Kata o della forma

“Fai il tuo lavoro, e poi fai un passo indietro. L’unica strada per la serenità”
Lao Tsu

 

 Così come si dice che ci sia un posto per ogni cosa, c’è per ogni cosa anche una forma.

  Per me, che devo alla forma della lingua giapponese il virare poderoso della mia esistenza verso oriente, essa è tutt’altro che un dettaglio.
Ricordo quella prima lunghissima impressione che mi fece la liquidità dell’hiragana, il tratto serpentino che accompagna i libri dei bambini e, cavalcando i kanji, ne spiega anche la lettura, perché si possa infine pronunciare quel grumo di fonetica ignoranza; i kanji come favole fulminee, come haiku di un senso che a spiegarlo a parole si farebbe assai più lungo e faticoso; il katakana come la squadrata accentuazione di cosa è e cosa non è originariamente giapponese, di una onomatopea che denuda la parola di tutto quanto non sia pura sonorità.

 Il problema dello scrivere, del disimparare la propria lingua è molto attuale in Italia, qualcosa che i social network hanno evidenziato spalancando immensi spazi dove si riversa una comunicazione che è spesso assai informale, poco controllata.
Ho sempre pensato che la scrittura sul web sia fin troppo disinvolta, che si disperdano parole come scarti di sè e non come ciò che invece è, ovvero una propria emanazione, la manifestazione ferma di ciò che si è.
 Le parole sono pietre. E restano, proprio come dicevano i latini, ed oltretutto questo vale non solo per quanto di spiacevole si possa dire nei confronti di qualcuno, bensì anche per quell’orma che lasciamo negli occhi di chi legge.

Il Giappone per molti versi ha il medesimo problema, seppure declinato nelle modalità specifiche che propone questa lingua. I giovani si divincolano dalla complessità dei kanji e spesso affidano all’hiragana e soprattutto al katakana il suono e non la forma. Non tutti ricordano la successione esatta dei tratti.

L’occhio salta l’ostacolo del suono ed affronta il suo significato e il giapponese, che è lingua di contesti, si presta a questi slalom. Del resto, un medesimo suono, una coppia di sillabe appena, può dar luogo a una manciata di sensi differenti. Basterebbe usare l’occhio e non l’orecchio per capire che /sendan/ 船団è la “flotta” e non 「専断」, 「栴檀」 o 「剪断」 che si pronunciano tutte allo stesso modo ma hanno significati del tutto diversi, così come /iji/ 「維持」 è “la conservazione, la preservazione, la manutenzione” e non “l’orfano”, “il carattere” o una “questione di natura medica”.

Ed è così che il giapponese scritto si fa notevolmente più complesso del parlato in cui i suoni si mescolano ed è il contesto a decidere tutto. La naturalezza della conversazione giapponese, infatti, richiede una gamma di termini assai più limitata di quanto non ci si aspetti. E quando invece si parla molto formalmente, pare di dialogare in un’altra lingua ancora.

 Ci vuole particolare cura, ci vuole attenzione alla forma.

Ma il concetto di forma, /kata/ non tocca solo la lingua.

È la forma, che ogni cosa determina e gestisce, il recinto entro cui si posano gesti e parole in questa cultura che gelida non è, se non in un paragone che nessuna cultura riuscirebbe a sostenere, e che di certo non meriterebbe.
Nella cultura giapponese ogni「場」 /ba/ ogni “luogo” ha la sua「型」/kata/ “forma”. Ma i luoghi possono metaforicamente sciogliersi fino ad abbracciare ogni situazione, ogni contesto. Così, per ogni tempo della vita esiste una gamma di gesti e di parole, un codice di comportamento che fa sì che non si commettano errori. È la cautela di questa cultura millenaria, che tende a ponderare prima di agire, a valutare attentamente ogni passo prima di allungarlo sulla strada.
 L’improvvisazione non premia in certi casi. E la spontaneità è la scusa dietro cui, non sempre ma un ragionevole numero di volte, si nasconde l’insensibile, il pigro, colui che preferisce solamente buttar fuori.

