「様子を見ましょう」 o delle certezze

DSC01146L’estate arriva vociando, stretta nelle divise corte dei bambini, con i loro cappellini gialli e le ginocchia che sbocciano – graffiate spesso di nuove esperienze – dai pantaloni corti, dalle gonnelline a sbalzi. Giunge alzando le braccia e stendendo gli indici all’orizzonte, nelle scolaresche che in questo periodo dell’anno sono tutte impegnate nei 「修学旅行」/shūgakuryokō/ ovvero le gite di fine anno. Mentre il paesaggio si riempie dell’infiorescenza globosa delle ortensie, della pioggia che picchietta sui loro capi pesanti sostenuti nel rosa, blu e violetto da gambi affidabili e robusti, l’estate si sfrega le mani preparando i cori di cicale. Manca poco.

Arriva con i sandali ai piedi e involuzioni capricciose di freddo e di caldo che raccontano l’indecisione recente di ogni stagione. Fuochi d’artificio che si schiudono in cielo come fiori scarlatti dalle lunghe code di manjushage (Lycoris radiata o Gigno Ragno Rosso) e chiacchiericcio che s’attarda fuori dalla stazione, oltre l’uscio di casa. Ragazzini che nel lungo tramonto si tirano un pallone, un padre ed un figlio che si scoprono amici in una palla da baseball e in un guantone.

 Mi preparo alle conferenze estive che mi porteranno in Hokkaido, poi a Londra, infine a Kobe. Non penso ai vestiti, ma alle parole. Alla negoziazione costante del significato che salta da una lingua a un’altra e tenta di dire quasi la stessa cosa, lasciandomi addosso in egual misura piacere e frustrazione. Non avrò più la Gigia tra le mani ma sarà costante lì, a pascolarmi gioiosa nel cuore; Sousuke sarà nel mio abbraccio anche quando ci troveremo in due paesi separati da un mare e migliaia di chilometri di terra, così accadrà anche con Ryosuke che ultimamente mi manca anche quando siamo l’uno accanto all’altra.

DSC01124Solo un mese scarso alla fine del semestre, s’affrettano i preparativi degli esami.

È l’estate, il battito di ciglia tra primavera e autunno.

「様子を見る」 /yōsu wo miru/;「様子を見ましょう」 /yōsu wo mimashō / è il nostro “stare a vedere”, “vediamo come si evolve la situazione”, “vediamo un po’ come vanno le cose”, “vediamo…”.

Si usa con una frequenza tale, ed in contesti tanto ampi, da sembrarmi espressione capace di decifrare quel senso di fatalità partecipe di cui è fatta in buona parte l’attesa giapponese.

Lo si pronuncia spesso sul ciglio di una strada che nel mezzo si interrompe. Dal dottore, per esempio, di fronte ad una diagnosi che non può che essere imprecisa (perchè mancano dati, perchè ogni corpo si rivela differente), o quando si espone un problema che ci assilla e l’altro (dal caro amico al cameriere che ci mette in lista d’attesa per l’ingresso a un ristorante) cerca di fornirci una soluzione momentanea. Quando non si può prevedere quello che accadrà, ci si ferma e si resta a guardare.

DSC01162I giapponesi del resto non danno mai certezze. Preferiscono rimanere in bilico su un filo, tenendoti per mano se serve, ma senza sbilanciarsi. Difficilmente di fronte ad una domanda complicata (soprattutto se richiede un investimento di tempo o di denaro, l’aspettativa di qualcuno, un seppur minimo rischio di deludere, di non riuscire, di non poter far fronte ad eventuali complicazioni di salute) un giapponese risponderà subito di sì, che esaudirti è in suo potere. Questa consapevolezza a volte estrema dei problemi, mi rilassa incredibilmente.

Non riceverò promesse false, nessuno verrà a sbandierarmi i suoi poteri, facili “sì” che dovrà poi puntualmente ritrattare o, peggio, impormi sotto forma di conseguenze successive.

