却来 o del migrare da uno Stato d’Animo a un altro

Mi imbatto spesso in parole misteriose. Accade quando cerco qualcosa e mi si apre un’altra finestra, quando l’occhio supera una linea nel dizionario e salta su una poco più giù o più su, quando una assonanza di kanji mi rinvia a un termine di cui non ero certo alla ricerca. E come tutto quanto “non si cercava ma accade”, lo accolgo con meraviglia.

Non sempre annoto queste parole, faccio come quei coraggiosi scrittori e cantautori che, fidandosi della propria memoria, credono che una buona idea sia destinata a tornare, altrimenti è giusto svanisca.

Ci sono termini sconosciuti che il vocabolario monolingue spiega veloce, e che invece il dizionario dal giapponese ad altre lingue ignora del tutto. Salta la corda, le lascia fuori dal cerchio.

Ed ecco kyakurai, stamattina, infilarsi nella mia vita dopo una lunga passeggiata tra mare e templi, in cui scarpe già molto consunte e una borsa macchiata qui e là, mi portano alle spalle del Grande Buddha. Cercavo l’etimologia di karyūkai  花柳界 ovvero il “mondo dei fiori e dei salici”, lì dove i fiori erano le prostitute e i salici le geisha nei quartieri di piacere del Giappone antico.

Ho sbagliato però l’ordine delle sillabe ed è venuto a me questo termine desueto.

Kyakurai 脚来 è infatti parola rarissima, che nessuno utilizza. Emerge nel vocabolario come una voce sola, che si erge in un tempo che non c’è più e che non tornerà. Eppure è bellissima la definizione

「ある境地に達した後に、またもとも境地にたちかえること」 ovvero “dopo essere giunti a un certo stato d’animo, tornare di nuovo allo stato mentale precedente”.

Lo è nella poesia, nei recitativi del teatro Nō.

Kyaku 脚 è il kanji di “indietreggiare, ritirarsi, retrocedere, cedere passi”. Rai 来 è “venire, giungere, avvicinarsi qui”, a noi che definiamo nella frase il punto di vista.

 Giungere nello Stato dell’Animo, arretrare, fare un’inversione a U. Riannodare i propri passi e tornare allo Stato che, all’inizio, ci accoglieva, in cui abitavamo.

Mentre mi infilo in stradine gorgoglianti, fiumiciattoli ai piedi, pareti di vegetazione sul fianco delle montagne, rifletto sul fatto che forse è bello parere sempre una turista.

Lo sono per via del mio aspetto occidentale, per le movenze del corpo, per le proporzioni, quelle stesse che in tanti anni di vita in Giappone mi rendono ormai subito riconoscibile uno straniero, anche quando è di spalle.

Non me la prendo, non ho nulla da dimostrare. Anzi, a esser turisti si comunica forse la gioia della scoperta, della pausa, dell’inedito che scarta, e indaga la realtà che mostra il punto più molle, perché allegro, senza le spine della routine che usura. Si è come nuovi di zecca quando si viaggia. Nulla rivela il passato della nostra creazione. Potremmo esser liberi da pensieri, esenti da ogni stortura. Proprietari di vite scintillanti.

Mi rifletto in quegli sguardi un poco distanti, compiaciuti di dispensare la bellezza dei luoghi in cui vivono loro, indulgenti perché “lei non ne conosce la fatica”, “ ei non parla la lingua”. Così devo sembrare mentre a grandi falcate e repentine interruzioni attraverso Kamakura e Tōkyō.

Godo di ogni santuario, di ogni asilo che apre negli strilli dei bimbi, i saluti dalla soglia delle madri e della nonne, i papà con i piccoli sul sedile della bicicletta.

Mi faccio contagiare da quello sguardo ogni mattina, in qualunque parte del Giappone io sia. Cammino, mi scopro turista della mia bellissima vita. Torno a casa che i bimbi, i miei, si sono svegliati, il padre tiene il più piccolo in braccio e ognuno, ha in bocca uno spazzolino.

L’altro è a terra, nella prospettiva migliore per guardare i suoi trenini sfrecciare sui blocchi di gomma che attutiscono le cadute, i passi esitanti del piccolo, quelli esuberabti del grande.

Infilando le scarpe, con Sousuke, Emilio giunge barcollando all’ingresso. Sousuke gli struscia le labbra sul capino, “Ciao Binbo” gli dice, schioccando un altro piccolissimo bacio che crocchia come una foglia sotto la suola, l’autunno che timidamente s’affaccia e subito, intimidito, pare ritirarsi.

Certe parole sono come una chiave senza un cassetto, un chiavistello senza una porta.

E mentre mi siedo al caffè, per scrivere i Ringraziamenti e recuperare i nomi di luoghi e persone cui devo ora riconoscenza, cercando una parola che ormai neppure ricordo, scopro kyakurai. Cosa è, mi domando. Cosa significa esattamente “dopo essere giunti a un certo stato d’animo, tornare di nuovo allo stato mentale precedente”? Lo si può usare con qualunque emozione? Quanto tempo richiede questo andare a venire da un luogo a un altro del cuore?

Se non fosse già quasi in stampa, pronto per uscire e depositarsi tra gli scaffali delle librerie di mezza Italia, sarei tentata di riaprire una qualche fessura tra le pagine di WA (così, riassumendo, si chiama questo libro dal titolo lieve e dal contenuto denso) e inserire kyakurai.