 Tendenzialmente il giapponese preferisce andare sul sicuro o, perlomeno, sull’altamente probabile, il che gli garantisce di evitarsi quell’andare a tentoni che si definisce 「試行錯誤」 /shikōsakugo/. Sbagliare non è da condannare, a meno che quell’errore non fosse facilmente evitabile con un po’ di pazienza e seguendo il codice di comportamento che la situazione in questione di regola avrebbe richiesto.

 Me lo ripeto spesso quando sto per fare qualcosa, per dire una parola, per prendere una decisione. Che serve ponderare, non essere impulsiva e tutto quanto è necessario a comporre il risultato cui anelo, come pezzi di un puzzle, si nutre di tempo e non di fretta.
Non per nulla il concetto di 「型」/kata/ è fondamentale nelle arti marziali, nelle discipline tradizionali, in ogni cerimoniale. Solo dopo averlo appreso così bene da assorbirlo nell’automatismo, sarà possibile spezzarlo, ed è lì che nascerà l’originalità, la più alta creatività.
La bellezza, la perfezione così come la più apprezzata imperfezione, nascono da lì. Da un gesto dopo l’altro, che prepara corpo e mente, a quello che ci attende.

 Sono regole da far proprie, riti di passaggio applicabili ad ogni situazione della vita, all’inizio di un amore, di un’amicizia, alla ripresa del lavoro, all’avviarsi di un progetto lavorativo o personale, anche ad un mero giorno di vacanza che per dirsi tale richiede una serie di fasi.
 La chiave sta nell’individuarle e nel frenare l’impazienza che ci vorrebbe far saltare subito al risultato, alla fine.

 Ed una volta che si è fatto tutto quello che il /kata/ richiede, il lavoro fisico, emotivo e professionale che ci riesce, dopo averlo eventualmente rotto sprigionando un nuovo risultato, serve allora fermarsi ed aspettare. Semplicemente.

YUKKURI o dell’obbligarsi alla lentezza

dsc02206「テンポ」 /tenpo/ una parola d’origine italiana che è lo stare “a tempo”, nell’accezione che coinvolge il ritmo più che la durata senza inizio e senza fine, come è invece il nostro imperfetto che riprende un passato senza date, nel tratteggiato di una linea che è nella zona centrale definita ma a pois nelle sue terminazioni.

 È la velocità.

Quando si nota il semaforo lampeggiare, l’istinto è quello alla corsa.

È una maratona la città. Ogni angolo ha il suo ritmo, scandito dalla luce e poi dall’ombra, dalle insegne luminose, da fazzoletti di verde e bastoncini di cemento. Il vociare altissimo degli inviti ad entrare, le rassicurazioni su un sapore, su una consistenza, su un prezzo che solo oggi, solo adesso, solo per un’ora rimarrà tanto conveniente.

Sfrecciano per le strade di Tokyo parole semplici a misura di turista o a misura di passante, che per antonomasia passa e va. E tu, che vai di corsa come tutti gli altri, ti lasci dietro la nostalgia d’ogni ascolto.

Alla stazione di Mejiro una bimba di sette o otto anni accenna passi di danza davanti al nonno, nella frenesia del movimento della gente che corre a prendere un treno, corre per scendere dal treno, corre e basta. E sono solo loro due, il nonno e la nipote, lei così profondamente intenta nel balletto sgraziato dei bambini.

È un avanti-veloce. E poi si ferma.

E tu, con loro, ti fermi. E l’istante si dilata prima che la corsa ingoi ancora ogni cosa.

dsc02095Questo autunno è stato tutta una scadenza. La tesi di dottorato, il nuovo romanzo, una nuova giovanissima cosa che richiedeva una precisione che ho dedicato a qualcuno solo un’altra volta nella vita.

Col fiatone, rosicchiando ogni riposo pur di infilarci attività, mi sono svegliata per mesi alle quattro e trenta del mattino, uscendo di casa con le stelle, rinunciando alle persone. Ho vissuto la frenesia assoluta dei giorni, ho corso così tanto che mi pare d’esser arrivata persino in anticipo sugli anni. Ed eccomi, ospite inattesa ad una festa dove il padrone di casa sta ancora infornando gli antipasti.

