore, letteralmente. Per una lunga attesa,  piccoli fastidi o disservizi,  maldestri scherzi della vita.

Ma non ci si può preparare a tutto.

  Per il dolore, quello che non si scioglie facilmente, che come olio nell’acqua vien sempre in superficie, per quel tipo di passione lì c’è poco da anticipare. A nulla serve immaginare catastrofi, architettare al millimetro il futuro negativo che ci attende, lustrare l’ingresso del nostro edificio di sventure.

 DSC09054 Me lo ha detto una volta una persona dolce, al telefono, mentre sul letto mi arrotolavo in eventuali, futuri, dispiaceri.

“È solo un anticipare” mi ha detto. “Non serve ad anestetizzare il dolore. Perchè tanto cambia poco e il sapere che il dolore sarà enorme non ti aiuta a sentirlo meno forte quando arriverà”.

  E mentre ho tra le mani il volto di S-chan, con gente che ci passa a destra e sinistra a piedi e in bicicletta, ripenso a quelle parole ricevute, assaggiate, masticate, poi ingoiate, digerite e fatte infine mieLe dico allora che bisogna esercitarsi al positivo, che il cuore, per certe cose, non lo si prepara mai.

 DSC09105 Che stasera “messaggiamo” tra di noi. Che domani è invitata a cena, con me, Ryosuke e la Gigia. Che le preparo anche un piatto coreano che le piace tanto. Che poi la accompagnerò a casa in bicicletta e parleremo, parleremo fino a esaurire, per quel giorno, la dose di lacrime e disperazione di cui è capace il suo organismo. Che ci scriveremo anche quella sera, prima di dormire, che il giorno dopo ancora ci vedremo allo Starbucks e parleremo, e parleremo per tanti giorni ancora in attesa di quello che verrà.

  E se il dolore arriverà lo metteremo in bella vista innanzi a noi, guarderemo in dettaglio cosa accade ad una noce quando s’apre.

  E concluderemo che sì, per quanto si possa soffrire, vale sempre la pena  di spaccare il guscio. E, con la cautela che richiede ogni scoperta, guardarci dentro. In un continuo, inevitabile, batticuore.

 ♪ Miura Daichi, “Anchor”(三浦大知 「Anchor」)