Piccolo compendio personale di maternità ed ironia

Dimagrisco in cinque giorni i cinque chili e mezzo presi in gravidanza, perdo anche di più e mi dico che davvero questo corpo bistrattato mi ha insegnato la pazienza, le proporzioni tra impegno, fatica e piacere di dare e prendere la vita.

DSC07665Il ventre che era enorme, quel pancione che capitava la gente si girasse a guardare (perchè 「ラウラさんのお腹、新幹線みたいだね」“Laura-san, è come uno shinkansen”, tutto puntato in avanti e sottile ai lati) non c’è più e, dopo sette lunghissimi mesi, torno ad inforcare la mia bici. Piccole distanze, di pura necessità, il mio corpo ritrova la felicità del movimento, il respiro la distensione che aveva smarrito.
Torno ciò che ero prima, divento ciò che non si può essere che dopo.

Guizza come un pescetto questo bimbo. Cresce che è un piacere e nel trovargli sul volto, ogni giorno, un nuovo volto, negli occhi un movimento anche solo di un niente più preciso, il serico volume delle guance e delle braccia, provo gioia.

È il Mondo Nuovo. È dove tutto è inedito, dove non esistono istruzioni per l’uso nè etichette esplicative.

DSC07655Ryosuke, a casa con me in questi mesi, si vive a fondo nostro figlio. Ed io penso che, davvero, il Giappone fa tanti passi in avanti, che merita fiducia.
Generazioni di padri assenti partoriscono figli che, diventando a loro volta genitori, si riappropriano del proprio ruolo, comprendono il valore della paternità che in nulla è inferiore alla maternità, rimettono in discussione certi schemi, si danno una chance di costruirne degli altri in cui essi non siano più a margine del foglio, meri fabbricanti di stipendi.

Quanto ho imparato del Giappone in questi mesi! Quanti aspetti inediti, nel bene come nel male, mi si sono rivelati.
Ho capito che Tokyo è imbastardita dalla fatica e non c’è condizione fisica che tenga quando si tratta di cedere posti in treno, passi nello scorrere veloce di scale mobili e ascensori. Che le biciclette sui marciapiedi corrono un po’ troppo e ad incazzarsi a volte si fa pure del bene ma che, in fondo, il più delle volte a nulla serve. È l’indifferenza uno dei cinque anelli che sorreggono l’architettura millimetrica della capitale del Giappone.

DSC07150 Ho imparato che la maternità qui è cosa sacra, che il parto –esclusi casi realmente necessari – lo si fa sempre naturale e senza epidurale. Perchè, sembrano dire, la natura sa quello che fa e ha le sue ragioni.

 Che gli ospedali sono tanto efficienti e ci si sente seguiti, rassicurati in ogni fase. Perchè non ci si limita all’aspetto puramente medico ma ti guidano e preparano ad esser madre. Di questo, soprattutto, sono grata. Della scrupolosità e dell’attenzione, del fatto che ti tengano per mano – anche se tu cerchi di liberarti dalla stretta perchè l’abitudine a camminare sola non te la scrolli di dosso tanto facilmente – e passo dopo passo, settimana dopo settimana, scopri che sai allattare, che tu e il piccino siete una squadra talentuosa e remate insieme, nella stessa giusta direzione. Cinque giorni di ricovero davvero benedetto che ti rende sempre più consapevole del mutamento che ti attende, che ti rende sicura d’essere all’altezza. Lezioni e mini corsi, perchè c’è così tanto da apprendere.

Ho imparato anche che in Giappone la gravidanza dura non nove ma dieci mesi, e che tutti hanno il proprio 「母子手帳」boshitechou, ovvero un “libretto di mamma e bambino”, su cui vengono annotate tutte le informazioni dal momento della gravidanza ai primi anni di vita del piccolo, in modo da portarsi dietro sempre tutto l’essenziale. Che attaccate alle borse delle madri non ci sono solo i maternity mark ma anche omamori per augurarsi un parto sicuro, che vi sono templi più “potenti” dove chiedere favori per il bimbo e per il parto, dove comprare amuleti da strofinarsi sulla pancia, legnetti da incastrare nel sostegno del ventre che lievita di mese in mese.

DSC07390 Che più che le tutine, ai neonati viene fatto indossare una sorta di kimono a due strati. Che la mitologia del “ciò che mangi può causare le coliche al neonato” qui non vige affatto. Che c’è un motivo per cui la parola “neonato” 赤ちゃん akachan ha il rosso (aka) dentro, tanto che tuo figlio lo riconosci subito, nella nursery, dal fatto che non è rosso come gli altri.

