Di gennaio o del valore di insegnare

DSC09640 Gennaio è il primo mese. E l’ultimo in molte università.

 L’anno lo si coniuga a seconda del tracciato che si segue e così, per me, questo mese in cui le temperature si irrigidiscono, in cui la Cerimonia della Maggiore Età veste di sgargianti kimono le ventenni giapponesi e ogni cosa è la prima cosa (初詣、初・・・ in un gioco di inizio anno che elenca tutte le azioni che si compiono per  la prima volta), è la conclusione di un anno di lavoro che si inaugura in aprile con lo sbocciare dei ciliegi e sfocia nel termometro che segna – 1°C e, talvolta, nella neve.

 Ed ogni volta che qualcosa si conclude, rifletto sul valore di ciò che sto facendo. Mi accerto della fortuna che ho nel non provare vera fatica nel lavoro. Penso ai ragazzi. Penso al significato di insegnare.

 Prima degli esami, due a due, incontro gli studenti ed è occasione di parola, luogo seppur stretto e un poco angusto in cui raccontarsi. Scopro che c’è chi disegna manga, partecipa il martedì e il venerdì al club di fumetti dell’università, eppure vorrebbe diventare curatrice di musei. Chi mi mostra uno scatto che la ritrae in kimono per la festa dei vent’anni, accanto il volto fiero di suo padre e di sua madre. Chi gioca a football americano e spera di farne una carriera. Chi vuole diventare insegnante di scuola elementare. Chi sogna di fare il giro del mondo e di fermarsi in Italia. Che del nostro paese vede in primo piano il meglio che, della sua bellezza, sa inglobare e mitigare ogni asprezza.

DSC09661Esiste un termine orrendo, spesso sfruttato da chi parla di Giappone, ovvero “giappominchia” o, con diversa trascrizione, “jappominkia”. Al di là della superficialità d’un approccio alla cultura giapponese – che di per sè già non costituisce alcun reato – non vi è, mi sembra, altro disturbo se non quello di trovarsi di fronte ad un amore incondizionato per aspetti d’una cultura conosciuta in modo indubbiamente parziale e superficiale. Caratteristiche ideali che poi hanno naturalmente contagiato la visione tutta di quel luogo.

 Eppure, a meno che non si metta in moto quel fastidioso meccanismo secondo cui per amare qualcosa sia necessario disprezzarne un’altra (vedi il penoso e sterile confronto tra l’Italia e il Giappone, tra la realtà a sè più prossima e quella invece impalpabile e lontana), non trovo nell’amore frivolo un crimine. Semmai una debolezza o una limitazione.

DSC09619L’autodenigrazione, adorato vizio di noi italiani, e la denigrazione, altra faccia della medesima medaglia, le trovo invece decisamente deprecabili.

Chi vuole informarsi troverà sempre strada tra le pagine di un libro. Chi non vuole, resterà invece esattamente dove è, con desiderio nullo di spostarsi. Scelte, a mio parere. Non condivisibili per forza, ma scelte.

 Noto però frequentemente, e con stupore, una rabbia smisurata da parte di chi avverte nella propria conoscenza della materia (in questo caso quella giapponese) una superiorità tale da poter e dover giudicare chi ne ha anche solo poca meno. Che fa dell’aver appreso, un’arma da sfruttare in modo improprio. Eppure mi chiedo: è un argomento esauribile il Giappone? Quanto di personale c’è in ogni punto di vista su questo paese?

DSC09649E mi viene da pensare come insegnare, se si decide di farlo veramente, deve contenere in chi s’erge a maestro, l’eventualità di non essere ascoltato. Insegnare non è un’imposizione ma si nutre della scelta di chi impara.

 E se non si è disposti ad essere gentili, a relazionarsi con garbo e a smentire o confutare con delicatezza, ci si deve esimere dal dire. Che non è insegnare quello, ma schiacciare per imporre la (spesso poca) conoscenza che si ha.

Insegnare è un’altra cosa. E se lo si vuole fare, ci si deve ricordare di quanto si è faticato, di quanta gioia serva ad imparare.

Credo d’averlo appreso nella pratica, nella frequentazione quotidiana con l’ambiente universitario, sia in veste di docente che in quello di studente. In bilico tra i due ruoli, mi sono trovata ad imparare maggiormente da chi non usava violenza nel linguaggio, ad esercitare il potere della propria posizione. L’autorità intellettuale sfrutta toni pacati, è forte del proprio sapere. Non sente la necessità di gridare od insultare.

