«La solitudine del corpo a Tokyo non esiste»

Dalla bella pagina di Ho un Libro in Testa, l’intervista che mi ha fatto Francesco Musolino.

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«L’incontro, il primo incontro con Laura Imai Messina, è avvenuto alla libreria Mondadori di Messina. Dovevo presentare il suo libro ma, lo confesso, non mi aspettavo quella folla di fans – ragazze e ragazzi – che ad attenderla con abbondante anticipo sull’orario di inizio previsto. Quella presentazione è stata una delle poche cominciate, non in orario, ma persino in anticipo.

La sala, del resto, era già piena. Prima di lasciarvi alle mie domande ma soprattutto alle sue risposte vorrei introdurre la scrittrice, ovvero Laura Imai Messina, autrice del romanzo “Tokyo Orizzontale” (edito da Piemme) e creatrice, nel 2011, del blog di successo, GiapponeMonAmour. Già perché Laura oggi vive a Tokyo, nel piccolo quartiere di Kichijōji, con suo marito Ryōsuke e la cagnolina Gigia e il suo blog è ormai una quotidiana finestra sul Sol Levante, tanto sugli aspetti nobili della cultura nipponica che su quelli più semplici.

Eppure la storia d’amore fra Laura e il Giappone è iniziata – in modo controverso e senza segnali premonitori – improvvisamente a ventun’anni: «Non sapevo chi fosse Doraemon, a scuola fingevo di comprendere battute, di ridere di tormentoni che conoscevano solo i miei compagni. Ho incontrato il Giappone a ventuno anni, senza alcun vero immaginario o background culturale a sostenermi. A rapirmi è stata invece la scrittura giapponese». Un amore sbocciato anche per via di una fatale attrazione non per ciò che è diverso ma per le cose complicate «perché hanno in sé il sapore della sfida, temprano, educano alla pazienza e alla costanza che non ho, promettono vittoria».

Leggendo il suo libro scopriamo aspetti di una cultura così lontana e diversa eppure complementare alla nostra e del resto se continuiamo a guardare ad Oriente come antidoto alla nostra fretta, come terra della bellezza, un motivo deve pur esserci. “Tokyo Orizzontale” è la storia di quattro personaggi, nati in momenti e con intenzioni diverse nella mente di Laura Imai Messina, decisa a mettere in pagina la meraviglia ma anche le difficoltà implicite nell’ambientarsi in un mondo nuovo e nella sua scrittura narrativa, ancor più che in quella destinata al suo blog, si avverte il bisogno, la “pulsione fisica”, il bisogno di curarsi con essa.»

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Sara Hiroshi Jun e Carmen sono i tuoi protagonisti. Come sono nati?

È nata prima Sara, una mattina di marzo di otto anni fa, nel salone d’una casetta a Tokyo. Lo ricordo perfettamente perchè ero tornata il giorno prima da Nagoya, dove in modo straziante era stata messa la parola fine a quella che, allora, mi sembrava la relazione sentimentale più importante della mia vita. Sara è nata insieme a Carmen, figlie gemelle d’uno stesso parto doloroso. Jun invece è arrivato senza preavviso alcuni anni dopo perchè, nel frattempo, di tipi arroganti e affascinanti come lui ne avevo incontrati molti a Tokyo. Hiroshi, infine, è figlio d’un desiderio, quello della stabilità, di un amore duraturo che mi legasse d’un grado in più a questa terra.

Credo che i personaggi d’un libro prendano inevitabilmente le proprie sembianze. Emergono spontaneamente come fiori di campo, quando si è infine in grado di guardarsi allo specchio, di analizzare parti di sè rimosse o a lungo appesantite dal giudizio, di ripensare ad esperienze che sono sopravvissute nel ricordo. Così i personaggi di fantasia che covano in noi si rivelano una volta che si è compresa a fondo la loro natura reale, il vissuto (proprio) che è rifluito in loro. Allora non ti sfugge (quasi) più nulla, non hai più di che accusarli o di che vergognarti. Li accetti, ti accetti. Sei infine pronto alla scrittura. Sara, Carmen, Jun e tutti gli altri sono nati così.

Il titolo cita un blog, molto seguito e particolare a dire il vero…

Spesso sulla Rete ci si imbatte in scatti che ritraggono donne e (soprattutto) uomini giapponesi, ai lati della strada, sulla banchina di un treno o all’interno di un vagone, nelle posizioni grottesche della sbornia. Basta uscire un venerdì o un sabato sera, magari per le strade di quartieri irrequieti come Shinjuku o Shibuya, per incontrarne a decine e chiedersi, sommessamente, perchè mai ci sia bisogno di ridursi così. Ho immaginato allora la creazione di un blog (inesistente nel reale) che riunisse questi scatti, un gruppo di ragazzi che, con il cinismo tipico dei vent’anni, ne facessero un mezzo di derisione nei confronti del prossimo.

La rete ha spesso questo triste risvolto: elimina i freni inibitori del linguaggio, dà sfogo a quelle passioni che il buonsenso fa di solito tacere, fa del cinismo e della cattiveria uno strumento di piacere. Nella trattazione di questa tematica nel libro ho cercato però anche di evidenziarne un altro aspetto, quello della pietà per chi s’abbandona all’alcool, e quello del disprezzo che, prima o poi, torna come un boomerang al mittente. La vita, in questo, ha a mio parere una sua intrinseca giustizia. Magari in forme differenti, magari dopo anni, ma essa restituisce sempre il maltolto. È vendicativa. Curiosamente, proprio di recente, è nato un progetto chiamato #Nomisugi dal giapponese 飲む (bere) + 過ぎる (eccedere) = bere troppo. La finalità è quella di scoraggiare le sbornie e le scene urbane di cui sopra.

Come spesso accade la realtà supera o rincorre la fantasia. L’idea di Tokyo Orizzontale, quindi, può dirsi estremamente verosimile visto che, in qualche modo, si è nel frattempo realizzata.

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Citatissima è la frase “se New York è una mela, Tokyo è un melograno”. Cosa significa?

New York non ha spazio in questo libro. Tokyo se lo prende tutto, con il polpastrello ne porta via le briciole dal piatto, anzi il piatto se lo lecca pure. Se c’è Tokyo, non può esserci che lei. La similitudine con il frutto dell’albero di melograno nasce dalla conformazione fisica della capitale giapponese, dalla sua ampiezza e insieme dalla sua parcellizzazione in quartieri. Tokyo è macro e micro al contempo.

Nella metropoli – e nelle zone limitrofe che le gravitano intorno – abitano circa 36 milioni di persone, ha in sé una efficienza e una velocità rare, il ritmo sostenuto di un organismo che fa della stretta convivenza virtù e, soprattutto, necessità. Eppure basta allontanarsi anche di poco dalle stazioni, chiassose e iperattive, per notare un paesaggio di molto differente. S’apre allo sguardo una prospettiva di casette a due piani circondate da giardino, piccoli parchi ogni pochi isolati, fiumiciattoli, stradine percorse a piedi o in bicicletta, persino campi coltivati. Sembra quasi di essere in campagna, tanto minuto è il suo raggio d’azione. Si incontrano i medesimi volti, si chiacchiera con i gestori dei negozi del tempo che fa, con i custodi delle biciclette dei mondiali di calcio, di sciocchezze figlie d’una socialità spiccia che comunica familiarità e integrazione. Tokyo oltretutto non ha un solo centro ma ne ha molti, luoghi spesso anche distanti tra di loro.

Così un giorno, spaccando il frutto del melograno, credo di aver avuto una sorta d’epifania, nel notare come anche visivamente la struttura della città gli assomigliasse. Il sapore dolce del frutto e quello amarognolo del seme, poi hanno confermato la mia idea. Tokyo è, decisamente, un melograno ed è la protagonista indiscussa del libro. La immagino come una donna – colpa del genere che nella lingua italiana fa delle città sostantivi femminili – tanto che nel libro lei chiacchiera e sbadiglia, si pettina i capelli, le fanno il solletico e lei ride, si rabbuia e magari sussurra qualche imprecazione. Reagisce. Non è solo un contenitore di storie è lei stessa personaggio della storia. È così viva.

Hai scritto che “la solitudine del corpo non esiste a Tokyo”. Ovvero?

DSC02068Mi ha sempre colpito di Tokyo il contrasto tra l’altissima densità di popolazione che abita e/o transita nella capitale e la difficoltà, reale, di inserirsi nelle vite degli altri. Le stazioni sembrano formicai, la vita vi si agita dentro senza sosta, i treni sono scatole traboccanti umanità e la distanza tra i corpi s’annulla nella dimensione ridotta degli spazi abitativi. Così il corpo in questa città orientale non è solo, lo accompagna sempre il movimento d’altri corpi. È una danza – persino involontaria – di milioni di esseri viventi sincronizzati al secondo, per evitare di scontrarsi, di arrecare ed arrecarsi disturbo nel contatto. La solitudine del cuore, invece, ti prende quasi all’istante e a fatica ti lascia andare. Ci si sfiora ma non ci si tocca veramente.