 Imparare tantissime parole, kanji di parti del corpo che sono tenerezza, organi di cui non percepivi l’esistenza ma che spinti verso l’alto, dove batte il cuore, si fanno pretenziosi d’attenzione. Imparare anche nuovi sentimenti, mischiare d’ironia tutto il percorso, ridendo fino alle lacrime delle disavventure dovute un poco alla natura, un poco ai misunderstanding inevitabili nel salto della lingua.

 DSC07324Come, alla lezione pre-parto, il ricorrere costante della parola jintsu che tu conosci come ジーンズ, i jeans e, mentre le ostetriche parlano, domandano e gesticolano ti chiedi perchè mai quei pantaloni siano così importanti, tanto più che tu non li indossi mai. E poi, dopo jeans di qua e jeans di là, ecco che il dubbio sonoro (esploso nell’istante in cui vien fuori nella spiegazione del ricovero persino una stanza dedicata ai jintsu!) si spalanca per dirti come l’allungamento del ji non esista ma che sia spostato invece sulla u. Ed ecco che ジーンズ jiintsu “i jeans” si tramutano magicamente e tragicamente in 陣痛 jintsuu , ovvero nelle “doglie”. Addio pantaloni, benvenuto travaglio!

 O ancora, in sala parto, dove – complice una letteratura cinematografica inconsciamente assorbita fin da ragazzina – attenderesti il classico “spinga, spinga”, magari in una traduzione letterale in gaipponese, e invece, pazza di dolore non capisci le istruzioni, e ti immagini lì a soffrire per altre due o tre ore oltre alle ventotto già trascorse nella stanza (non più dei jeans, ma delle doglie). E così, quando Sousuke viene fuori, più che commozione la sorpresa, lo stupore. “Ma che davvero?” “Ma veramente è già uscito?”

 DSC06739In giapponese esiste questo detto, 「子どもは授かりもの」/kodomo wa sazukari mono/ ovvero che un figlio è un dono, qualcosa che non porta l’impegno o la determinazione, che non ha a che fare con il merito o con le proprie doti.
È un grumo di casualità, un regalo che richiede, di lì in poi, riconoscenza per la piccola creatura che arriverà. Sono parole prestate, parole consegnate di bocca in bocca, un detto che ritrovi sulle labbra di parenti, di amici e persino di studenti.

 Insegnare all’università, con Sousuke che si agitava forte in pancia quando declamavo sostantivi ed aggettivi, mentre spiegavo l’origine della lingua italiana in giapponese, la storia di Verona, le declinazioni dei verbi in italiano, è stato complicato.

DSC07514Eppure le tenerezze e le premure degli studenti, le cartoline e i regalini per augurare a lui di nascere sano, a me di mettercela tutta, i 「頑張ってください」“ganbatte kudasai” a pioggia, i 「元気な子どもを産んでください」“genkina kodomo wo unde kudasai” a catinelle, i 「お腹を触ってもいいですか?」“posso toccarle la pancia, Sensei?” e i 「赤ちゃんが動くとき、触らせてください」“mi fa sentire quando si muove?” che demoliscono l’idea preconcetta della fisicità negata dei giapponesi, son tutte cose che mi hanno spinta a tentar di conciliare ogni cosa, a lavorare fino agli ultimi giorni, fino al giorno prima del travaglio.

 Ma ne esiste, di detto, anche un altro, molto meno poetico. Più essenziale. Relativo ai dolori delle doglie e che mi è tornato in mente mentre io urlavo come una posseduta e le giapponesi, nelle salette accanto, non si sentivano fiatare.
「出産の痛みは鼻からスイカを出すようなもの」ovvero che partorire è come tirar fuori una anguria da una narice.
E, nell’immagine che oltre che efficace è molto spiritosa, m’abbandono nuovamente all’ironia che, quando la gioia si mischia alla stanchezza e alla sensazione di non possedere più il tempo necessario per portare a termine ogni cosa, è ciò che in assoluto è più importante.

Non prendersi sul serio
e ridere, ridere di gusto di tutte le idiozie di cui è piena ogni giornata.