Insegnare ad imparare è la prima cosa, prima ancora del ripieno, dell’involto che ci si prepara a consegnare. È la sfoglia, la consistenza della pasta.

Imparare non è mai facile. É creare spazi in una mente già affollata da altre cose, da una vita quotidiana spesso assillata da urgenze e preoccupazioni. Serve gioia, serve gentilezza. Non bisogna mai causare umiliazione nè senso di inferiorità. Perchè lì si rischia di procurare una ferita e raramente si torna a toccare una zona offesa, dolorante.

DSC09655

In giapponese si dice 「褒めて伸ばす」 /homete nobasu/ ovvero “far crescere lodando”. Non è quindi sgridando o punendo che si riesce a far sviluppare le capacità e l’intelletto di qualcuno, bensì evidenziandone i meriti e le abilità.

Ed è così, con questo amore ed apprezzamento  per chi si ha davanti, virtualmente o in carne ed ossa, che si dovrebbe donare quello che si sa.

Della caccia alle foglie e del ritorno degli dei

  Ecco che a Tokyo cala infine il freddo, come una presenza che scende a valle dalle montagne e modifica il paesaggio. Scenari di maniche lunghe e di cappotti, fiorire di sciarpe strette al collo e agitate nei suoi estremi come lingue al vento, brulicare di guanti che a breve inizieranno a cadere per le strade come semi, dimenticanze di chi va troppo di fretta e lascia dietro il calco delle proprie mani.
DSC09516In bicicletta i bimbi s’avvolgono in più strati e i volti, piano piano, si faranno semplici fessure nel pieno della stoffa. Sui volti in treno le mascherine coprono le bocche, vi si nascondono dietro liceali, giovani donne che non hanno avuto tempo di truccarsi.

  Precipita il freddo e cala come un pennello su tutte le città. Le foglie dei momiji, che tanto assomigliano a manine affilate di neonato, s’arrossano di colpo. Ma quanto è bello l’autunno giapponese!

 Cricchiano le foglie sotto ai piedi e la tentazione di saltarvi su, come nell’infanzia, per farle “suonare” si fa protagonista.
DSC09555Novembre in Giappone è il mese dei bimbi che crescono, dei tre, dei cinque e dei sette anni. Shichi-go-san e altre chiazze di colore per le strade. Sono i kimono sgargianti nei santuari, lo sguardo che, per vedere, ha bisogno di abbassarsi. La bellezza sboccia dalla terra, che siano arbusti o piedi di bambino, nulla cambia.

Nel Periodo Nara ed Heian le famiglie dell’aristocrazia, come per i ciliegi in primavera, si riunivano sotto il tramonto giallo, rosso e arancio dell’autunno, banchettavano e, al ritmo di 5 o 7 sillabe, scrivevano componimenti waka 「和歌」.

 Dal Periodo Edo tutti già andavano a “caccia” di momiji. Perchè come per la celebrata e rosea primavera c’è lo hanami 「花見」, così per l’autunno c’è il momiji kari 「もみじ狩り」 che è letteralmente il “cacciare”, l’ammirare le foglie rosse dell’autunno.

DSC06277 - コピーFoglie in dono, se ne fanno segnalibri, le si frigge nella farina e se ne fa tempura di colore rosso vivo, le si infila tra pagine di libri destinandole all’attesa e alla gioia di sorprendere, d’un rosso già più adulto, chi aprirà per caso un giorno quelle pagine.

C’è il kouyou 「紅葉」 che sembra uno ma nel kanji sono due. Kouyou 「葉」quando è rosso cremisi (e il pigmento che tramuta il verde è l’anthocyan), kouyou 葉」 quando il colore che domina è il giallo (e il salto è favorito dal carotenoid).

 Quando si ama qualcuno lo si accetta, e nell’accettarlo lo si approfondisce, si notano efelidi nascoste tra le imperfezioni della pelle, quel modo particolare di arricciare il labbro superiore, il tono animato della voce quando sta per salire vento di burrasca.

Accade anche con la conoscenza delle cose, lo scandagliare delle passioni. Così, in tutto questo fogliame che si sparge generoso prima in cielo e poi in terra, basta un po’ di interesse per distinguere nel rosso forme e sfumature differenti, separare lo Iroha-momiji dal Yama-momiji e dal Oo-momiji, il Nanakamado, Hazenoki dal Shitaurushi; nel giallo l’Ichou (che è anche simbolo di Tokyo) dalle foglie di Mizuki, di Mansaku e Tochinoki (vedi illustrazione).