Tutti concentrati nell’inseguire il proprio giorno, come linee parallele saettanti verso qualche punto della città, la gioia dell’incontro è lasciata a spazi e luoghi dedicati e, per accogliere una nuova presenza, ci vuole una disponbilità di tempo che spesso chi abita e lavora a Tokyo non possiede.

In Occidente c’è forse una malattia della fretta, della frenesia legata al tempo. L’attrazione per l’Oriente a tutto tondo, dalla religione sino al cibo, può essere inteso come un bisogno di bellezza, la necessità di valori positivi?

Credo che l’Occidente cerchi nell’Oriente una chiave di lettura, un rallentarsi, la meditazione che riveli l’intrinseca pace che potenzialmente possiede ogni esistenza, la mano che indugia, il passo che nel perdersi si trova. Nel Giappone della tradizione vi si cerca la saggezza, la cura minuziosa per tutto ciò che provoca piacere, il culto disciplinato della bellezza applicato ad ogni aspetto della vita. È l’Oriente riflessivo, quello che predica pazienza, tolleranza, tempo in abbondanza. È inoltre un mondo che, rispetto al nostro, tende a non giudicare o a farlo meno e con minore asprezza. La tolleranza verso il prossimo è base del vivere civile, il curarsi di sè ed ignorare quel che non piace vince sulla critica e sul desiderio di sviscerare il negativo.

Da sempre avverto una ideale compensazione tra l’Oriente giapponese e l’Occidente italiano e noto da ambo le parti un’ammirazione, un anelito all’altro che rivela quanto la differenza sia alla base dell’attrazione, quanto si vada a cercare quel che non si ha o quel che si ha in forma differente. L’italiano, ad esempio, è conscio delle sconfinate potenzialità del proprio territorio ma l’incuria che affronta quotidianamente lo rattrista, lo fa molto arrabbiare. Anche una città come Tokyo, invero lontana dall’ideale tradizionale della calma e della meditazione, ha d’altronde una attenzione maniacale nei confronti dei suoi spazi, una valorizzazione costante degli ambienti comuni, una spinta all’innalzamento della qualità di vita dei suoi abitanti.

Credo che italiani e giapponesi dovrebbero frequentarsi di più. Finirebbero, naturalmente, per migliorarsi a vicenda.

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La tua storia personale – e il grande successo del tuo blog – è al centro di un documentario prossimamente per la Rai. Perché hai scelto il Giappone?

Si tratterà invero di una miscellanea di storie che hanno al centro il mondo e la letteratura, giovani scrittori residenti in varie nazioni che racconteranno di sè e del processo che li porta alla scrittura. Due talentuosi e giovani filmmaker hanno scelto di proporre Tokyo Orizzontale e la mia storia personale (qui il video). Il Giappone non è una passione antica. Da ragazzina non leggevo manga, non conoscevo gli anime. In casa mia la televisione era bandita se non a orari definiti e per la visione di programmi accuratamente selezionati. Non sapevo chi fosse Doraemon, a scuola fingevo di comprendere battute, di ridere di tormentoni che conoscevano solo i miei compagni.

Ho incontrato il Giappone a ventuno anni, senza alcun vero immaginario o background culturale a sostenermi. A rapirmi è stata invece la scrittura giapponese: quei tre alfabeti sillabici che sembrano intrecciarsi, cadendo dall’alto in basso e da destra a sinistra, già svelavano l’estrema difficoltà della lingua. Ed io amo da sempre le cose complicate perchè hanno in sè il sapore della sfida, temprano, educano alla pazienza e alla costanza che non ho, promettono vittoria. Trasferirmi a Tokyo, apprendere la cultura quotidiana di questo paese, insistere nel viverlo nonostante le sue iniziali incomprensioni e asperità, mi ha poi definitivamente conquistata.

Essere una straniera può essere un vantaggio. Si mantiene sempre aperta una possibile via di fuga e, per questo, il proprio quotidiano in qualche modo ce lo si sceglie ogni giorno. Ed è qua che io voglio restare.

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A proposito del tuo blog, spicca una scrittura limpida, visiva, evocativa, colorata. Cosa ti ispira?

Nel blog cerco di riversare tutto il positivo accumulato in anni di Italia e di Giappone. Tento di donare a chi mi legge uno spazio di riflessione e insieme di bellezza, dove riposare il corpo, un luogo dove rubare escamotages per affrontare quei piccoli drammi quotidiani che ogni vita presenta come un conto a fine giornata.