Ma le parole sono così tante, il libro già stracolmo di cose, e io mi riservo di custodire le altre da qualche parte di quel cuore-mente, kokoro, che costituisce proprio una delle voci del libro in uscita per Vallardi.

La gioia, davvero, non oso dirla per quanta è. Un annus mirabilis, questo, in cui narrativa e saggistica si tengono per mano e, se uno (WA) spiega i concetti e le emozioni alla base del pensiero giapponese, l’altro (NON OSO DIRE LA GIOIA) racconta in fiction l’applicazione di quegli stessi concetti tra oriente e occidente, riflessioni e valori ormai profondamente radicati nella sottoscritta e, di conseguenza, in tutti i personaggi che sono arrivati e arriveranno nelle mie storie.

Andare e tornare, che meraviglia. Dalla gioia, allargarsi verso il dispiacere, per tornare ancora alla gioia. Dalla nostalgia, al distacco, rituffandosi nella nostalgia. È un po’ come scegliere di essere esattamente dove si è, per il fatto d’essersi accorti di voler stare lì, e non altrove. E nel viaggio da uno Stato a un altro, riempirsi di nuove parole.

  Kyakurai.

Che belli i ritorni~

枕草子 «Note del guanciale» 1

I

Caratteristiche piacevoli delle varie stagioni

 

La sera a primavera: il freddo che torna dopo il vagare di un giorno, l’inverno che pareva aver portato già via le sue cose eppure, nel buio che scende, conferma che lo sgombro  è in là da finire. D’estate, l’ora prima dell’alba: naturalmente col canto dei grilli che si fa rarefatto, l’aria ancora asciutta. È piacevole allora uscire in vestaglia a gettare la spazzatura e allungare il passo fino al passaggio a livello, dove sfreccia semivuoto il primo treno che parte da Zushi. Anche quando è afosa, l’aria che profuma di mare resta sul fondo. Aprire l’armadio in autunno, la gradazione di castano e rossiccio che attendeva disordinatamente nel nido; osservare il trasloco degli insetti, le tele di ragno sparire. Le maglie a maniche lunghe, gente che si affretta su tappeti di foglie ma il suo passo indugia su quelle croccanti, adulti e bambini.

D’inverno, salire sul treno gonfio di tepore: bellissimo, inutile dirlo, scorgere il Fuji che si staglia oltre il finestrino. Bello è anche cogliere lo sguardo di sconosciuti, intenti nella lettura del giornale o del cellulare, alzarsi, e intenerirsi per il solo fatto di averlo negli occhi. È anche piacevole salire sulla terrazza di un edificio, osservare la neve che cade su Tōkyō, gli ombrelli che si spalancano in rapida successione giù in strada; la città ridursi a cenere bianca.

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*** Inizia oggi una nuova avventura. Per chi ne vuole sapere di più: https://www.facebook.com/lauraimaimessina.writer/photos/a.255503354623734.1073741828.178005245706879/1055138334660228/?type=3&theater

笑う o della falena andata a lavorare

Attraverso un grande incrocio trafelata, strisce pedonali che partono da ogni quarto o quinto lato di quella che non è una piazza, perché in Giappone la “piazza” non esiste; tutto nella corsa suggerisce la voglia che ho di usare il tempo rimasto dal lavoro e dalla cura dei bambini per me stessa, lì dove me stessa significa sedermi, che sia in treno o in un caffè non fa alcuna differenza, spalancare libri lungamente scribacchiati, aprire il computer per scrivere di cosa spiegano i kanji non solo ai giapponesi ma anche a noi, che nello scoprirne la ragnatela dei tratti possiamo ottenere grande giovamento, insegnamenti preziosi per una felicità più a misura di persona, di un individuale calato tuttavia in un generale con cui deve fare i conti se vuole che quella felicità sia duratura.

Uscirà tra pochi mesi, per una casa editrice molto amata, un libro che proprio intorno al Giappone, ai kanji, alla concettualità poetica di questo paese è concentrato.

E da quando scrivo per questo progetto, mi guardo intorno come se davvero ogni cosa fosse illuminata. Noto ulteriormente quanto l’abitudine aveva smorzato, osservo le parole, la fantasia degli yukata in cui mi imbatto per la strada, i meccanismi di comunicazione tra sempai 先輩 e kōhai 後輩.

 Tutto mi insegna, anche il nido di Sousuke ed Emilio, la cerimonia di inaugurazione in cui i bimbi di tre anni accolgono quelli di meno di un anno, e in coro recitano formule ed espressioni di benvenuto, regalano ad Emilio una piccola collana da loro fabbricata; e poi i doni prodotti dalle mani piccinissime di Sōsuke per la festa della mamma e poi quella del papà, le abitudini così profondamente giapponesi che si sciolgono tutte nella trama del quotidiano.
 Osservo gesti e note che si scambiano le persone intorno a me, approfondisco il modo giapponese di fare le cose (sahō 作法), dal rituale per la crescita dei bimbi, ai piccoli matsuri di zona, dalla modalità con cui avvolgere nel furoshiki un oggetto, alla direzione da far assumere alle scarpe quando si entra in una casa o in un ambiente pubblico come cliniche, asili, certe aree delle scuole, in alcuni ristoranti.

 E così, con questo carico di vita pensata soprattutto, attraverso quell’incrocio.

 Al passaggio di testimone dal rosso all’arancio e infine al verde, da ogni direzione si mettono in moto i passi della gente. