「有難迷惑」 o dell’egoistico altruismo

 È 「半夏生ず」 /hangeshōzu/, una micro stagione delle settantadue del calendario tradizionale giapponese che va dal primo al sei di luglio.
È la metà dell’estate che vede i campi di riso raggiungere la maturità. È il trapianto del riso che si chiude, un nodo agrario che si scioglie.
È il sinuoso grongo nel Kanto e nel Kansai, dove esplode nella tradizione del Gion Matsuri a Kyoto, i tentacoli bolliti del polpo che richiamano le radici del riso che si piantano forti e serpentine nel terreno, gli udon come ringraziamento per il lavoro di mietitura del frumento nella regione di Kagawa e che si tramuta in un giorno dedicato 「うどんの日」/udon no hi/ “il giorno degli udon”, così come altrove coincide invece con 「蛸の日」/tako no hi/ “il giorno del polpo”.

Con tutte le varianti di questa affascinante stagione, ecco la “pioggia di mezza estate” 「半夏雨」/hangeame/ che si traduce in giorno di riposo e ringraziamento per l’anno di cura e di fatica che ha portato al raccolto, e prima ancora ecco「麦雨」 /bakuu/, letteralmente “la pioggia del frumento”, chiamata così – con il carattere di precipitazione preceduto da quello di grano – perché cade proprio nel periodo della maturazione del grano.

Ed è bello immaginare acqua color del grano, o minuti chicchi e brattee di spighe, a benedire scrosciando la terra.
Ogni lingua ha le sue parole dedicate, la tradizione a ravvivarle ed attualizzarle, l’uso le conserva o le fa deperire, la scrittura (talvolta la nostalgia) le riscopre.

E in tutto questo svolgersi di tradizioni, riflettendo sul nascere della metà di stagione e sulla permeante cultura che rapporta l’uomo e la natura, io inauguro una nuova scrittura sul web che intitolo Di madre In madre, ed è progetto cui tengo moltissimo e che mi guiderà per i prossimi nove mesi nella genitorialità, nell’universo spesso distopico (davvero!) della maternità, come un nodo scorsoio di cui maggiore è il desiderio di liberarsi, maggiore la stretta che causa.

Giungerà a conclusione poco dopo l’uscita del secondo libro che verrò a presentare in Italia tra febbraio e marzo, e poi nuovamente in estate, tra agosto e settembre, – e con una puntata eventuale e fulminea a maggio, se un certo progetto si realizza come spero.

Giappone, ma non soltanto, perché nonostante le palesi variazioni nell’apprendere e diffondere il “verbo” del legame materno, nessuno ne è immune, sia in termini di genitorialità che in quello d’esser figli, nella parentela diversamente vissuta, nella presenza così come anche nell’assenza. Nei tanti sentimenti facilmente fraintesi, in quelli indecifrabili anche su di sé.

  Il giapponese è pieno di parole. E le parole hanno la funzione di disperdere perplessità o, a seconda dei casi, di infittire l’ordito del senso.
Così, tra le tante, questa è una su cui mi soffermo di recente. È una nuova parola composta che racconta l’altruismo, la gentilezza che è sempre benvenuta, o almeno quasi sempre. E nel quasi si gioca la sfumatura che piega e infine ribalta tutto il concetto di altruismo.
È 「有難迷惑」 /arigatameiwaku/, termine che abbina due sentimenti contrastanti solo in apparenza: la riconoscenza ed il fastidio.

 In essa c’è 「ありがとう」 /arigatō/, 「有難い」 /arigatai/, il grazie, l’inchino di cuore, la consapevolezza di quanto le intenzioni altrui siano luminose. Eppure vi si accompagna 「迷惑」 /meiwaku/ ovvero  il fastidiol’irritazione, il risvolto dell’eccesso e della mancata consonanza di desiderio tra chi riceve e chi dà.

 È la macchina che nel vicoletto, per una forma di cautela eccessiva, invece che passare oltre lentamente, si ferma totalmente, in attesa che a nostra volta sostiamo in un isolotto di spazio costringendoci a fermarci.

 È l’offerta d’aiuto per qualcosa che preferiremmo far da noi. La spiegazione approfondita di  una cosa che non ci interessava sapere affatto. L’essere accompagnati in macchina quando avremmo voluto andare a piedi. La telefonata di conforto quando il conforto lo rinveniamo più nel silenzio che nella parola.