Aver vissuto una vita per molti versi complicata mi aiuta adesso a capire cosa sia giusto offrire al prossimo e poichè la scrittura sul web, lo credo fermamente, è un donare essa non si deve discostare dalle circostanze e modalità che regolano l’offerta di un regalo: garbo, generosità, bellezza ed altruismo. Il Giappone, il suo lato più tradizionale, serba in sè una saggezza che, a mio parere, tanto serve al contemporaneo. Ogni paese ha eccellenze che, se condivise con altre nazioni, possono arricchire chi le accoglie e si lascia ispirare. Quel che faccio a lezione all’università con i ragazzi giapponesi è proporre loro un altro punto di vista, quello italiano che riesce spesso a stimolarli. Di noi è il gusto della vita, la gioia dell’incontro, lo scardinarsi delle formalità a vantaggio del contatto, la leggerezza e l’emozionalità manifesta.

Nella scrittura sul web cerco invece di fare l’inverso, ovvero di donare il meglio del Giappone e della mia vita a Tokyo, agli italiani. Un gioco di specchi che mi permette di conservare una visione tendenzialmente positiva dell’esistenza. Oltretutto questa città è una continua aggressione sensoriale. Comunicarla è gioia pura. Ed io amo profondamente la mia vita.

DSC01958Infine vorrei domandarti quale sia il tuo rapporto tout court con la scrittura narrativa.

Non passa giorno che non scriva.

Quel che da ragazzina credevo dovesse scaturire solo dall’“ispirazione”, ho scoperto che si ciba invece di costanza e di impegno. Le idee possono venirmi in qualunque momento, magari mentre sto passeggiando con la cagnolina Gigia o mentre sono in attesa dal medico. Catturo quelle idee, me le appunto sul cellulare o a margine di un libro.

Poi però la mattina esco prestissimo di casa, mi butto sui treni che mi porteranno al lavoro, scrivo nei vagoni – seduta a destra e sinistra di qualche pendolare assonnato o di qualche studente in divisa che ripassa le lezioni –, mi sposto nei caffè vicini alle università in cui insegnerò, scrivo lì e, ancora, spalanco il computer sulle ginocchia nel tragitto inverso verso casa.

Poi riprendo la sera, esco intorno alle sei o alle sette e resto in un caffè fino alle dieci. È il mio tempo, è il mio piacere, è la creazione quotidiana della mia identità. Inoltre la scrittura è per me una pulsione fisica, una liberazione. Ha un potere fortemente terapeutico: un giorno in cui ho scritto è un giorno buono, al di là di tutto quel che può essere accaduto.

E poi come scrive Emil Cioran: “Produrre è uno straordinario sollievo. E pubblicare non meno. Un libro che esce è la tua vita o una parte della tua vita che ti diventa esteriore, che non ti appartiene più, che ha cessato di opprimerti e logorarti. L’espressione ti diminuisce e impoverisce, ti solleva dal peso di te stesso; l’espressione è perdita di sostanza e liberazione. Essa ti svuota, dunque ti salva, ti priva di un sovraccarico ingombrante. […] Mi sono sopportato meglio, come ho sopportato meglio la vita. Ci si cura come si può.”

「習うより慣れよ」 o dei cinque minuti che cambiano la vita

DSC04803Ogni giorno prepara a un grande giorno.
Ogni passo a un grande viaggio.
Ogni parola alla conoscenza d’un linguaggio.

 /Narau yori, nareyo/

Come poster e cartelloni, come scritte ed insegne che scivolano di caratteri dall’alto verso il basso, come l’acqua o tutte le cose attirate irresistibilmente verso il basso, mi proietto in faccia questa frase. Mi rincorre, come si rincorre ciò che ancora non si sa bene di volere, ma che il proprio cuore sta già cercando.

 È sempre Ryosuke, ricettacolo di kanji, che mi insegna. Ci lega l’attenzione giocosa al linguaggio, tra le cui fessure si spalanca l’altro senso, quello che rimane sotto le ceneri dell’uso. E tra le nostre paste gonfie di ingredienti, una lavatrice tardiva, i dorama alla tv che registriamo e poi guardiamo e riguardiamo allungando di un gelato il finale d’episodio, passano le sere. Ma a fine giornata sbuffo spesso anche la mia insoddisfazione nel non fare abbastanza, nel non sfruttare a sufficienza il tempo che mi è dato e che ad aprile ulteriormente diminuirà.