Ma ogni cosa è stata porta, con la gioia con cui si affida al mondo una creatura nuova di zecca.

dsc02123Ed ecco il lavoro di ricerca di anni, ecco la materialità nella letteratura del Novecento, eccola sviscerata in Ogawa Yōko. Ecco il romanzo che mi ha insegnato cosa significhino i legami, di come l’amore abbia proiettata su di sè, onnipresente, l’ombra del possesso. Eccomi all’alba di un’altra vita.

E poi d’un tratto 「ゆっくり」 YUKKURI, “piano piano”, così piano che c’è stato da obbligarsi. Perchè quando le gambe sono abituate alla corsa, iniziare a camminare lentamente, ma davvero lentamente, può esser faticoso.

Lampeggia il semaforo e tu, che saresti spinta ad accelerare per cogliere l’onda di colore, adesso punti i piedi, dici “no!”. Il rosso è lì per darti modo di guardare il menù del ristorante alle spalle, di sbirciare sul banco delle spezie, per tirare anche solo un sospiro e dirti “brava, ce l’hai fatta!”.

Tu che stai per settare la sveglia, propendi per l’ultimo numero che riesci a immaginare, per il 「ぎりぎり」 /girigiri/ “pelo pelo”, e persino per la sua totale assenza nei giorni di festa.

Per riposarsi bisogna forzarsi, convincere se stessi che davvero è finita, che ora quel che serve è andar con calma, che senza ricaricarsi non ci sarà nulla da donare nè a te stessa nè a nessun altro.

È il momento di fermarsi. E quando il passo va troppo rapido e te ne accorgi ti fermi, rallenti forzandosi persino.

「ゆっくりと、ゆっくりと」YUKKURI.

Hai da recuperare. Hai da forzarti alla lentezza. Hai da recuperar forza nella lentezza. Hai da esercitarti all’abitudine del corpo che cambia di 「テンポ」 /tenpo/, di ritmo.

Hai il diritto e il dovere di piegarti al YUKKURI.

dsc02208Un’altra espressione giapponese che inneggia alla lentezza è 「焦らずに」 /aserazu ni/ “senza fretta” dove 「焦る」 /aseru/ è “andar di corsa, affrettarsi” ed ha il medesimo kanji di 「焦げる」 /kogeru/ un verbo che si pronuncia in una cucina dove qualcosa è andato storto, dove si è “bruciata” una pietanza. Perchè è proprio questo che significa: “bruciare”. Correr troppo, del resto, a quello porta.

 E poi c’è riposare che è 「休む」 /yasumu/ che è la persona 「人」 che sta, semplicemente sta sotto un albero 「木」. Forse attende, forse legge, probabilmente davvero solo sta, esiste. E questo basta.

Mi sono ripetuta in queste settimane anche e soprattutto varie declinazioni del verbo 「落ち着く」 /ochitsuku/  che è “calmarsi” e che è l’abbinamento di 「落ちる」 /ochiru/ “cadere” e di 「着く」 /tsuku/ che è “arrivare”. È quindi il risultato delle azioni che scivolano giù, giungendo alla fine. Ed è per questo che la forma negativa di questo verbo comunica invece instabilità emotiva, nervosismo, come una sospensione nel mezzo che non permette una bellissima caduta.

dsc02106Perchè si tratta in fondo di cadere, per arrivare nel punto più profondo di un luogo strettissimo dove non poter che stare fermi e guardar su, verso il cielo che d’un tratto non ti è mai parso così bello, così vario, qualcosa infine che non si spezza più in metereologiche varietà – sole pioggia nuvole freddo caldo.

E una volta che ti sei costretta al YUKKURI, all’ASERAZUNI, al YASUMU, all’OCHITSUKU allora sporgi il corpo, e sei finalmente pronta all’immobilità che ti permette di vedere che l’autunno è arrivato e sta finendo, che rallentare il passo significa essere infine al passo di tuo figlio e al passo della vita che va finalmente al giusto ritmo.