Più frequentemente mi sarà detto di no e allora andrò a cercare altrove o resteremo invece tutti, pazientemente, a guardare che succede. Perchè spesso dopo un no, sboccia un prodigioso sì.

「様子を見て決めましょう」/yōsu wo mite, kimemashō/

Personalmente, per carattere e principio tendo a dire sempre sì ma poi, faticosamente e pungolata dai sensi di colpa, devo spesso ritrattare l’entusiasmo, riformulare i confini delle mie possibilità.

DSC01117Se questo mio sopravvalutarmi mi aiuta a fissar scadenze di scrittura, a prendere impegni per conferenze e tendenzialmente a rispettare i tempi di consegna, sul piano privato non è ugualmente vantaggioso. È doloroso scoprirsi insufficienti, e dispiace non essere all’altezza.

Eppure l’errore non sta nel negarsi – che è anzi diritto sacrosanto ed esercitato fin troppo poco se si vuol arrivare a qualcosa di grande nella vita – ma nell’iniziale, leggero, dire sì. Valutarsi esattamente per quello che si è, senza cadere nell’eccesso o nel difetto, senza sopravvalutarsi o sottovalutarsi, è sapienza che forse l’età e la saggezza porteranno.

Per ora, cercando come sempre di ricavare il meglio dall’esperienza di vivere nel mezzo di questa cultura d’oriente, tra questa gente mite e rispettosa, mi dico di fare tutto senza fretta, di non saltare a conclusioni (spesso errate), di non precipitarmi a fare qualcosa di avventato, nè di promettere quanto non son certa di poter dare, che sia tempo, parola, incontro od altro ancora.

DSC01080Lentamente, tutto giungerà.

Ogni gesto

DSC01070Iniziano le danze delle febbri, tutti a ballare intorno al fuoco dei trentotto e trentanove. Mi si chiede l’ora in cui qualcosa accade, “A che ora gli ha misurato la temperatura? A che ora ha mangiato il bambino?”. Ed io resto sbalordita dalla mia inconsapevolezza. È stata la sera o la mattina? Era ieri o è stato oggi? La linea che demarca il giorno e lo distingue dalla notte sfuma in una sequenza singhiozzante di numeri: le 21, le 23, l’1, le 3 e 30, le 4 e 40. Delle mezzore o delle rare ore in cui si cala infine nel silenzio e poi nel sonno.

È difficile fare la madre, non lo sapevo. È difficilissimo conciliare le notti, tutte ristrette come panni in lavatrici settate malamente, con le sveglie all’alba, talvolta anche prima delle cinque, solo per scrivere un po’, per studiare, per prendere dei treni e andare ad insegnare. Hanno maniche corte le mie notti, sono lenzuola che coprono solo le ginocchia.

Prima guardavo le donne con i piccini attaccati al collo, magari sedute ad un caffè, rincorrendoli attraverso strettoie di tavoli e labirinti di sedie, cercando talvolta di tirarli in piedi quando quelli – indifferente ed allegri – si spalmavano a terra, sul pavimento del locale. Ne invidiavo la leggerezza, il tempo in abbondanza.

DSC01092Adesso invece ne immagino il profilo notturno, la fatica, alle prese con sveglie improvvise, con termometri che segnano anche 40 e che in un momento azzerano la percezione del tempo, il domandarsi perenne “ma come si fa in questi casi? esattamente cosa devo fare adesso?”.

Non ho mai amato “le madri di tutti”, quel tipo di donne che ostentano la maternità come brandissero un trofeo, che suggeriscono che tra le infinite ve ne sia una giusta e che, guardacaso, quella sia proprio la loro. I bambini sono tutti diversi, ripete la gente. Ebbene, se è per questo, lo sono anche le madri. E se l’obiettivo è uno – crescere bene i propri figli – i modi di attuare questo piano sono tanti.