Perchè alcuni giorni ho idea che la vita abbia memoria di farfalla. Che duri un solo giorno e poi via, verso la terra. Che quello che faccio si disperda e non possieda resistenza, persistenza.
Inizio bene, poi abbandono.
Poi riprendo, poi abbandono.

DSC05595E allora Ryosuke, il mio buddha giapponese che a vanvera parla solo per giocare, nella leggerezza tutta maschile che dispensa grandi verità, mi dice /narau yori nareyo/.

習う /narau/ è “imparare”, 慣れる /nareru/ è “abituarsi” e allora, letteralmente, “Piuttosto che imparare, abituati!”

Più che imparare è l’abituarsi, inglobare nella propria esistenza minime azioni che tifano, con manine febbricitanti e grandi pon pon, per il miglioramento.
Ripenso a distanza di mesi a questo proverbio e lo ritrovo nelle mie parole di insegnante.

Cinque minuti cambiano la vita” dico sempre ai miei studenti.

Che riuscire a costruire uno, due, tre, quattro, cinque volte sessanta secondi in un giorno è paradossalmente miracoloso, richiede una fatica inimmaginabile all’inizio.

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 È come trovare la crepa in un muro, tastare con pazienza tutta la superficie d’una parete per scovare quel punto che permette di celarvi un segreto, magari l’inizio d’una crepa d’un bastione che, in fondo al cuore, si vorrebbe abbattere da tempo.

Cinque minuti cambiano la vita.

Perchè all’inizio sono cinque ma se /narau yori nareyo/ ecco che nell’abitudine, lieviteranno, s’ingrasseranno d’altro tempo, semineranno la tenacia del contagio che, inarrestabile, saprà come farsi largo e cambiare infine tutto.

~Si prenderà in mano un libro complicato, si affronteranno solo due pagine, poi lo si chiuderà, poi saranno tre, poi dieci, poi lo si finirà. ~Si aggiungeranno solo tre righe della tesi, il paragrafo si concluderà, a finire sarà poi il capitolo, la tesi tutta. ~ Si prenderà a studiare un kanji al giorno, poi saranno due, poi tre, si imparerà a leggere la lingua giapponese. ~Si inizierà a mangiare un poco più di frutta, si eliminerà un gelato, si riuscirà passo a passo a dimagrire.

DSC05566Con questo ritmo d’onda, di remi nella laguna di Venezia, di ninna nanna sussurrata ad un adulto, questo proverbio si ripete nella testa. Ti entra nella vita.

 E quando accadrà il contrario, ovvero che dopo l’entusiasmo iniziale, il tempo si restringerà, basterà mantenere quei cinque minuti, basterà tornare ai cinque minuti dell’inizio, in attesa che la mente sia feconda e si dedichi nuovamente al mutamento, alla gioia di cambiare.
Un’altra volta e un’altra volta ancora.

 Ciò che diventa abitudine, diventa infine nostro. E più nessuno ce lo sottrarrà. Saremo i primi a proteggerlo da tutti gli altri impegni. Saremo in grado di proteggerlo persino da noi stessi.

Il cambiamento non si gioca in una volta. Il cambiamento è un’abitudine costante.

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♪ Sia, Fair Game 

Un giorno qualunque

DSC05624 Volge all’autunno la città. Tokyo riprende il suo vertiginoso ritmo, i treni rimpinzati di persone, il contatto della pelle con la pelle diviene più raro, filtrato com’è da maniche che, di giorno in giorno, s’allungano di stoffa.

 Mi sveglio alle cinque e cinquantacinque quasi ogni mattina, la Gigia che allunga il musetto fino al bordo del cuscino, Ryosuke che si alza in un sospiro assonnato e si occupa di lei. Ogni giorno ha il rituale dell’attesa: anche oggi, che cosa accadrà?

 Salgo in bicicletta e corro veloce verso la stazione. All’incrocio della scuola i volontari alzano le bandierine per aiutare i bambini ad attraversare. Gambe cortissime, enormi cartelle, la sproporzione naturale dell’infanzia.

 Svolto a sinistra, mentre ascolto in podcast Linus e Nicola, la Pina di Radio Deejay, prendo il ticket all’ingresso del parcheggio.
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 In Giappone i parcheggi delle biciclette vengono gestiti quasi sempre da pensionati, uomini con la divisa e un cappellino, che ripetono cantilenando Buongiorno! Ohayou gozaimasu!  insieme all’intraducibile Itterasshai. Il mio posto preferito è sotto a un albero di ginkgo, e lo trovo sempre libero e facile all’accesso. È la gentilezza che mi usa uno dei guardiani, con cui ormai chiacchiero da anni. Mi racconta di sè, del suo paese natale, del viaggio sulla tomba di famiglia, parliamo della Scozia, dell’economia che galoppa e poi si ferma, dell’estate che è passata, del tifone che è in arrivo.