DSC06903 - コピー

Un daruma nella pancia

 E quando nascerà, quando sarò sicura che ha ogni cosa che gli spetta, allora lo dirò.
Allora racconterò, senza entrare inizialmente troppo nei dettagli, del daruma che dal primo ottobre ho nella pancia.
DSC07669 - コピー Perchè è così che quel giorno d’inizio autunno, in una piccola clinica sospesa in un angolo di Tokyo, la dottoressa l’ha chiamato. Lo ha fatto spiegandomi la macchiolina bianca sullo schermo e nel mio ventre e facendomi notare che, davvero, l’embrioncino aveva quella forma lì:

Imai Messina-san, adesso ha un piccolo daruma nella pancia

 Quando rotolerà fuori dalla mia corazza, quando mi renderà madre, solo allora lo scriverò.
E poi, quando mi sentirò più forte, quando avrò il tempo per spiegare come tutto ciò è avvenuto, quanta sofferenza ha preceduto questa gioia, sarò in grado di aiutare quelle donne che attraversano la maternità prima ancora di raggiungerla, in una ricerca lunga, estenuante che mostra quanto poco di ovvio e naturale ci sia nell’esistenza, quanto la mancanza di ragioni non salvi dalla frustrazione. Semmai la aumenti.

  Ma quel giorno sarà solo la gioia.
DSC07486

 Sarà solo Ryosuke, la mia Gigia e sarà lui, che tanto ho atteso, cui abbiamo dato innumerevoli nomi prima ancora di vederlo. Quasi ci aiutasse a crederci di più.

 Sarà Claudio e sarà Sousuke, un nome romano per ricordare la mezzaluna della madre e uno giapponese per fermare quella del padre.
Ci sarà dentro il kanji di Mamoru – di quel nonno così colto che Ryosuke ha tanto amato e a cui al funerale, davanti alla sua figura circondata di fiori, libri e dolci, ho fatto una promessa – e quel suono finale, quel “ske” che raggruppa, come steli di fiore in una mano, il gambo del nonno Yousuke, del padre Ryosuke e del figlio Sousuke.

Uniti nel suono, nella melodia del nome.

DSC06870 - コピー

  Avrà il doppio cognome mio e di Ryosuke – perchè il tribunale ci ha detto sì ed ora siamo veramente Imai Messina – e si porterà tutte queste lettere e tratti nelle tasche.

È il nome.
È il primo dono.

Sousuke

 La conchiglia che le lumache portano arrotolata sulla schiena e le donne sulla pancia, si chiuderà in me nel momento più opportuno. Fugherà i dubbi che ho avuto forti in tanti giorni di questi lunghi dieci mesi, tutta concentrata a nascondere, celare, proteggere dalla curiosità altrui, dal timore stesso della gioia che, capisco ora, fa tanto più paura del dolore.

 Perchè una volta che la si è avuta tra le dita, è devastante lasciarla andare via. Non c’è via di ritorno. Non si è più disposti a separarsi dalla felicità. Si vuole che rimanga e se anche solo accenna a sparire, se afferma invero di non esserci mai stata, al suo posto arriva un tormento senza soluzioni.

 Ma quel giorno voglio credere che incontrarlo mi libererà da tutto ciò che lo ha preceduto, da quel gomitolo di anni che ho condiviso con pochissime persone, così poche che sciacquavano nel palmo di una mano, come barchette in mare aperto.
Che vivrò l’incontro con mio figlio certa che tutto quello che ha portato a lui, e a nessun altro, è stato prezioso, una di quelle prove che la vita risparmia ad alcuni e ad altri no, ma che sa rendere migliore chi non si fa incattivire dal dolore, chi nel non riuscire non s’abbandona al vittimismo nè alla rassegnazione ma insiste, cerca strade e, quando una strada non c’è, si mette pazientemente ad aspettare che essa si apra e manifesti.

Perchè per raggiungere la gioia non esiste mai una strada sola.

  ♪ Louane, Maman

「一日一生」 Un giorno, una vita

Come scorrono veloci certi mesi.

Sono stanca, sono così stanca che più che rallentare viene voglia di fermarmi. Di buttare giù saracinesche, di tirare le tende e annunciare a tutti una vacanza anticipata, lungamente attesa e di molto, oltre il termine deciso, prolungata.

DSC07594Ingrasso un po’, in modo quasi ridicolo. Un terzo di quanto accadrebbe se non fossi scortata dal timore di non riuscire poi a lavorare con la stessa solerzia, con la stessa levità. Mi sveglio alle cinque, rincorro i treni in partenza, non salgo quasi più le scale ma scelgo scale mobili e ascensori. Perchè l’ottimizzazione è alleata del tempo, migliore amica di progetti che si gonfiano di settimana in settimana e hanno scadenze belle ma così tanto impegnative.