DSC01094Forse è merito dell’intrenseco garbo dell’arte giapponese della conversazione – che fa sì da valorizzare il bello e lasciar da parte il brutto, che perennemente cerca un motivo di lode da mettere avanti, che ponga l’altro, i suoi discorsi, nel bel mezzo – forse invece è perchè scelgo con cura persone ed ambienti, o perchè più banalmente sono fortunata negli incontri, ma non mi è ancora capitato di imbattermi in locali esemplari di “madri di tutti”.

Mi guardo intorno, cerco piuttosto di capire come qui vengono cresciuti i bambini, come combinare il meglio del mio essere italiana a quello dell’esser diventata adulta tra giapponesi.

DSC01178Piangono i bimbi, fanno anche i capricci, ma qui avverto una sorta di calma diffusa nelle madri, qualcosa che mi lascia stupita, intimamente ammirata. Non si fanno tirare dentro l’isteria, aspettano che si calmino da soli, non sembrano aver fretta di metterli a tacere.

Si vergognano senz’altro, vorrebbero che facessero silenzio, ma restano vicini ai piccolini senza alzar le mani o senza gridare loro contro. Quando poi scatta l’arrendevolezza e il pianto di stanchezza, li abbracciano o li accarezzano, e lì finisce tutto.

DSC01132Eppure è proprio in quella silenziosa, spesso dolce resistenza, che li si sta educando. Sopportando anche che, intorno a loro, si pensi l’esatto contrario. Si cede spesso all’imbarazzo e allora si alza la voce, si grida. Ma non è mai per parlare al bimbo, bensì per dimostrare a tutti gli altri che li si sta educando, che si sta facendo il proprio lavoro. Una trappola in cui dovrò fare molta attenzione a non cadere.

Ricordo d’averlo pensato anni fa, notando la cura dello spazio pubblico. Che si imita naturalmente tutto quanto ci circonda, inconsapevolmente ci si adegua. È tanto più difficile buttare una cartaccia dove è tutto pulito piuttosto che farlo dove è sporco. Tutto sta allora nel circondarsi di quanto sappia migliorarci, che ci spinga a dare il meglio di noi.

Frequenta chi è meglio di te. Me lo ripeto da anni come un mantra. E “meglio” non significa necessariamente più colto o raffinato. Migliore in quanto a gentilezza, per esempio, o per il modo che ha qualcuno di reagire alla delusione. Ogni persona ha un dono.

Bisognerebbe ricordarlo, quanto ogni nostro gesto sia d’esempio a qualcun altro e quanto serva a mantenere o rompere equilibri. Imitare e creare con le proprie azioni un ambiente in cui sarà naturale agire per il meglio. È questo che vorrei riuscire a fare come madre.

Mottainai o del tempo perso

  Ci si sente vecchi già a vent’anni e poi a trenta, ci si sente sorpassati a quaranta e poi a cinquanta. Questa apprensione non si spegne neppure a sessanta, quando ci si aspetta che l’età ormai abbia insegnato quanto inutile sia ostacolarsi, privarsi della gioia di tentare.
DSC00862Più si va avanti più il coraggio viene meno, come se il passato fosse sempre più importante del presente e pesasse, tale e quale a una zavorra. Ci si aspetta costantemente di essere in linea con i tempi altrui, quelli “giusti”, quelli standard, senza avvedersi dell’errore.
Me lo sussurro piano, aprendo la serranda la mattina, mentre bollisco l’acqua per il caffè di Ryosuke o alzo il viso dal lavandino, guardandomi allo specchio.

Penso alla mia vita fino a qui e mi accorgo d’essere stata rapidissima per certe cose, lenta e ancora in cammino per altre. Rinsavisco solo dicendomi che non esiste un tempo giusto per qualcosa e che, per quanto a parole si conceda al singolo la specificità – la libertà d’essere se stesso – a conti fatti siamo i primi a vederci costretti in una griglia, a rispondere ad una media. Si può arrivare al traguardo anche “in ritardo”, col fiatone o pelo pelo, ma lo si farà con un bagaglio di esperienze tali da accelerare processi che prima non sarebbero stati neppure concepibili.