無題

Ma novembre è anche il mese che vede il ritorno a casa degli dei. Perchè secondo l’antico calendario in Giappone a ottobre tutte le deità si recano a Shimane al Santuario di Izumo-taisha, una immensa riunione annuale che li vede insieme, in un confronto che anche gli uomini dovrebbero sempre rinnovare. È il  kami-okuri 「神おくり」.  E il primo di novembre tornano a casa, nel santuario dove sono amati e celebrati tutto l’anno. È il kami-mukae 「神むかえ」.

E allora si preparono mochi, un tipo particolare di riso. Ma soprattutto si dice, benvenuti.

Bentornati a casa!

お帰りなさい /okaerinasai/

♪ Enya, Echoes in Rain

Sii paziente, sii gentile!

Ti svegli la mattina e, nei giorni in cui lavori, sai che ogni minuto ti porterà di un poco avanti nella fila. Veloce, nello scatto che dal letto ti accompagna al tavolo dove detergere, spalmare, allungare, passare, spolverare: tutte azioni del truccare. Rapida poi nel lavare, tagliare, sbucciare, versare, mischiare: tutte azioni del mangiare.
E, nella fretta cui ti obbliga l’ultimo momento, tutte questi verbi si mescolano come carte. Un mazzo irregolare di “spalmi il fard”, “sbucci una pera”, di “intanto passi la matita sotto l’occhio”, “tagli il kaki e versi i cereali”, di “sviti il tubetto del rimmel e te lo passi tra le ciglia”.

DSC08361Solo allora, per ottimizzare i tempi dell’attesa, tra le braccia accogli lui, la sua fame, i sorrisi del mattino, le chiacchiere vocaliche con cui inaugura ogni giorno.

Infine c’è il vestirsi, il sistemare, salutare, baciare, raccomandare e di nuovo baciare, abbracciare e poi infilarsi le scarpe e correre giù a prendere la bici. La borsa nel cestino e via per le stradine assonnate che conducono verso la stazione. Poca gente in strada ma quella che c’è va tutta di fretta.

Poi lasciare la bici al parcheggio e, salutato uno dei responsabili, divenuto ormai un interlocutore del tuo giorno (“Presto oggi!” “No, no, sono in ritardo. Avevo sonno!” “Ah sì? Buona giornata e fai attenzione!” “Buona giornata, a più tardi!”), gettarsi nella stazione.

E lì, in quel calderone di corpi che è l’umanità della mattina di Tokyo, ti ripeti ogni volta che ci vuole pazienza. Anche quella che non hai.

DSC08476Sembra di nuotare per quanta gente si riversa sulle banchine, in attesa di salire sui convogli. È faticoso persino stare a galla. Perchè nell’ansia dell’ultimo momento c’è chi, in un colpo di pinna, supera qualche tassello dell’invisibile fila che si forma dietro ad ogni cosa che conti: le porte automatiche, le entrate della metro, le scale che portano in superficie, le scale mobili, i sensori della suika.

Chiunque sta combattendo una battaglia personale. Sii gentile.

DSC08309Leggo di sfuggita questa frase che, passando di orecchio in bocca e di bocca in orecchio, come nel gioco del telefono, viene riformulata ed attribuita a sempre diversi autori. Ma che importa chi l’ha detta, è così vera...

Quando trovo bagagli ingombranti sulle ginocchia del passeggero accanto, quando il mio gomito intento nella scrittura incontra l’impaccio, quando mi innervosisco e ci vorrebbe poco a sprecare in fastidio i venti minuti che ho a disposizione, quando nel perimetro della stazione il mio passo viene bloccato più e più volte perchè c’è chi, di corsa, mi taglia la strada, quando sto per sedermi e qualcuno, in un balzo, si accomoda prima di me, quando potrei dare uno strattone a chi me lo dà, quando sto per maledire chi sale sul treno prima che sia scesa, lì, consapevole che la rabbia è e sempre sarà solo cosa mia, mi ripeto (a volte riuscendo a volte no) “sii gentile, sii paziente. Ognuno sta combattendo la sua battaglia personale”.