“Strano”

Propongo un post come un altro, per mostrare uno degli aspetti di diversità che caratterizzano agli occhi esterni il Giappone, come faccio da anni. Scorro i commenti , in un ritaglio piccino di tempo prima di coricarmi, per rispetto a chi frequenta questo spazio e che forse nel lasciare una traccia scritta desidera esprimere un’opinione che venga a sua volta letta.

dsc08485Ed ecco comparirmi sotto gli occhi la frase per eccellenza, quella che incontro talvolta tra le righe sottili di volti che non conosco, tra nomi che dimentico con rapidità, quella che più mi impensierisce  ma in cui, per un qualche miracolo dovuto forse al buon clima che si respira in questo ritaglio di rete, ultimamente non mi imbattevo e che, più o meno, recita così: “è risaputo che i nipponici sono strani / tutti lo sanno che i giapponesi sono strani / i giapponesi sono famosi per essere strani”.

dsc08490Al di là dell’opinione, che rimane a discrezione personale e cui non replico non per mancanza di argomenti ma per eccesso degli stessi (vorrei sempre evitare d’essere prolissa), faccio fatica a tollerare questo abuso di ignoranza.

Immagino un giorno mio figlio un po’ più grande in Italia essere guardato con sospetto da altri bambini istruiti al più triste eurocentrismo (nei casi peggiori persino “italocentrismo”) che fa loro percepire quel che è diverso come “strano”, colorando sùbito di ridicolo o negativo ciò che non conoscono e che pertanto non comprendono immediatamente.

“Ecco il giapponese, quello che viene dal paese strano” “Ecco il cinese (sono uguali, no?)”  o magari allungando gli occhi con la punta delle dita ai lati per mimarne la fisicità.

“Strano” è un aggettivo che denigra e che decenni di studi in campo antropologico e sociale, avanzamenti nel campo del sapere, che correnti di critica letteraria come quella post-colonialista hanno evidenziato come risultato di un pensiero tutto concentrato sul proprio ombelico culturale, su un razzismo di fondo che ha accecato di superbia l’Occidente.

Usare la parola “strano” nell’elaborare ed esprimere un’opinione su una cultura altra, non solo blocca in origine il pensiero (ciò che è strano è strano e basta e non richiede ulteriore approfondimento, sarà comunque indecifrabile) ma svela di quella persona ignoranza e superficialità, due caratteristiche fin troppo diffuse tra la gente e che, se si vuole fare un passo avanti nel campo dell’integrazione e del profilo culturale e umano di un paese, serve assolutamente debellare.

dsc08319Integrare è arricchimento. Cercare di capire incrementa intelligenza.

Dire “strano” non fa male, non schiaffeggia: “senza offesa eh!” si giustifica chi lo usa quando l’altro si ribella.

Eppure c’è l’offesa e c’è il pericolo che si diffonda come un virus. Bisogna badare alle parole, ci rappresentano una ad una.

Dite “brutto”, dite “bello”, argomentate il vostro punto di vista e in questa ricerca magari documentatevi a fondo, restituendo al contatto con la rete il suo scopo ideale, quello di conoscere e sapere. Prendetevi la responsabilità di raccontare un’esperienza positiva o negativa, di esser ripresi nel generalizzare, di svelare un pregiudizio, di prender coscienza di quanta ragione o torto abbiate.

E quando non siete sicuri, come saggezza da sempre esorta, tacete.

E la stranezza lasciatela alle fiabe. Alle sensazioni che non hanno nome, alla percezione imprecisa di quanto si sta vivendo.

E allora sì che “strano” torna ad aggiungere qualcosa.

Allenare la paura

È un mondo piccino.

Un aereo, ali che non sbattono ma restano spiegate tutto il tempo ed ecco che il mondo ti appartiene. Si scivola nelle sue pieghe, in quelle fessure del cielo che si tramutano in strade, strisce bianche sulla calotta del nostro minuscolo, impercettibile universo.

dsc01751Ti svegli la mattina, distribuisci baci parimenti e basta qualche treno, un aeroporto, e dopo una dozzina d’ore eccoti nel bel mezzo di Londra.

Ed eccola Londra, che ti immaginavi immensa, ricordavi solo a pezzi e invece è piccola così, traboccante di italiani. E sembra quasi non ci sia un inglese ufficiale per quante diverse intonazioni incontri per la strada, negli ufffici, nei ristoranti, all’università.