Tempo fa, alla tv, vidi una pubblicità progresso tutta elaborata in animazione, e realizzata in collaborazione con la NHK, la televisione pubblica giapponese. Si succedevano sullo schermo giovani uomini e donne, sullo sfondo di scene quotidiane, stanchi e scoraggiati in mezzo alla folla ondeggiante di un treno o a terra in una posa sconfitta, nella pausa dal lavoro in un kombini, ragazzi colti nel momento prima di cadere, di precipitare nel lunghissimo istante in cui si decide di mollare.

Poi sopraggiungeva un accenno di coraggio, una voce infinitamente comprensiva che incitava a non darsi per vinti. Che non era troppo tardi. Ed ecco il sollievo gonfiarsi in cavalloni e diventare spinta al cambiamento, l’espressione MOTTAINAI a decriptare il senso di una giornata.

DSC00839Ne accennavo brevemente la volta scorsa, delle tante sfumature di「もったいない」 /mottainai/.

Natsume Sōseki in Guanciale d’erba, lo pronunciò rivolgendosi al monaco che, tenendo chiusi gli shōji, copriva la vista di uno splendido paesaggio.
「これはいい景色。和尚さん、障子をしめているのはもったいないじゃありませんか」
“Che incantevole panorama, Maestro. Non era un peccato starsene con gli shōji chiusi?” (trad. Antonietta Pastore)

Con il tempo il non essere all’altezza del valore di qualcosa, si è evoluto in un nuovo /mottainai/. È il “non usare a sufficienza”, non mangiare tutto e gettar via ciò che rimane, sprecare denaro per qualcosa.

「こんなお皿にお金を使うのはもったいない」 “è uno spreco comprare (usare denaro) per un simile piatto”

È quando qualcosa che si può ancora usare viene gettato anzitempo, quando non si adopera al meglio qualcos’altro, che sia un oggetto materiale come il denaro o una cosa astratta come il tempo. Mi sembra anzi che questa espressione breve ed incisiva restituisca fisicità a ciò che corpo non possiede.

DSC00921Nel 2005, alle Nazioni Unite, l’ambientalista kenyana Wangari Maathai lodò così entusiasticamente il giapponese “mottainai” tanto da farne uno slogan e da farlo diventare conosciuto internazionalmente.

Il significato dei tanti che però prediligo è proprio quello dello spot: “Che spreco darsi per vinti!”.
Sembra nesssuno più si accorga oggi che riuscire al primo tentativo è una rarità. Più frequente è invece giungere al successo, di qualunque successo poi si tratti, lentamente, attraversando fasi invisibili e per gradi.

Mi sento immobile talvolta, come se tutti gli sforzi di una settimana o di un mese non mi avessero portato null’altro che stanchezza, come se l’obiettivo rimanesse alla medesima distanza. Eppure, nonostante quelle lunghe zone d’ombra, eccomi arrivare all’ultimo capitolo del romanzo, all’articolo pronto per la pubblicazione. I risultati arrivano di botto, come fuochi d’artificio.
Lo dimentico ogni volta e ogni volta me lo ripeto, che per arrivare al dieci serve l’uno e il due, il tre ed anche il quattro. Può capitare di saltare un cinque o forse un sei, ma allora il sette sarà più faticoso, servirà più tempo per raggiungerlo. E ancora più tempo per convincersi d’averlo.
La gradualità rassicura, ma non è semplice sopportarne la lentezza. Eppure serve e non la si può evitare.

DSC00903L’importante è non fissarsi sull’età, sui tempi, su quello che fanno gli altri intorno a sè, su come si “dovrebbe essere” e non si è ancora.