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Non sono ancora le sette, in treno trovo posto a sedere. Spalanco il pc sulle ginocchia, scrivo il nuovo romanzo che mi riporta a Roma, che mi guida in provincia, che mi tiene il volto tra le mani. Sono coccolata da questi personaggi di cui amo la caparbietà e l’immensa debolezza.

 L’uomo alla mia sinistra legge il giornale, lo separa in lunghi bastoncini di scrittura. La ragazza alla sinistra digita qualcosa al cellulare, subito dopo si addormenterà e con lievi gomitate, di tanto in tanto, dovrò chiederle di non appassirmi sulla spalla.

 Poi ancora rialzarsi, scendere, salire scalinate, passare i cancelli, rientrare in un’altra stazione, passare i tornelli, salire le scale un po’ correndo, penetrare un altro treno, scendere ancora, salire altre scale, ritrovarmi infine nella panetteria che profuma di bontà. E mentre scrivo ancora con la musica nelle orecchie, le commesse escono dal laboratorio con vassoi di panini farciti appena usciti dal forno, annunciando a voce alta le pietanze.

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 Le università sono riprese, piccoli problemi di passaggio, il sonno appiccicoso sui volti dei ragazzi, la gaiezza dell’estate che fatica a dire addio. Alcuni sono andati in Italia, altri in Austria, Germania, Francia, Canada e Inghilterra, altri sono tornati dopo un anno di scambio, e sul volto hanno la voglia di mettersi ancora in gioco, il desiderio costante di gestire il misterioso.

 Dopo le lezioni vado a prendere un caffè con una professoressa di francese, una donna che è tutta una smorfia, un agitarsi, un ridere sguaiato, pieno della vita che, si vede, lei ama tanto. Mi racconta delle manifestazioni contro il nucleare cui continua a partecipare, del marito che andrà in pensiore a breve, del figlio che è arrivato a fatica a quarant’anni con la procreazione assistita. Io le racconto della mia tesi di dottorato, delle due nuove università in cui lavorerò da aprile, della mia famiglia, dell’Italia e della disoccupazione che amareggia la mia gente.

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 Tornando a casa vado a fare la spesa in bicicletta. Soppeso gli ingredienti tra le mani, attenta alle scadenze che, in questo paese, hanno due diverse diciture, una oltre la quale il prodotto non lo si può proprio consumare 「消費期限」, un’altra invece che garantisce la bontà 「賞味期限」 e sorpassata la quale, il sapore non sarà più al meglio, ma sarà comunque possibile mangiare. Sarà per questo che sono tanto attenta a questa parola? Scandenza dei sentimenti, scandenza delle parole …

 È una quotidianità bella, scandita da gesti soliti di cui non avverto neppure un poco la banalità. Sono innamorata follemente del mio uomo. Della mia bimba pelosina. Della mia casa piccola e “leggera”, libera dal peso innecessario delle cose.

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E mi chiedo se il segreto della gioia non sia proprio, da una parte, l’osservazione attenta e lenta del proprio giorno, il seguirSI quasi si fosse investigatori privati di se stessi, la rilassatezza che si prova a non perdersi nessun passaggio tra ciò che precede e ciò che succede, il dare se non valore almeno consapevolezza alle azioni perpetuate, alle cose e alle persone incontrate e, dall’altra l’aggiungere (conoscenza) e il sottrarre (inutilità materiale ed emotiva).

Tutto ciò che è superfluo pesa troppo, è una zavorra.
E allora continuo il danshari e da settembre ho aggiunto un’altra lingua e due sere a settimana conto eins, zwei, drei e tutti i sostantivi hanno la maiuscola nel nome.

♪ 湘南乃風「パズル」

Raggiungere la meta è poca cosa

DSC06012È un giorno di pioggia. Ed è già autunno.

 I capelli crescono di mese in mese e il sogno di bambina, di veder le punte lenire i gomiti, inizia a realizzarsi. Ma vanno spuntati, che s’aprono a ventaglio nella fine, impazienti forse d’arrivare. Si dimezzano e così acquistano leggerezza, una levità che punta non al gomito ma al cielo.