Perchè siamo tutti idealmente in diritto d’essere scortesi. Perchè ognuno si trascina dietro un fardello di dispiaceri, delusioni e scontentezze. Ma da qualche parte la catena va spezzata. E qualcuno deve cominciare.

Mi è accaduto a lungo, quando il figlio che volevo non veniva, quando mi vedevo rifiutata di mese in mese in questo desiderio e intorno a me sbocciavano pance come margherite, quando i risultati negavano l’attesa e la dottoressa mi raccontava numeri dietro cui non riuscivo in alcun modo ad immaginare un volto di bambino, quando anche il corpo risentiva d’ogni sforzo e d’ogni cura, mai come lì, nel nascondere il dolore, nel nascondermi il dolore, ho provato riconoscenza per chi, senza nulla sapere, mi ha mostrato gentilezza.

“Sii gentile, sii paziente”

DSC08426A volte mi dico che basterebbe un solo giorno in cui tutti decidano, quasi per caso, d’essere gentili. Come una città che una notte s’organizzi per spegnere tutte le luci, anche solo per un’ora, e conoscere così il buio, quello vero. Ci saranno forse stelle, forse lucciole in estate, riflessi lunari che, un occhio abituato alle luci dei lampioni e dei fanali, di solito non coglie.

“Sii paziente, sii gentile! Ed immagina” mi dico, “la battaglia personale che ognuna di queste persone sta forse combattendo”.

Non sempre, ma a volte funziona...

♪ Madeline Juno, Error

「親」o del salire in cima all’albero e guardare

DSC08956S’appisola la mattina, sonnecchia il pomeriggio, sogna nella sera, affonda nel buio la notte.

È un lungo serpentone di fisicità questo bambino. Si sveglia nel sorriso, saluta il giorno parlottando, coniuga alla danza la mattina, agitando febbrilmente tutto il corpo. Ascolta la musica con il suo papà, si fa prendere in braccio studiando gli spazi della casa. Lunghe goduriose pause del mangiare, poi di nuovo solo noi sul lettone.

Mi sdraio accanto a lui e leggiamo libri illustrati puntati in aria, verso il soffitto, dove si stagliano pagine di cui guarda attento, contro ed oltre ogni aspettativa, le figure, legandosi forse ai colori, forse alla voce della madre che recita nella lingua in cui è nata. Circondato da discorsi in italiano, in giapponese, in italianese e giapponiano, s’accuccia nel suo ruolo certo di bambino, autentico, sincero in ogni gesto che fa, naturalmente.

Ha lunghissime ciglia questo bimbo, labbra disegnate, occhi luminosi, in cui oriente ed occidente si tengono per mano, e guance piene, pienissime in cui affondare i polpastrelli. È allegro, coccoloso ed è una gioia stargli accanto.

Si brinda di tè nero per i tre mesi guadagnati. S’apre il recinto del lettino e guadagna lo spazio del lettone. Passeggiate nel quartiere, dove son solo casette, ampi giardini, campi coltivati e un lungo fiume.

S’allenta il ritmo delle giornate, s’allunga il tempo del dormire.

DSC08848Ripenso talvolta alle parole dell’ostetrica che venne a casa per la visita del secondo mese, quando ancora piangeva tanto e forte, quando mangiava ad ogni ora e noi ci sentivamo impotenti, a volte inadeguati.

Era l’apprensione involontaria di noi due, genitori senza armi, nè prime nè seconde, incerti su cosa fosse più giusto fare, su come gestire il mai gestito. Su come anticipare il pianto ed evitargli sofferenza.

“Ma il pianto fa bene, il sangue circola ed esercita i polmoni. Un bambino che piange è un bambino che sta bene. È il suo modo di parlare, di comunicarsi” ci disse allegra.
Una donna piccola e scattante, con parole pronte in bocca, una di quelle persone che abitano i luoghi sconosciuti con una invidiabile disinvoltura, come fossero uguali (e probabilmente lo sono) a tanti altri visitati in precedenza.

DSC08770“Il ruolo del genitore non è quello di anticipare, ma quello di osservare non visto e intervenire solo quando serve veramente” riprese.
Poi, come ho visto fare innumerevoli volte ai giapponesi in questi anni, aprì il palmo come una tavoletta, l’indice a pennello, il polpastrello intinto in aria e poi strusciato sulla carne della mano, disegnò un kanji.