E se lo si fa, sbagliando, è bene ricordarsi quella frase breve ed incisiva: “Mottainai”.

Dire grazie e dire scusa

Giorni fa ero in attesa al semaforo, ostinatamente rosso e prolungato, nonostante la fretta, nonostante la pioggia che cadeva lieve ma insistente. Quella pioggerellina ostile che ti bagna e ti rallenta, ma senza accollarsi più responsabilità di così.

Avevo Sousuke nel marsupio, imbambolato dal freddo tornato all’improvviso nella notte. Ancora poco e saremmo giunti nella seconda cuccia, l’asilo dove, già da un paio di settimane, è iniziato un inserimento dolce dolce. Stretto contro il petto, all’incrocio, con due borse gonfie nel cestino della bici, una per le mie scritture ed una per la sua mattina breve, d’un tratto ho sentito un tocco lieve sulla spalla.

Mi sono voltata, con la paura d’aver lasciato cadere qualche cosa, una mano che raccoglie come briciole gli oggetti che scivolano fuori da una tasca, oltre il bordo di una borsa. Era una anziana signora, con occhiali larghi dalla montatura corallo, imbacuccata in vari strati per ripararsi dal vento che faceva le bizze. Un gesto rapido del braccio ed eccoci tutti e due, Sousuke ed io, sotto la corolla del suo ombrello.

Ci porgeva il suo riparo, ci cedeva la sensazione bella d’essere all’asciutto nella pioggia.

 L’ho ringraziata, un po’ commossa.

“Ha freddo? Sta così buono” ha replicato sorridendo. E subito s’è affrettata a spiegarmi il gesto, come spalancando un finestra per mostrami un paesaggio, come vi fosse bisogno d’una giustificazione per essere gentili. Ma in Giappone serve spesso un buon motivo per rompere la distanza che qui è la base del rispetto, una doppia protezione per sè e per quello che dell’altro non si sa. “Sa, ho un nipote anch’io, sono una nonna. Ma purtroppo è lontano”

DSC06734 - コピーLe ho chiesto quanto spesso lo vedesse. “Quattro volte in un anno” ha risposto.

“Ma domenica prossima vengono a trovarmi” ha aggiunto subito raggiante.

“Un maschietto o una femminuccia?”

“Una bambina, di un anno e mezzo”

Poi è scattato il semaforo e il discorso si è interrotto. Il nuovo nipote che sta per arrivare è rimasto lì, in punta di lingua, la gioia solo apparecchiata. Ma le vite fuggono via rapide all’incrocio delle strade, si intersecano nei pochi metri di un pezzo di città, è un miracolo, è un attimo di pausa e subito ripartono veloci.

Grazie, grazie mille. Grazie tante. Grazie veramente.

Ogni lingua tiene un gran numero di frasi fisse tra le mani, si diverte a osservarne i mutamenti allo stesso modo in cui guarderebbe una creatura che evolve nei decenni, adattandosi a sopravvivere a un nuovo ambiente. Prima pinne e coda, poi gambe ed arti prensili, schiena dritta e linguaggio più complesso.

DSC06748 - コピー (2)Pensavo questi giorni alle tante sfumature di 「もったいない」/mottainai/, che sbuca nel parlato giapponese, a volte profondendosi in inchini, altre esortando alla sobrietà, altre ancora suggerendo mite di accorgersi del disequilibrio tra gli oggetti o i sentimenti, oppure spronando vigorosa a mettere riparo ad un errore.

Nasce originariamente proprio da un sentimento di riconoscenza, enfatizzato nell’abbassare chi parla. Una accezione vicina al 「申し訳ないくらい」 /moushiwakenai kurai/ , letteralmente “tanto da dover chiedere scusa”.

Ed allora:「もったいない言葉をいただく」 /mottainai kotoba wo itadaku/ ovvero “ricevere parole di cui non ci si sente degni”, magnifiche parole, lusinghiere.