 Ai è la ragazza che mi taglia i capelli da tre anni ed ha un piccolo salone a Shimokitazawa. Ci salutiamo con un abbraccio e la manina, come i bimbi. Poi, lasciandoci con la promessa di rivederci quando l’albero di melograno del suo guardino darà frutti e prepareremo insieme il risotto rosa del suo succo, inizio a scendere le scale.

 Arrivo alla stazione e lì, lì mi si apre la scelta.
Se tornare a casa, prendere la Linea Inokashira e far ritorno a Kichijoji. Oppure… oppure passeggiare, mutare itinerario. Ed oggi nelle gambe ho una gran voglia di andare. Così, anche se riprende a piovere e l’odore si fa intenso, inebriante, chiedo ad una guardia Shibuya dov’è? A destra o a sinistra? e comincio a camminare.

 Mi ritrovo a dirmi: “Non avere fretta di arrivare” e me lo ripeto a lungo, per non obliare le parole e perdere il pensiero. “Non avere fretta di arrivare”.

  La meta, benchè io sia solita inseguirla con testardaggine, costanza, e accanimento, spesso mi addolora. È la conclusione d’una avventura, la fine d’un sentimento d’arco e freccia.

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Oggi non ho appresso la macchinetta fotografica eppure scorgo scorci che meriterebbero un polpastrello, una rotazione, un lievissimo clic come d’una palpebra che si chiude per riaprirsi un istante dopo, con ancora più voglia di vedere.
Ma anche la dimenticanza è una benedizione, quella che ferma l’ingordigia, la tensione verso la memoria che a volte supera persino la voglia e la capacità di vivere il momento. L’accumulazione di scatti, il mostrare che non sempre coincide con un autentico vedere.

   Ecco, la sfida più che ricordare è forse proprio quella di vedere.

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Guarda Laura, tieni gli occhi aperti
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 Su quest’uomo dal capo rasato, sonori geta ai piedi, il legno che rende l’asfalto della strada uno stumento musicale, un kimono scuro e un arco di kyūdō stretto in mano. Osserva la discesa precipitosa di questa stradina, il suo cadere a capofitto nel proprio ventre, un piegarsi verso l’ombelico, per poi risalire subito dopo dritta come in una posizione ginnica in cui solo il centro del corpo resta a terra e gli estremi mirano al cielo, lottano contro la gravità.

  Un negozietto di dagashi, l’anziano proprietario in pantaloni beige larghi in vita e una cannottiera bianca come la sua capigliatura, due piccini di quattro o cinque anni che porgono monetine per i dolcetti da pochi yen che hanno raccolto nel piattino.

  Le strade serpentine che affiancano i binari del treno, l’eco dello scampanellare del passaggio a livello, sciamare di liceali all’uscita dalla scuola, il loro acuto vociare esclamativo, il verde maestoso che questa città nasconde nelle pieghe, un enorme parco di cui non conoscevi neppure l’esistenza.

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E penso che se fossi una guida turistica, in questa Tokyo che m’accompagna ormai da un terzo della vita, farei scendere il mio gruppo di curiosi in una stazione di minima statura e comincerei con loro a camminare, a mostrare di questa città il lato meno conosciuto, quello che si ama e che ha sia un tempo che si ferma sia uno che procede rapido verso il suo replicarsi e farsi male.

  Tanto che a Shibuya poi, non ci arrivo neppure propriamente, mi fermo prima, faccio perdere le mie tracce a me stessa, a quella che ha sempre fretta di arrivare, di finire e nella conclusione ha il vizio capitale di valutare tutto il resto.

  Non avere fretta di arrivare. Raggiungere la meta è davvero poca cosa. E si ciba del percorso che la precede e che sempre seguirà. L’idea della felicità cambia di spessore e consistenza a mano a mano che si procede sulla via.
  Così l’inizio di un viaggio, uno riuscito – nel senso di qualcosa che ci ha tolto di dosso qualche peso e ce ne ha aggiunto qualcuno di nuovo, che ha risposto a qualche nostra domanda ma ce ne ha donate, di domande, tante altre – è un inarrestabile cambiare, non solo del proprio modo di vedere,ma anche del luogo verso cui si è diretti.

DSC05925 È il sentiero heideggeriano*, “un sentiero” che non dà alcuna garanzia a priori d’essere quello giusto, d’essere capace di condurci alla meta. Eppure “la nozione stessa di procedere verso qualcosa non soltanto precede il raggiungimento di qualunque fine ci siamo proposti, ma, in un certo senso equivale a questo fine per dignità e significato”*

  Non anticipatevi mai nulla. Non sottraetevi la verità dell’imparare, la gioia del fallire, il dolore del riuscire.
La meta, davvero, è poca cosa.