Tutte le razze del mondo sfilano fuori dalla finestra e ti viene gioia, gioia pura per essere tuo malgrado parte di questa mescolanza. Le città sono fatte dalla gente, sono le persone che ne determinano l’umore. Così è Roma, così Tokyo, così Londra.

dsc01714Passeggi una decina di chilometri al giorno, anche per smaltire porzioni cui non sei più abituata. Il Giappone rimpicciolisce e alleggerisce le pietanze ed è qualcosa che, se una volta ti lasciava un po’ scontenta, adesso fa proprio al caso tuo, che ami lasciar spazio a più cose da assaggiare piuttosto che a lasciarti soddisfare solo da una.

Magnifica conferenza collettiva alla SOAS che racconta di Corea, Giappone e Cina e tu sei lì per parlar di Ogawa Yōko e di Anne Frank, presentando un altro pezzo della tesi di dottorato che consegnerai questo novembre.

dsc01901Saltar di palo in frasca da un’auletta a un’altra per andare ad ascoltare chi ne sa sempre più di te, ed in ognuna immergersi in musica, in storia, in cinematografia o sociologia. Cerchi fino all’ultimo di perfezionare anche la pronuncia perchè ci tieni, semplicemente perchè ci tieni tanto. I suoni sono belli proprio perchè sono diversi, così come lo è la gente, splendida nella sua imprevedibile singolarità.

Non hai alcuna paura di parlare nel tempo che ti è assegnato. Clicchi sulle slides, leggi, rispondi alle domande e ci provi piuttosto un gran gusto. Ti hanno allenata gli anni di insegnamento all’università, quando ti trovavi e ti trovi tuttora di fronte anche a decine, centinaia di ragazzi, ad allungare un passo sul palco e a trovarti sempre al centro, tuo malgrado.

Che bello sarebbe se anche nel resto della vita lasciassi andare l’apprensione, lo sgomento.

Chissà come si vivrebbe, mi dico, ad avere meno paura.

Del tempo soprattutto. Se ci si convincesse che non è la quantità ma la sua percezione a determinarne l’utilizzo e ad incrementarne la qualità. Se non si nutrisse timore di sorta, se non gli si desse da bere o da mangiare cosa accadrebbe?

Ma per quanto scriverlo risulti lineare credo sia un muscolo da utilizzare mille volte prima di riuscire a padroneggiarlo, se non proprio pienamente, almeno in modo sufficiente.

Guardo Sousuke, i due passi, a volte tre, talvolta quattro che fa prima di cadere. L’esperienza insegna a questo bimbo di poco più di un anno ad esser cauto, ma non tanto da lasciarlo immobile a guardare. Il mondo lui vuole afferrarlo e si rimette in piedi, e fa un altro passo.

Tutto il mondo gli appare degno di attenzione.

dsc01722La paura non lo blocca. Proprio la mancanza di paura, semmai, lo mette in pericolo perchè è superata immensamente dalla gioia d’essere lì in quel momento a viversi la vita che neppure sa d’avere.

Mi domando allora se esista un anno, forse un grappolo di mesi nella crescita di un uomo o di una donna che trovi l’equilibrio tra l’avventatezza dell’infanzia e la prudenza della maturità. Mi rispondo che no, probabilmente non esiste. Che impariamo ad assorbire le cose nella precisa visione che assume agli occhi di chi per primo ce le porge e ce le insegna. È piuttosto un compito per casa, da portarsi dietro tutto l’anno, specialmente durante le vacanze, quando si ha un po’ più di tempo per pensare a cosa ci piacerebbe fare del nostro animo spesso sofferente, a cosa aiuterebbe il nostro umore traballante a decollare.

  dsc01693E allora provare a dire quando si vorrebbe dire no; per chi teme le bestiole, provare ad allungare una mano verso ogni cane che si incontri per la strada; per chi teme di volare, prenotare una trafila di viaggi che includano una o più ore da trascorrere in aereo; per chi teme il giudizio altrui, porvisi di fronte, fieri di starsi sperimentando, collaudando nel sentire.

  Le prime volte si cadrà, si sbatterà anche la testa. Ma poi che gioia camminare! Che sensazione stupefacente correre persino!