DSC07520È un grazie che, come quasi sempre accade nella lingua giapponese, si mischia al sentimento del perdono, perchè questo popolo è consapevole di come spesso ciò che si riceve, sottrae qualcosa a chi lo dà.

“Grazie” e “Scusa” sono due espressioni che nel Sol Levante si tengono per mano.

Donare è rinunciare, farlo bene è non far intuire all’altro l’eventuale privazione. Il compito di chi riceve, invece, è non dare il ricevuto per scontato, operando piuttosto un esercizio di immaginazione che lo metta nei panni di chi dà e che, per quanto elegantemente lo celi, a qualcosa ha effettivamente rinunciato.

DSC06877 - コピーAl di là del sentimento di gioia che si può provare nel far del bene a un altro, concedere un favore è indubbiamente privarsi di un piacere o di una comodità, che sia dar la precedenza ad altri su una stretta via, spostarsi per lasciar passare una bicicletta, acquistare un dono, cedere tempo per ascoltare le ansie di un amico, preparare una pietanza a mano. Offrire il riparo del proprio ombrello ad altri, finendo per bagnarsi.

Amo il grazie che sempre si inchina in questa lingua.

Non è solo 「ありがとう」  /arigatō/ , 「ありがとうございます」/arigatō gozaimasu/, 「感謝しています」/kansha shiteimasu/ (le sono riconoscente)  ma è anche 「すみません」/sumimasen/ ,「申し訳ありません」/mōshiwake arimasen/, poi c’è 「どうも」/dōmo/ privato dell’arigatō che spesso segue.
Ed è giusto così, che una parola importante come “grazie” non cresca solo di intensità nell’aggiunta di “davvero, molto, mille”, ma che sveli i suoi tanti sentimenti.

Da quando è nato Sousuke scelgo del grazie soprattutto le sfumature del perdono, il sumimasen e moushiwake arimasen e, in genere, pronuncio queste frasi con una frequenza superiore. Sia perchè la dolcezza che manifesta la gente per questo bimbo esuberante è tanta, ed ho molto di cui essere grata, sia perchè effettivamente far quadrare ogni pezzo della catena di montaggio che è l’allevare una creatura è  complicato, richiede ingegno, richiede negli altri una clemenza, una tolleranza, una flessibilità che di ovvio non hanno proprio nulla. D’un tratto ciò che non si può controllare supera di molto quel che invece è stabilito e non si muove. Quindi grazie, ma anche scusi, scusa, scusate.

DSC07535Il kanji di /arigatō/ del resto lo racconta. È 「有難う」, in cui c’è 「有る」 /aru/ che è “essere/esistere” e  「難い」 che è /katai/ ovvero “difficile”. Pertanto si ringrazia considerando la difficoltà dell’esserci di qualcosa, del ricevere un favore, un gesto di gentilezza che non deve essere accolto come ovvio.

「音」 o la voce delle cose

Il mondo è pieno di rumori.

DSC00599Sousuke ne gusta le varianti, sperimenta l’incontro tra le cose, il suono che producono a scontrarsi, a strusciare l’una sull’altra, a graffiarsi. Sbatte il ciuccio sui giocattoli, le manine sulle superfici (tavoli, vetrate, corpi) e stringe nel palmo tutto ciò che gli capita a tiro. Mette alla prova la consistenza delle cose, si stupisce, assorbe, impara e poi rilascia. Ogni prima cosa si esaurisce per lasciar spazio ad una seconda, ad una terza. Ad un’altra.

Con il tempo, nel linguaggio ogni cosa si andrà limitando, una gamma di colori si farà solo “azzurra” o “blu”. Il “bianco” raccoglierà nel pugno decine di toni differenti. Un suono somiglierà sempre ad un altro. Nulla starà lì solo per se stesso, vi sarà bisogno di spiegarlo e così paragonarlo, ridurlo a qualcosa che si conosce già, qualcosa di inevitabilmente diverso. La meraviglia sarà chiusa tra le quattro vocali e consonanti di una parola sola.