  ♪ SEKAI NO OWARI  『スターライトパレード』

習う, delle ali o dell’imparare

 Da questa camera d’albergo affacciata sul Mare di Okhotsk nell’Hokkaidō, dove un tempo vivevano solo gli Ainu e in cui in inverno la superficie si ghiaccia e a riva arrivano ernormi blocchi colmi di plancton, qui dove il pavimento è di tatami e il letto è un tutt’uno col legno scuro che profuma la stanza, qui dove fare l’amore è solo un rotolare e la pelle tocca materie inedite alla asettica pulizia della città, qui da cui si scorgono – nella stessa immensa cornice della finestra – pescherecci attraccati e monti abitati da cervi selvatici, volpi, aquile di mare ed orsi bruni, resto accucciata ad ascoltare lo stridere dei gabbiani mentre, guardando verso il cielo, ne osservo il ventre e, buttando giù nel mare gli occhi, ne scorgo il dorso.

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 Imparare ha ali d’uccello in questa lingua. Sono in origine i kanji di 「」 /u/ ali e quelli di 「」 /etsu/, che è particolare contenitore usato negli antichi rituali e il cui coperchio rimane un poco aperto, di modo che vi si scorgono dentro le preghiere al dio. Ed ecco 「習う」 narau che è imparare, apprendere, studiare.

 Sembrano ali bianche 「白」 (e nel contemporaneo ne hanno tutte le fattezze), ma celano in quel kanji a cinque tratti qualcosa che nell’antichità significava molto di più.  L’imparare ha delle ali la persistenza, il continuo movimento d’apertura e di chiusura che fa infine spiccare il volo ad un essere che, solo pochi istanti prima, sembrava invece ancoràto alla terra.

 Imparare a volare è emulare. Imparare è, per prima cosa guardare, ascoltare, assaggiare, toccare, annusare.

DSC04540 Poi apri un libro, leggi qualche pagina e, per quanto banale sia, la verità che è che ogni volta che lo chiudi sai qualcosa che prima di aprirlo non sapevi. Qualcosa che era altrui e che adesso è diventato tuo.

  Porta dipendenza l’imparare. Ha in sè una difficoltà iniziale cui segue una felicità duratura, un piacere nell’essere sè e, insieme, altro da sè.

 Si impara per riuscire un giorno a sbattere le ali. Per volare via magari da situazioni sociali e familiari, magari persino geografiche, che costringono ad un’esistenza che non si ama, che non ci si confà. Per non rassegnarsi, per non tenere rimpianti, per non arrivare al punto di non avere più il coraggio di provare e di buttarsi a capofitto nella vita..

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 Come un enorme televisore che mostra solo cose degne d’essere mostrate, mi siedo a strapiombo sulla visuale di questa stanza di Shiretoko 知床 (che in lingua Ainu significa “estremità della terra”) e guardo il mare tramontare, il cielo ondeggiare e la vita agitarsi pacifica al ritmo delle onde.

 Dorme Ryosuke, il corpo disordinato sul suo letto, il braccio a ripararsi dalla luce, il volto abbandonato al sonno. Quando si sveglierà glielo chiederò, ripetendo ripetendo ripetendo ancora domande che valgono come il riso o come il pane, come l’abitudine bella di ogni relazione che non muore.

Mi ami?

Ti amo da morire!

C’è bisogno di morire per amare?

Nella mia lingua serve, sì.

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  Lo yukata a sera poi ci stringerà i fianchi, le enormi maniche svolazzeranno sopra alle pietanze e servirà fermarle con una piccola pinzetta, ai piedi calzeremo ciabatte e fotograferemo il cibo solo per riguardarcelo tra noi e ricordarne la gioia. Che quando non la si ha tra le mani, la felicità sembra che non ci sia stata mai. La si scorda tanto facilmente.

  Imparare è forse questo. Ripetere uno stesso movimento, tentativi che non si esauriscono in una manciata di sassolini sul selciato ma s’ampliano a dismisura in un lunghissimo viale di cui la fine non si scorge mai. E imparare ad amare e a farsi amare non è diverso. È ripetere azioni, sentimenti, darsi la possibilità di sbagliare, di riprovare, di farsi perdonare. Ed è difficile ma bello.

 Tanto che, una volta iniziato a sbattere le ali, non si finirà probabilmente di farlo mai.

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♪ M83 – Wait (Kyogo Remix)