Tutto arriverà, tutto a te arriverà, mi sussurro quando mi aggredisce la paura di non riuscire. Di perdermi per strada le cose più importanti.

DSC06717 - コピー

Sottovalutarsi è un crimine.

Sopravvalutarsi è un delitto.

In uno ci si impongono limiti a priori, nell’altro ci si costringe a tempi e modi accelerati. In entrambi i casi la misura è difettosa. E la vita è fatta di misure, di volumi e di lunghezze, e fare in modo da aderire a ciò ci circonda, di far combaciare se stessi a ciò che sono gli spazi nella nostra vita, fermare il calco del corpo nel letto, è essenziale per star bene.

一日一生」/ichinichi isshō/  “Un giorno, un vita”.

Ogni giorno è una vita che s’inaugura, mette in movimento attese e aspettative, poi sfugge lievitando di parole, di rimandi al giorno dopo, alla vita che inizierà domani, a un altro giorno. Un’altra vita.

DSC07588Ultimamente rimando, invio benessere ed impegni al giorno dopo, a un giorno che non è oggi. Perchè la stanchezza s’accumula come polvere sui libri, su tutte queste creature alate che tengono compagnia ai pochi altri oggetti che abitano la casa di Ryosuke e mia.

Ma ci si riesce poi davvero a capirlo quanto il tempo non solo possa ma debba esser dilatato per evitare di arrivare alla fine di una vita e avvertire in quello che si è fatto e sentito il tempo unico d’un giorno, delle ventiquattro ore che il sonno rosicchia, l’insofferenza guasta, che proprio l’inquietudine e la paura che quel tempo non basti sciupano?

Un sistema forse è sezionarlo, farne non un pranzo luculliano ma dividerlo in mezze porzioni, serbarne alcune da chiudere in un contenitore e conservare in frigo. Rendersi consapevoli di un’ora che passa, del piacere che si ricava dal varcare una porta, dall’annunciare il ritorno a casa ai propri affetti, dall’affettare una zucchina e sedersi a tavola per gustare una cena in solitudine oppure in compagnia.

DSC07330Ogni giorno la fatica, ogni giorno la bellezza della vita.
Al di là di quel che si è riusciti a fare, di quel che si doveva fare, di quel che si sarebbe voluto fare.

Un imperativo per sè, per non dimenticarsi. Per non perdersi nel vortice del devo e del dovrei.

♪ Louane, Jour 1

桜 o del momento in cui si sboccia

Gli stranieri camminano, alzano gli occhi al cielo, rapiti dal bianco cangiante dei grappoli di fiori, dai rami che formano un tetto sopra alle loro teste.
I giapponesi restano seduti, incuranti della folla, del fragore di risate, dei flash.

Forse è perchè chi vive a Tokyo mette in conto la carne, il quantitativo di gente che si troverà ad ogni evento, così come si mettono il pollo e le patate nella lista della spesa del sabato mattina. Con la stessa rassegnata ovvietà per cui si sa che ovunque si andrà ci sarà da aspettare, da mettersi in fila, da attendere pazientemente il proprio turno.

DSC06844 - コピー (2)La comodità perde d’un tratto posizioni nella gerarchia del giapponese che, in questi dieci giorni di grazia – in cui i ciliegi fioriscono e un numero impressionante di eventi a tema prende piede –  è disposto a patire prima pur di godere pienamente poi.

Il sacrificio è fatto di una promessa di piacere. Accade nelle file al ristorante, succede con gli hanami.

Ci si sveglia prima dell’alba, si sale sul treno che inaugura le corse del giorno, oppure non si ritorna proprio a casa dopo il lavoro e si dorme in un sacco a pelo pur di prendere il posto migliore sotto ad un sakura maestoso; si sta seduti sui teloni a mangiare, bere e chiacchierare, incuranti delle temperature che non sempre suggerirebbero uno stare fermi all’aria aperta.

DSC06847 - コピーMa vale il sacrificio, il premio è la vista di quelle meraviglie, ed è gratuita. Vale ogni tolleranza perchè la perfezione è già nella bellezza, nel miracolo della fioritura e sembra non si debba chiedere più di così.

Ognuno consuma la gioia a modo suo, facendo hanami soli, sul bordo di un laghetto, prima di andare al lavoro, consumando una frugale colazione. Scartando involti di riso, bento già preparati, sfilando con lentezza le bacchette dalla scatola per dirigerle sul cibo, ci si prepara a una giornata faticosa.