Cresce la sua capacità di relazionarsi al mondo e insieme diminuisce, in ogni conquista, anche la capacità di cogliere il diverso, ciò che non è compreso nel linguaggio. È la regola del nostro mondo, la condizione prima della comunicazione. Qualcosa che, nonostante la sua normalità, mi impressiona profondamente.

D’altra parte anch’io, con la nascita di Sousuke, apprendo un nuovo modo di relazionarmi all’universo quotidiano: mi guadagno il tempo col silenzio.

DSC00611Il mondo torna a stupirmi dei suoi suoni. Una bottiglia d’acqua che può rilasciarne di simili a uno scoppio, il fruscio sommesso delle vesti quando mi muovo per la stanza, il clangore delle pentole mentre cucino, lo scroscio dell’acqua nel lavandino, il cigolio d’una porta e il sibilo del vento, il semplice colpire e sfregare delle piante nude sul parquet.
Ogni rumore è un possibile nemico del sonno di mio figlio, ogni movimento può causare la fine del mio tempo privato.

È quello in cui concludo il romanzo, che cresce adulto e si evolve anch’esso come un figlio. Ed è particolarmente vero adesso, perchè questo libro – che miracolosamente è già sotto contratto prima ancora d’esser terminato – è nato qualche mese prima di scoprire d’essere incinta, ha iniziato a prender forma quando Sousuke era nella mia pancia, ha subìto una brusca deviazione quando lui è venuto al mondo, è tornato sui suoi passi dopo i primi tre mesi di vita del bambino, ed ora, con le sue metaforiche gambette, si dirige con decisione verso la fine.

DSC00676È anche quello della tesi di dottorato, che ha tardato troppo, e a dicembre passerà infine in nuove mani. Va nutrito ogni giorno di letture, di scritture. Ne intendo fare, tempo permettendo, una cosa che rimanga. Qualcosa che apra nuove strade ancora.

E in questi progetti grandi che mi gonfiano il cuore di una passione tutta personale, o anche solo nella preparazione di una cena o nella sistemazione di una stanza, il silenzio mi è alleato. Anche il gorgoglio di una pentola che bolle, il timbro mesto di una sveglia che avverte che la pasta è cotta, il gemito della spia del microonde che mi dice che il riso è scongelato, possono diventare nemici potenziali.

In giapponese 「音」 è il kanji del “suono”. Si legge /oto/ o /on/, /in/ e indica il rumore, ma si può leggere anche /ne/ ed in quel caso indica la “voce” dell’essere umano, quel suono che s’avvinghia stretto ai sentimenti.

DSC00589Così è la parola 「本音」 /honne/ che indica “la verità” la sincerità dei propri sentimenti. È il kanji di 「本当」 /hontou/ “vero”, 「本物」 /honmono/ “originale, autentico”, abbinato a quello del suono 「音」nell’accezione di /ne/, della voce intima dell’uomo.

「本音を吐く」/honne wo haku/ “rivelare il proprio sentire/ le proprie intenzioni”

「弱音を吐く」/yowane wo haku/ “ lamentarsi, dolersi, rinunciare, arrendersi”

Può essere /ne/ anche il canto di un usignolo, perchè porta rimembranze e smuove emozioni.

DSC00528Tutto ultimamente mi fa pensare ai suoni, ogni cosa torna alla sua origine uditiva. E, come sempre, nei kanji trovo anche risposta ai miei quesiti.

Ecco che cos’era questo mondo di cose che si affollavano intorno a noi, al sonno del bambino, ai nostri movimenti, ecco cos’era questa nuova attenzione ai rumori del corpo, della casa, della strada.

Era il modo che la vita aveva di confessare i propri sentimenti. Era la sua “voce”.

Spitsu, Robinson