「親」 /oya/, il genitore

Oya è colui che sale sull’albero e guarda da lontano” disse. “Questo kanji dice tutto, non trovate?”

DSC08793In alto a sinistra c’è 「立つ」 /tatsu/ stare in piedi, alzarsi, sotto c’è 「木」 /ki/ l’albero e a destra c’è 「見る」 /miru/ vedere, guardare.
「木の上に立って見る」/ki no ue ni tatte miru/

La spiegazione di cosa sia un genitore è già nella parola. È colui che deve intervenire solo quando serve veramente, quando si tratta di “salvare”. Per non sostituirsi mai al proprio figlio, per non sostituirsi al corso degli eventi. Non evitare, non eliminare! Ti deve essere concesso d’interrompere solo quando serve veramente, di controllare quando è necessario ed utile davvero.

Così il pianto va accolto, la sofferenza tollerata.
E per quanto complicato sia accettare d’esser marginali, deve consolare il pensiero di quanto grande sia piuttosto il rischio di farsi protagonisti di una vita altrui, di non insegnare l’indipendenza ma la dipendenza.

Insegnare anche, passo a passo, a farcela da soli. È la gestione di se stessi. Sapere che quando si ha bisogno, quando si è in difficoltà, quel qualcuno di sicuro arriverà, salverà e lo farà con decisione.

Certo, per il momento Sou-chan è troppo piccino perchè la nostra presenza si faccia innecessaria, ma so che questo insegnamento dovrò tenerlo a mente, che sarà prezioso in ogni fase della sua crescita, quando dovrò guardarlo sbagliare, dovrò obbligarmi a non intervenire, a dargli solo la certezza della consolazione e della piena (ragionata) approvazione, lasciargli spazio per tentare e infondergli il coraggio di provare.

DSC08789Lontana da quella accademica, questa di oya rientra nell’interpretazione popolare dei kanji. Ed io che credo fermamente che i kanji siano cosa viva, che le parole si debbano lasciar maneggiare e non preservare sotto teche di vetro – al solo triste scopo d’essere guardate, per riflettere sbadigli o, più spesso, essere ignorate – mi innamoro una volta di più della lingua giapponese.
Onorare qualcosa che si ama è restituirle la capacità di comunicarsi, di parlare, in ogni momento.

DSC08893_小 2015-08-20 - コピーMa questo insegnamento, la spiegazione di un kanji basilare come oya s’applica anche altrove.

Perchè questo è un genitore ma questo significa anche essere se stessi. Che un ruolo non assorbe tutto quanto. E vale in amicizia, e vale sul lavoro.

Vale anche per sè, per mettere a bada la propria ansia di controllo, l’aspirazione zoppa d’essere sempre esatti, d’aver capacità di previsione, di conoscersi così tanto da rendersi prevedibili, incapaci di uscire dal selciato, dal percorso cementato.

Perchè a volte la cosa migliore, prima ancora di agire, di decidere, di troncarsi o condannarsi, è salire su un albero e, da lontano, per camuffare la nostra presenza (anche a noi stessi), restare a guardare cosa accade.

Nick Urata, I was waiting for you

Essere in due

La domenica mattina si spargono voci per la casa. Le finestre restano aperte e la Gigia risponde all’abbaio nervoso di qualche cane del vicinato. Ryosuke accende la radio, io mi perdo in racconti di scrittori e di letteratura. È un rituale che risale degli anni la corrente, quattro ormai. Registra il mio programma preferito perchè io poi lo possa ascoltare e riascoltare sull’iPod, quando l’incastro sempre più definito degli orari lo permetta.

DSC03271Vi scopro autori giapponesi e autori occidentali, libri per l’infanzia tradotti in giapponese ma non in italiano, favole che mi erano del tutto sconosciute. E ogni volta mi fermo a pensare a quanto un accordo tra editori o l’iniziativa di un traduttore (imbattutosi per caso in una piacevole lettura) siano in grado di influenzare l’immaginario di un bambino e di un popolo tutto che nei classici dell’infanzia – non solo nazionali ma anche stranieri – affonda le radici.

Ma prima che inizi il programma, che questa domenica cominci a parlare ad alta voce, mi siedo al computer di Ryosuke e mentre divago tra i fili della rete ascolto per caso la trasmissione che vien prima. Chiacchiere leggere della speaker che risponde alle lettere degli ascoltatori, chiacchiere da domenica mattina, di quel giorno di confine che separa la fine del riposo dall’inizio del lavoro.