 A farselo amico il Tempo è sempre dalla nostra.

♪ Opus Orange “Almost there”

「音風景」 o del patrimonio sonoro del Giappone (上)

Che rumore fa un mare di ghiaccio che si spezza in migliaia di frammenti? Basta recarsi nell’est dell’Hokkaido tra la fine di gennaio e la metà di marzo per udire la melodia di cristalli che cozzano tra loro, lo stridere e sbriciolarsi delle banchise che dalla Siberia calano nel Mare di Okhotsk. È vita brulicante di plancton che danno infinito nutrimento alle creature di quell’ammasso rigoglioso d’acqua.

DSC01223Quale la voce dei gabbiani dalla coda nera che abitano l’isola di Kabushima nella Prefettura di Aomori, che ogni anno in maggio si fa brillante del giallo intenso dei fiori di colza? In giapponese vengono chiamati ウミネコ/umineko/ (ovvero, letteralmente, “gatti di mare”) perchè producono un suono simile ad un miagolio che, curiosamente, in giapponese somiglia tanto all’onomatopea che attribuiamo invece in italiano a questo animale: 「ミャーオ、ミャーオ」 /miaao miaao/. E a giugno, quando si schiudono le uova covate tra aprile e maggio, l’isola tutta, nella scalinata preceduta da torii scarlatti che conducono al Santuario di Kabushima, si riempie di piccoletti dal passo esitante.

/Riiin riiin riiin/ 「リイーン」canta l’insetto suzumushi che nel suono s’avvicina al vibrare lieve d’una campanella. La gente di Miyagino nella Prefettura di Miyagi protegge da sempre questo insetto, caro nell’immaginario dei giapponesi fin dall’Epoca Heian e citato finanche nel Genji monogatari con il nome di「鈴虫」 ovvero letteralmente “insetto-campanella”. Basta tendere l’orecchio nelle notti d’autunno per avvertire la melodia delicata della sua voce.

DSC01657Chissà poi che meraviglia sentire il vento attraversare la banchina del treno in arrivo alla stazione di Mizusawa nella Prefettura di Iwate dove, dal primo di giugno al trentuno di agosto, al soffitto vengono appese 1500 campanelle 「風鈴」/fūrin/. Ad udirle, nello scintillio picchiettante di quel「リーン、リーン、チリリーン」 /riin, riin, chiririin/ che dura da cinquantatrè anni, si avverte il trascorrere stesso dell’estate, della rara tregua che offre.

Nel 1996 è stato annunciato dal Ministero dell’Ambiente giapponese un bando nazionale per la raccolta di paesaggi sonori. Accadde all’indomani del Terremoto di Kobe che fece migliaia di vittime, dell’attacco terroristico a Tokyo con il gas sarin che sconvolse milioni di persone colpevoli d’essere intente semplicemente nella propria routine, in un periodo di profonda insicurezza per il paese che si trovava ad affrontare una crisi e insieme la volontà di conservare e preservare la memoria di certi luoghi e delle sensazioni tessute fitte fitte nella trama di quei posti.

DSC01650Ne vennero selezionati 100 ed ora il Giappone possiede 100 「音風景」 /otofūkē/, ovvero “paesaggi sonori”

Quando tutto si svela nella sua labilità, nella contingenza assoluta delle vite, nella friabilità dei paesaggi urbani e naturali, delle case che nascono per proteggerci e finiscono per ucciderci, chi resta esiste nel desiderio di resuscitare lo spirito dei luoghi, di riconoscersi negli spazi che si amavano e che, sparendo, li hanno traditi. Tutto quanto viene “dopo” è impregnato del passato più di quanto non dovrebbe, più di quanto non è fatto un normale presente. E il rimando a ciò che era e non è più, è un continuo patimento.

È dolce allora riscoprirsi solidi nelle radici, resistenti nell’amore e non nell’odio, per i paesaggi che abitiamo ma che, nonostante l’illusione politica dell’uomo, nessuno di noi possiede veramente. È un continuo prestito la terra, così le città e i paesi che abbiamo costruito.

Si vive come sassolini sul fondo di un fiume, trascinati dalle correnti, dai mulinelli che sconvolgono la disposizione delle cose, in balia d’un qualche cambiamento che interviene e cambia tutto. Basta un forte temporale perchè l’acqua straripi dal suo letto e mieta non vita bensì morte.

Dopo ogni disastro si raccimola il recuperabile, consapevoli in fondo che la natura non ha colpa. Esiste, vive anch’essa e si muove senza sosta, e talvolta ha bisogno anzi di scrollarsi di dosso il peso di millenni, di riaggiustare le fondamenta di questo mondo infestato d’esseri umani.

Ma ecco che, nonostante tutta questa insicurezza del vivere, nel suono ci si riesce a ritrovare. In questa lista di cento passaggi sonori del Giappone, catalogati e separati in tre unità –〈生き物の音〉 /ikimono no oto/ “suoni di esseri viventi”, 〈自然の音〉 /shizen no oto/”suoni della natura”, 〈生活文化の音〉 /seikatsubunka no oto/ “suoni della vita culturale” – c’è ad esempio anche il rintocco di certe campane, il macinare metro su metro di un piccolo treno delizioso che ferisce una vallata o le onde che si frangono sulla battigia di Enshūnada nella Prefettura di Shizuoka

DSC01648「コツコツ」 /kotsu kotsu/ canta il legno intagliato dalle abili mani degli artigiani di Inami nella Prefettura di Fukuyama che nel sottrarre riccioli e nel levigare aumentano il volume di sculture la cui arte risale la corrente di più di seicento anni; ci sono i giochi d’acqua sul fiume Yoshidagawa a Gujō nella Prefettura di Gifu, in cui si gettano i bambini andando a formar pose che l’iconografia del salto riconosce e benedice, le ginocchia piegate all’indietro, le braccia alzate in abbandono. Il suono da preservare, per la gente che abita quei luoghi, non è tanto quello dell’acqua che si schianta, ma quello delle grida dei bambini un attimo prima di lanciarsi: 「えいっ」 /ei/.

Penso allora che sarebbe bello che ogni frazione stilasse la propria lista di paesaggi sonori, che anche nella nostra Italia che trabocca di bellezza le persone inviassero lettere a suggerire scorci di minuti borghi, di quel vicolo dei baci attraverso cui strilla il vento a Taormina, il ruminare delle mucche in campi battuti dal sole, lo sciabordio delle gondole a Venezia, una collinetta anonima a tutti dove saltano dei grilli, rovi pieni di more e mirtilli che uccellini cinguettanti vanno a beccare, le campane domenicali di certi paesini arroccati sul nulla, la pioggia quando scivola dai tetti in un angolo di Piemonte o di Liguria, l’eco da soprano o da tenore di certe vallate. Penso ai piccoli centri, soprattutto, dove la cura del pubblico e privato sembrano avvicinarsi più di quanto non accada nelle grandi città che sono di tutti e, per questo, troppo spesso di nessuno.

DSC01222Penso ancora, e tanto più in questi giorni, a voci silenziate per sempre, al rumore di passi su stradine ora ricolme di macerie, cinguettii di bimbi dal rettangolo d’una finestra spalancata, sussurri d’amanti e parole gridate in litigi pieni di passione. Ecco, mi sembra di vedere la signora del bar che sbatte le tazze traboccanti di latte e caffè sul ripiano di marmo, le vetrine di negozi lucidate adagio adagio con una pezzetta dai commessi, mentre il sole prende alle spalle e acceca loro ed i passanti nel riflesso.

Immagino tutto questo sbriciolarsi e nel palmo restare solo pezzetti di quanto è stato, granelli di pane con cui cercare spesso invano di trovare un viottolo scalcinato che conduca verso casa, come Hansel e come Gretel che, in fondo non erano che bambini spaventati, desiderosi solo di tornare tra le braccia del padre.

Un paesaggio sonoro forse può riuscirci. A preservare la memoria di certi scorci, a impegnarsi perchè resistano nel tempo, a riportare a casa un cuore spezzato e a ricucirlo, pezzo dopo pezzo.

*Testo di riferimento:

環境省/選、一生に一度は行きたい『日本の100音風景』、2014年、小学館