Tokyo ne è piena. Di vite instabili, che si reggono in piedi appoggiandosi a quei minuti momenti di piacere. Che fanno equilibrismo tra il volere e il dovere e che si risolvono del tutto solo nel privato, in quegli istanti in cui ci si trova faccia a faccia con la natura e con la sua meraviglia.

DSC07031Hanami dei picnic sotto al tetto di ciliegi. Hanami nella sera, in cui la luce svanisce nella sera che si fa spazio nella parola yozakura 夜桜. Hanami all’alba, di ritorno dalla stazione per accompagnare mia mamma al Narita Express, mano per mano con Ryosuke. Nella lentezza del sonno condiviso, della nostra vita che è ancora una volta ad una grande e lunghissima svolta che ci porterà chissà dove. E mentre passeggiamo ci diciamo che questo è un anno che non accenna un minuto a lasciarci indifferenti.

Ma ciò che ogni anno mi trovo a pensare, oltre all’eccitazione per un evento tanto determinato nel tempo, nella scadenza bella delle cose, è come i sakura siano simbolo del tempismo, di quel momento esatto in cui una vita dà il suo meglio, in cui ci si svela e ci si lascia infine ammirare.

DSC07301Perchè in altri periodi dell’anno nessuno lo sospetta che quello sia un ciliegio e che, in una oscillante settimana a cavallo tra la fine di marzo e l’inizio di aprile, lascerà tutti a bocca aperta. Magari si legge la targhetta appesa al tronco, ma se non ci si interessa di botanica è difficile che si faccia caso ad un ciliegio in altre stagioni.

È un po’ come con le persone, quelle da cui non ci si aspetta nulla, quelle meno appariscenti. Quelle su cui lo sguardo non si ferma ma passa sempre oltre, perchè non sono così belle, nè particolarmente brillanti, perchè non parlano abbastanza, perchè non vestono o non si comportano in modo da risultare eccezionalmente interessanti.

DSC07279Ma anche per loro accade, anche per loro arriva prima o poi quel momento di assoluta perfezione in cui non useranno energie per nient’altro che sbocciare, in cui fioriranno con tale concentrazione e abbondanza da non lasciar spazio neppure alle foglie.

Le foglie arriveranno, verdi, ma solo dopo che i petali inizieranno la loro caduta verso terra.

Chi lo sa, che quelle creature invero sono ciliegi, le apprezzerà in ogni stagione, perdonerà loro la contingente opacità, la apparente banalità, ne amerà le tonalità del verde e del marrone, il corpo massiccio del suo tronco, gli snodi appassionati dei suoi rami.

Chi invece ne ignora la vera identità, al giungere di marzo/aprile ne rimarrà sorpreso.

Guardo me stessa, le persone attorno a me, le classi fitte fitte di studenti che anche quest’anno imparo a conoscere con la gioia e la fatica che caratterizzano ogni incontro importante. Ci sarà giugno, poi luglio e infine agosto, e farò un altro incontro importante, fondamentale, cui ne seguirà un altro ancora e un altro dopo, perchè ogni persona a questo mondo è destinata a portarsene inconsciamente dietro delle altre.

C’è un altro nipotino che arriverà tra giugno e luglio, ci sarà il figlio della mia amica Ai, ci sarà settembre e nuovi incontri ancora.

E guardando i ciliegi, la gioia che sono in grado di portare ogni anno ai giapponesi, mi dico che voglio riuscire a non giudicare mai le persone dall’apparenza, dal momento preciso in cui le incontro, ad immaginare in ogni individuo un sakura che sboccia, una creatura che anche se non riuscirà a dare subito il meglio di sè, se gliene sarà data l’occasione, avrà modo di mostrare tutta la sua incredibile bellezza.

DSC07199

♪  Moriyama Naotaro, “Sakura”

すっきり o del liberarsi dal superfluo

DSC01037 - コピー Tagliare è, nell’immaginario, sempre doloroso. Eppure, quando il tempo è maturo, basta la pressione lieve di un polpastrello per far staccare dal ramo una foglia. Alleggerire una capigliatura o limare un’unghia, poi doloroso non lo sono mai.

Fa male tirare ciò che è ancora unito; tagliare o staccare quello che, nella sostanza, è già separato, invece no.