 Per me soprattutto sono i doni, le cose materiali che francamente detesto, in quanto le vedo innanzi tutto come possessori di volume. Senza alcun senso di colpa getto via quanto non mi serve e non ho chiesto. La casa è piccina picciò, lo dichiaro apertamente. E chi, nonostante ciò, insiste nel darmi, esercita non una gentilezza ma una violenza, un atto d’egoismo che tanto ha a che fare con la gioia del donare e tanto poco con l’immaginare l’altro felice di accettare.

 Capisco la spinta – io stessa per lunghissimo tempo e prima di calarmi in questa cultura della moderazione e del “leggere l’aria”, ne sono stata affetta – ma la trovo ad oggi poco matura. Il Saggio sul dono di Marcel Mauss, sui vincoli che si trascina il regalo (il quale sottintende la creazione più o meno voluminosa, e aggiungerei, più o meno consapevole, d’un debito), è illuminante a distanza ancora di quasi settant’anni.

Così la vicina di casa, che ci consegna cibo preparato con le sue mani. E in un altro momento sarebbe un regalo ma adesso, che cerco di non avere nella credenza null’altro che quello che compro proprio per evitare di dar corso alla fame – che in gravidanza nasce d’un tratto e a fatica si ripara – mi risulta d’impaccio.

「有難迷惑」 /arigatameiwaku/ nel dire grazie e pensare invece “uffa!”.

 È l’insipienza dell’altruismo, un’ottusità che pare piuttosto concentrarsi sul gesto e non sull’accoglienza reale che quel gesto avrà.

 Ci si vanta spesso d’essere gentili, generosi ma… davvero stiamo dando all’altro quanto desiderava?
Se non si soddisfa questa precisa condizione si sbriciola la generosità in supponenza, l’altruismo tocca il suo estremo opposto. Anche perché dietro il dare si nasconde il desiderio spesso inconscio, a volte compulsivo, di ricevere in cambio. Che sia anche solo fatto di altrettanta presenza, parole, gentilezza. Ed ecco che l’arigatameiwaku fa capolino con tutto il disagio che comporta.

 Ryosuke, figlio della propria cultura, da sempre mi insegna che ricevere è un dono tanto quanto dare. E che nel disfarsi successivo, ovviamente taciuto, di quel che si è proprio malgrado ricevuto, non deve esserci senso di colpa.

 Ecco allora che「有難迷惑」 /arigatameiwaku/ è una parola che diverte ma che ha anche una sua profondità, perché spiega come non esista una gentilezza in generale, spendibile con chiunque e in qualunque contesto. Ribadisce come ogni cosa trovi la propria misura in quella accanto.

 Non esiste insomma un gesto generoso in assoluto, non se chi lo riceve è meno felice di chi lo compie.

Imbarazzo dello sguardo

Un uomo accovacciato a terra, le mani che scompaiono al di là di un cancello. Un cagnolino che raccoglie la semina di tenerezze.
Adoro osservare questi piccoli quadretti cittadini.
Basta fermarsi, in bicicletta o a piedi che sia, e il quadro è lì.
Poi basterebbe tirare fuori la macchina fotografica per conservarlo sempre nella memoria (quasi) così come era.

Ma subentra un imbarazzo che avverto ancor prima del Giappone. Che certe cose non vadano rubate. E ad essere scoperti si fa sentire gli altri studiati. Magari, a loro volta, imbarazzati. Sbagliati addirittura.

Allora trattengo l’impulso e trasformo l’immagine in parole. Il ricordo si fa vivido comunque.

Mi chiedo sempre quale sia il limitare della privacy, l’inizio dell’intrusione, l’omaggio e l’affetto verso la realtà che ci circonda.
Quando scrivo, anche di storie un poco oscene, non mi sento in colpa. Posso camuffare ogni dettaglio distintivo, posso deprivare i protagonisti di un nome e attribuirne loro un altro. Ma con la realtà bisogna essere più cauti.

E se c’è qualcosa che amo profondamente di questo paese è la delicatezza dei rapporti, che sbocciano col tempo. Tanto tempo. E son discreti.
E nessuno scatto vale rovinarli~♥

甘える o del farsi coccolare

Tenero risveglio, è lunedì. Sul futon con Sousuke a giocare un’ora, forse più. Lui che impara la portata degli abbracci, le effusioni che si apprendono con l’età e la cultura della madre e poi del padre. Guancia guancia, naso naso.