Si parla del rimandare, del mandare ancora e ancora avanti impegni, cose che pesano ma che si devono fare.

“Adesso non mi va, non me la sento”

“Magari dopo”

“Magari proprio mai”

“Ci rinuncio, non fa niente”

“Dovrei ma non ne ho voglia”DSC04390Si allontana naturalmente lo sforzo, si procrastina il fastidio, il dovere che – quando si è stanchi o sfiduciati – sembra vano. È la fragilità dell’equilibrio tra ciò che si deve e ciò che si vuole fare che ci trova quasi sempre impreparati nel giudizio. Cosa è davvero necessario? Cosa ci si può invece risparmiare?

Poi si sbaglia, un po’ si inciampa e nel risparmio del momento, nel dirsi machissenefrega, nonfanullasenonlofaccio, sonotroppostancoorano si rischia invece di indebitarsi. Sì, di indebitarsi con se stessi o, meglio, con quelli che saremo. Perchè domani, tra un mese o anche tra qualche anno, saremo altre persone.

DSC03265Quando si è stanchi, ci si promette clemenza nel futuro, per quelli che saremo diventati. E invece poi ci si scopre spietati, punitivi.

Per quel chilo in più sulla bilancia, per quell’impegno non mantenuto e la mole di lavoro non sbrigato; per quel sentimento non riuscito, per quell’esame non dato, per quel no che non siamo riusciti a dire, per quel che è rimasto a fior di labbra, anche per quella cosa bella cui abbiamo creduto di poter rinunciare e che invece dopo ha lasciato acuta l’amarezza. Per tutti i piccoli fallimenti della vita ci si odia, ci si accusa, ci si fa del male.

E si scende nella scala della propria stima. Per non aver salito quell’unico gradino.

Per non aver rinunciato al dolce, per non essersi messi sui libri quando il tempo era ancora dalla nostra, per aver scelto di evitare una discussione o di non farlo, per aver preferito la strada più facile e sbagliata.

Allora diventa un po’ come architettare un regalo di compleanno per qualcuno, un amico, un familiare, una persona che ci è cara. Per il sè di quel giorno di celebrazione lavorare, fare il bucato, mettersi a studiare, rinunciare ad un piacere breve ed immediato, reprimere un attacco di rabbia, fermarsi prima di dire l’irreparabile, lavarsi i denti e struccarsi nonostante il sonno, portare a termine minuti traguardi quotidiani. Per rendere felice il sè di quel giorno che sarà.

Per rendere sicura la persona che saremo il giorno che andremo a sostenere una prova, quella che vuole entrare nell’abito da sposa o magari solamente in quei pantaloni che ama tanto ma che le stanno pelo pelo, che vuole guardarsi allo specchio e sentirsi bella, quella che voleva imparare una lingua complicata come il giapponese e affronta kanji, particelle e frustrazioni e quel giorno che alzerà gli occhi e ne riconoscerà uno, che saprà dire esattamente quello che vuole dire in quella lingua, sarà infine fiera.

DSC04396

La felicità si costruisce passo passo. Non la si gode quasi mai immediatamente. Bisogna essere lungimiranti, mirare lontano e saper immaginare la persona che saremo e che, della fatica che oggi accumuliamo, raccoglierà succosi i frutti.

Ma perchè è così difficile fare le cose per se stessi?

È che non ci si vuole mai abbastanza bene.

È che per farsi del bene serve l’altruismo. Letteralmente. Ovvero vedere in sè dell’altro. Un altro.

Guardarlo da fuori e capire infine quanto meriti la gioia.

DSC04690

「利他主義」 /ritashugi/  l’altruismo.

「利」 /ri/  di 「利益」 /rieki/  il beneficio, l’interesse e 「他」 /ta/  di 「他人」 /tanin/ l’altro, l’altra persona.

「自分の中の他人」 /jibun no naka no tanin/   “l’altro che è in sè”

E allora sforzarsi di fare quello che non si vuole fare pensando di non essere uno ma due, immaginando la persona che non siamo ora ma che saremo poi, in ogni fase temporale che verrà. Domani, giovedì sera, tra due settimane, un mese, il prossimo anno.

Immaginare di essere tanti sè e cercar di far felice quelli che non siamo adesso, quel sè che arriverà e a cui spetta assolutamente la felicità.

DSC04703

Ludovico Einaudi, Walk