Alcuni rapporti d’amicizia si logorano negli anni ed è curioso come ci si trovi d’un tratto prosciugati nel sentire. Non si odia, non si prova alcun rancore. Una o due volte, quando la fiducia nel cambiamento ancora c’è, si prova a spiegare, si discute il necessario. Ma alla fine, superata ogni invisibile fase del distacco, ci si libera dalla passione negativa della rabbia e persino dalla tristezza.

Cambiano le vite e anche tra amici può accadere di non esser più soddisfatti da una relazione.

A me, almeno, capita così: o (casi assai rari e preziosissimi) il rapporto si approfondisce – e allora aumenta l’intensità e, insieme, anche le prove – oppure si resta su quel livello più o meno superficiale (ma non per questo negativo) che garantisce giusta leggerezza, mancanza di aspettive e, quindi, continuità potenzialmente all’infinito.

Una volta imboccata però la prima strada è impossibile, se qualcosa di sostanziale non funziona, tornare indietro e incanalare il rapporto nella seconda via. Ciò che è stato profondo non ammette più superficialità.

DSC06630Di solito aspetto anni prima di chiudere un rapporto, mi accerto davvero che la qualità sia poca cosa e il negativo non sia passeggero ma costante. Poi però, con una decisione che ogni volta mi stupisce, d’un tratto mi accorgo degli anni, metto in fila cifre e l’operazione di addizione di ciò che mi ha ferito, che ho trovato deludente, si fa così lunga, dà un risultato tanto netto che non è proprio possibile esitare.

Lì, non scatta più il dispiacere, lì non c’è nient’altro che … 「すっきり」 sukkiri.

Perchè sukkiri è guadagnare leggerezza, alleggerire la zavorra, fabbricare spazio per  altri rapporti, per chiacchiere e discorsi. È la sensazione di liberarsi dagli orpelli, dall’inutile che prima appesantiva.

È il sentimento che, in questi casi, interviene a dirmi che sì, ho fatto la cosa giusta. Che non c’è più spazio nè per il dispiacere nè per la rabbia. Che non serve esitazione o senso di colpa. Che, davvero: SUKKIRI!

DSC01765È  和語 /wago/ una espressione tipicamente giapponese, l’onomatopea che racconta le sfumature, che copre le minuscole fessure tra le parole-fondamenta della lingua.

Conoscendo l’amore passionale che io provo per le lingue, in particolare quella italiana e giapponese, il senso di giustizia in esse contenuto, la libertà che a mio parere dà il riuscire ad esprimersi al meglio, al non banalizzarsi a causa di un linguaggio che invece di espandere restringe, il papà di Ryosuke mi ha regalato anni fa un magnifico vocabolario giapponese del sentire 「日本語 語感の辞典」 Nihongo Gokan no jiten.

Così, quando quello solito non basta, le dita vanno sicure nella giusta direzione, verso il terzo scaffale dal basso, al lato sinistro della nostra libreria dove è custodito questo meraviglioso elargitore di domande e di risposte.

すっきり  意識や気分をさえぎるものが消えて明るく爽やかになる意で、会話や軽い文章に使われる和語・・・無駄な飾りのない意にも使われる。」

Si tagliano capelli, le doppie punte e … スッキリ SUKKIRI!

Si ordina la stanza e スッキリ SUKKIRI!

Si va al bagno e スッキリ SUKKIRI!

Si fa una bella dormita dopo una serata stanca o impegnativa e ci si sveglia スッキリ SUKKIRI!

Si prende una importante decisione e allora スッキリ SUKKIRI!

Si riesce infine a dire quel che si voleva dire, esattamente nel modo in cui lo si voleva dire e… スッキリ SUKKIRI!

 DSC03178

Io, tendenzialmente, quando si è arrivati non alla frutta ma proprio all’ammazzacaffè  – che è poi la fase che aspetto quando si tratta di rapporti che sono stati importanti –  non dico nemmeno. Scompaio.

Perchè le parole dentro hanno un potere che ribolle, cercano nel comunicarsi una concretezza che rischia di rivangare, elencare e rinfacciare.

Quando ogni cosa è terminata, invece, è solo SUKKIRI! E davvero non c’è più nulla da dire. Non all’altro per lo meno.

A se stessi, invece, con la gioia d’essersi liberati dal superfluo – senza aver oltretutto accusato l’altro di cose di cui o non sarà mai cosciente o di mancanze cui non sarebbe stato in grado di far fronte –, solo e solamente SUKKIRI!

 ♪ きゃりーぱみゅぱみゅ – もんだいガール, /Kyary pamyu pamyu – Mondai Girl/ (“Una ragazza problematica”)