E poi dita che si impiastricciano di nomi e indicando strillano con volume impreciso della voce dove è l’occhio, dove l’orecchio, la fronte, il mento e così via.

Il mio bimbo cresce e impara ad abbracciare. Nessuno lo immagina forse, io almeno lo ignoravo, ma cose ovvie per gli adulti, giungono per loro nel tempo richiesto. Da loro, non da te.
E in questi giorni di estrema stanchezza, è così bello abbandonarsi alle brevissime chele di Sousuke. Che sorride, talvolta non capisce, ma ama. Nel modo migliore che ha. Migliore se non altro del mio.

Tempo molle, che si tira come un elastico che non farà che cedere alla fatica delle dita. Sarà arrendevole, tra noi.

Sousuke agita la bottiglietta, nelle bolle vede pesci il mio bimbo. Lo affascina il suono, almeno quanto interpretare le sue visioni affascina me.

Coccolare, del resto, significa imparare del corpo la comunicazione eletta, la mollica del pane, del cibo il consumare con la gioia.

Scelgo periodicamente chi amare, costa tempo, costa impegno, costa fatica. E con la vita che scelgo, che adoro ma trabocca di pensieri, di letture, di parole ascoltate più che dette, con nuovi campi di studi in cui gettarmi, non posso che essere severa.
Amare per altruismo non mi riesce. Amo, intensamente, ma pochissime persone. Così poche che forse sono solo quattro o cinque. E rinnovo in me, periodicamente la domanda. La/lo amo? Perché?

E se la qualità del mio sentimento è scadente, è giusto che finisca. Per me che non mi piaccio a dare poco e male, per l’altro che non merita i miei scarti, per tutti e due.

Da quando in Giappone sono madre, certe parole ricorrono frequenti, se ne colora il senso.

Come 「あまえる」, che ritrovo anche in una delle letture di questi giorni, L’Atlante delle Emozioni Umane di Tiffany Watt Smith (Edizioni Utet). Un libro molto grazioso, sulla scia dei tanti scaturiti dall’intraducibilità di spezzoni di lingue.

Pur non conoscendo questa lingua, la scrittrice tenta di spiegare il sentimento che definisce “amae”, rifacendosi al saggio di Doi Takeo Anatomia della dipendenza.

Amae ha una assonanza tanto bella con il nostro amare che, però, più che amore in generale è la ricezione dello stesso. Senza condizioni da rispettare, senza ma e senza se.

È l’essere viziati da qualcuno che non si attende nulla in cambio, il rilassarsi grazie all’intercessione di una persona che è disposta ad accontentare i nostri più spiccioli capricci. Ed il viziare non ha accezione negativa in questo caso. È questo ciò che rende speciale il verbo amaeru.

Per me che sono allergica agli obblighi familiari od amicali, detesto i regali e il dovere dell’affetto, il Giappone è quanto di meglio esista. Il senso di colpa nella non frequentazione non esiste, i legami familiari non stringono strozzando, ma rendono liberi piuttosto. La qualità resta sempre alta, ben distribuita nel dare.
Perchè quel che si dà, in fin dei conti, è donato veramente.

Per un italiano abituato all’emozione sempre rinnovata, ad una frequentazione intensa, quasi appiccicosa, questo modello di relazione può turbare, lasciare perlomeno un po’ perplessi. Ci si domanda se l’amore sia davvero esercitato, se la densità non sia la misura di valore.

Ma se di qualcosa sono certa, è che la densità non mi appartiene, e se la sento esercitata come un’arma la sospetto. Ci vuole un’intelligenza che conosce il calibrare, la proporzione delle cose e del sentire.

E so che con Ryosuke, con la sua adorabile famiglia, posso veramente avvertire la portata di questo verbo pieno, rarissimo: 「甘える」 /amaeru/.

Anche per questo motivo ritengo non sia facile stringere rapporti d’amicizia profondi con i giapponesi, non nelle tempistiche perlomeno che conosce l’occidente. Li si taccia spesso di freddezza, di invisibile distanza. Ma è questo che ci distingue. Quando si entra non si esce. Quando si entra veramente non c’è più il rischio (elevato) di trovarsi male in quel rapporto.

Amaeru è verbo di dolcezza, c’è del resto l’aggettivo nelle radici dell’arbusto. 「甘い」 /amai/ significa “dolce”.
E non sempre è un complimento. Una visione può essere anche amai e, in quel caso, se lo è il progettarsi il futuro, la reazione di qualcuno, l’aspettativa eccessivamente positiva di qualcosa, ecco che lì significa peccare di ingenuità, di non essere in possesso di una visione ben strutturata e razionale delle cose.

 E come il troppo dolce, che quando riferito a un dessert è per esempio negativo, un pleonasmo, in quanto il dessert si suppone sia già dolce e quella qualità risulta un rinforzamento innecessario. Al contrario amai se riferito alla frutta o a certi ortaggi è chiaramente positivo.

Il troppo, nella cultura giapponese, stroppia sempre. La ridondanza non è mai apprezzata.

Volgare è ritenuta la manifestazione accesa dell’amore, come quella della rabbia, la generosità gridata ai quattro venti, così come la purezza presunta del proprio cuore. Quanto esiste, ed è davvero, troverà la sua manifestazione più corretta, si vedrà, senza bisogno di annunciarlo.

La dolcezza, insomma, pare dire questo verbo giapponese più complesso di quanto non sembri a prima vista, va distribuita con cautela.

E con cautela ricevuta.

読む o di una torta che non fa ingrassare

 Correndo di stazione in stazione, ciò che era rosa solo un paio di settimane fa ora è verde, il fiore lascia il posto alla foglia, l’instabile voluminosità dei ciliegi arretra in favore d’un passo, si tramuta in un paesaggio più fermo di rami e fogliame. Siamo a un passo dalla Golden Week. Un passo già compiuto per alcuni.
Lungo le rotaie dei treni papaveri in fiore, agli orli delle strade chiazze di colore. E volenterosi uomini e donne strappano erbacce, muniti di falcetti s’affannano a vincere la lotta della natura che prende splendore.

 Non solo case private, muri di casette, ma anche cigli delle strade, suolo pubblico.
Perché in Giappone “quello che è di tutti è anche mio” ed ha persino più valore di quanto mi appartiene, solo, di diritto e proprietà.

 Mentre scrivo, sul convoglio il pianto di un neonato continua costante, ininterrotto. Non è il fastidio dell’orecchio ma la pena del cuore, che non tollera il pericolo d’un urlo che continua così a lungo. Ancora un mucchietto di settimane e la nostra casa, di questo pianto declinato in più necessità, traboccherà.

 Pur dislocata fermamente nel mondo giapponese, a seconda di quanto mi interessa, mi ritrovo nell’Italia della lettura, nello scrivere che, grazie ad un formidabile incontro, riprende ad avere più d’una meta.
Porto a lezione i dati Istat 2016 sulla lettura, mi indigno lì dove mi riservo dello spazio di azione, mi intristisco per le conseguenze a lungo termine che immagino verificarsi al mio paese, come presagi di spietata esattezza. Perché un popolo che non legge è un popolo che mostra il fianco a chi lo vuole sfruttare.
 Un uomo che non legge è un uomo inerme, in balia del furbo di turno. Sia che si tratti del politico trombone, del commerciante disonesto, dell’amante violento.

 Chissà, forse un tempo il parlare e l’ascoltare soprattutto, compensavano un poco la saggezza diminuita di chi ha solo un’opinione o di chi si condanna a replicare sempre un rassegnato ‘non lo so’.
Ma oggi?

 Serve allora un elogio alla lettura, uno sentito, che convinca anche un poco che essa è un tale piacere che chi la conosce sa che è come la torta più buona del mondo che invece di farti ingrassare e alzarti il colesterolo, ti fa dimagrire, fa bene al corpo e ti rende persino più bello.

Leggere scrive la terra, incide la strada che naturalmente i nostri passi percorreranno. La asfalta all’occorrenza, che si possa prendere una bicicletta e scenderla di corsa come pioggia. Oppure ne conserva pietruzze, per serbare il piacere dell’avventura, della scossa.

Leggere insegna la diversità, che non sempre paradossalmente la vita riesce a mostrare. Scegliamo, ci ritagliamo certi tipi di strada. Nulla è meno ovvio di quello che ogni giorno decidiamo di fare. Di noi, del nostro tempo.

Leggere scardina abitudini, procura all’occorrenza il coraggio per cambiarsi la vita. Se lo hanno fatto altri, perché io no?

Fa di un fiume una via verso il mare, per quanto esile sia il suo corso iniziale.

Nei romanzi leggi di esperienze accadute, ti senti un po’ meno solo nelle sventure. Incoraggiato, quando un libro dipinge con perizia la vita, nel modo equilibrato che dose la fortuna e la sfiga e immerge entrambe nell’umore soggettivo che, davvero, regola ogni cosa. Perché come ti vedi sarai.

Leggere facilita il sorgere di un’opinione, una che non sia stata già abusata da altri. Non ti mette neppure fretta nell’esprimerla, perché impari che le opinioni vanno “formate” e che, a qualunque cosa si voglia attribuire una forma, è importante concedere il tempo di costruirsela per bene, con calma.

In quest’epoca di parole sprecate, dove ognuno si sente in obbligo e insieme in diritto d’una opinione, la differenza tra chi quell’idea l’ha edificata con solide fondamenta e chi l’ha raffazzonata con gli scarti d’una vita vissuta con poca consapevolezza, si avverte.

Leggere ti evita certi errori elementari, dalle conseguenze talvolta brutali.

Ti evita inoltre di adeguarti quando sei in dubbio, perché tu, solo, forte dei pareri edificati pezzo per pezzo, sei certo di poter trovare una via e, in caso, di saper valutare di quale fidarti.

Leggere rende intelligenti, svelti. Ti fa venire voglia di sapere e, sapendo, di insegnare ad altri e, soprattutto, di insegnare te stesso agli altri. Amplifica la competenza linguistica, allarga il vocabolario. Ti regala parole per dire, per raccontarti, ma anche per non dire ciò che non vuoi.

Più parole si hanno a disposizione, più pensieri si riescono ad elaborare. Più soluzioni ai problemi si possono contrastare.

In giapponese lettura si dice 「読書」 /dokusho/, e libro 「本」 /hon/ mentre il verbo leggere è 「読む」 /yomu/, tre parole che mi inseguono sempre. E mi tengono una compagnia stabile, sicura, non soggetta a strappi né spiacevolezza.
Miura Ayako  (三浦綾子) scriveva che la lettura è una cosa che, a seconda del momento, presenta nel modo di percepirla un doppio spessore, della profondità e della superficialità. Che, a seconda del contesto, dell’ambiente in cui ci si trova in quel preciso momento, il modo di leggere – e pertanto anche di capire qualcosa – raggiunge la profondità o resta in superficie.

「読書というものは、その時に応じて読み方に深浅がある。自分のその時に置かれた環境で、読み方が深くなったり、浅くなったりする。」

 Ed io mi accorgo di quanto mi parlino i libri, di come a seconda del tempo mi insegnino cose diverse, proprio come certe splendide persone.
L’ho scritto tempo fa, lo ripeto. Che uno dei motivi di base per cui leggo è il principio per cui, come declama in un imperativo informale un detto italiano, è bene frequentare chi è meglio di sé.

 “Sì, Laura, frequenta chi è meglio di te!”
E nei libri trovi il meglio di quanto una persona abbia da dare. Grandi menti con cui dialogare.
Va bene la rassicurazione perenne, l’affetto votato alla semplicità, ma la vita purtroppo non è una cosa da principianti. È un mucchio di costanti complicazioni, piuttosto, e parla una lingua che evolve, al di là delle nostre capacità e della nostra velocità.

 Torna il concetto di 「型」 kata per cui, una volta che sai, e sai molto bene, puoi cambiare le cose, non rischiare quasi nulla anche quando può sembrare un azzardo. E allora leggere ti permette di percepire la rete, l’architettura delle fila che hai intorno, e insieme di trovare il punto preciso dove tagliarla e trovare infine la semplicità – che, per inciso, non è né caso né ingenuità, ma vero valore.

♫ René Aubry – Salento

Inizio, rottura, rapidità

S’insinua aria di primavera dalla porta, i giardini delle case si popolano di fiori, l’aria prende l’odore della stagione che già c’era ma non si mostrava chiaramente.

Il Giappone si prepara al grande appuntamento dei ciliegi, apparecchia le sue strade, accende d’un rosa preventivo i negozi, i menù dei ristoranti. Prima che un albero e dei fiori, il ciliegio è l’idea di qualcosa di bello che verrà.

Nasco in Italia, scrivo in questa lingua ma il Giappone è casa mia.
Ed ogni slargo, ogni incrocio sono come un pezzo di cucina, il lato in ombra del salotto, la camera da letto affogata nella luce. Ed ogni stanza in cui appoggio il corpo o lo lascio semplicemente transitare, è dotata d’uno specchio. E mi guardo riflessa in lui, e nelle esitazioni, e nelle certezze di questa cultura mite, scopro nuovi modi d’essere e di dire.

Ed ecco che ora ho il dottorato, sì ce l’ho, l’agognato PhD, e un altro occhio di daruma è colorato.

Ed ecco che la pubblicazione del nuovo libro è fissata, inizio 2018, quando il nuovo bimbo sarà uscito dalla pancia e scorrazzerà con Sousuke nella casa, e così un altro daruma ancora, il più piccino, avrà lo sguardo fermo e deciso che auguro superi in linea retta quello mio e di Ryosuke e si accompagni a quello del fratello, nel futuro che sarà solo loro, oltre di noi.

Ed altro, di immenso, che resta nella bocca, ed è un segreto. Che per raggiungere le dita, le parole hanno bisogno di qualcosa di più. Ma marzo è stato un mese sorprendente per moltissime cose e mi ha insegnato che la pazienza, per esempio, va esercitata ma non troppo. Che può assumere limiti che, una volta oltrepassati, non lasciano spazio a un solo passo indietro. E ancora, ho compreso che la stanchezza serve ad ogni passo. Formula nel tempo una risposta che alla fine risulta la più efficace.

Imparo anche una parola, tre kanji stretti per mano:「序破急」 /johakyū/.

Si tratta di un concetto applicato alle arti giapponesi tradizionali, il cadenzare le fasi e le velocità che regolano la successione dei gesti. Lo spezzarsi in fasi e micro-fasi d’ogni parte d’una musica o rappresentazione teatrale, disciplina marziale, poetica o narrativa.

Eppure, come mi trovo a credere spesso, non c’è concetto davvero robusto ed efficace che non trovi applicazione anche altrove e non dimostri la sua giustezza fuori dal contesto che l’ha partorito.

 Le cose di valore, come le persone del resto, sono sempre un’aggiunta, un valore.

Ed ecco che in 「序破急」 /johakyū/ – che significa in jo l’inizio, l’inaugurarsi, in ha la rottura, lo spezzarsi e insieme lo sviluppo, e in kyū che è l’improvviso, la rapidità – vi si espande moltissimo altro.

Vi leggo la modulazione del movimento che, più sarà preciso, più saprà declinarsi in ogni direzione, in quella soprattutto della propria volontà. Pare un paradosso, che si riscontra di frequente nella filosofia giapponese, perché la parte soggiogata all’ambiente che la partorisce, complice l’intelligenza che assorbe senza farsi mortificare, riesce a deviare, ad allontanarsi, diverge dalla regola che la vorrebbe formalmente sempre uguale a se stessa, allineata.

Ed ecco che l’inizio, il jo, sarà lento, un pacato apprendere la via, guardarsi intorno, e poi, solo una volta appreso il necessario, si spezzerà in un ha e scoppierà come fuochi d’artificio in una accelerazione, in un kyū, che di folle non ha nulla, bensì sarà altrettanto ponderato ma fulminante. E tutto questo, questa velocità, accadrà perché la strada del jo ormai la si conoscerà come le proprie tasche.

 Iniziando per bene, con la giusta lentezza e con la giusta aderenza alla regola, si saprà ormai perfettamnete dove si può, si saprà cosa non si può, quando è meglio, perché è il caso … e allora non si sbaglierà nello spezzarsi e nell’affrettarsi.

E l’effetto finale – dopo un principio calmo, un assorbimento puntuale e paziente, un interrompersi consapevole e non emotivo, un accelerare conclusivo 「序破急」 – sarà dolce.

Lì dove c’è stata la fatica ci sarà probabilmente il riposo, dove la semina arriverà la raccolta, la pioggia avrà sedimentato e quanto ne uscirà sarà una solidità che un invertire dei momenti non avrebbe mai permesso.

Questo spazio nei prossimi mesi muterà. Evolverà graficamente, per accogliere Giappone e non Giappone. La via che, grazie ad alcune importantissime scelte fatte di recente, ad alcuni incontri fulminanti giunti dopo un lunghissimo periodo di stanca, mi si apre finalmente.

Spero tanto vi piacerà.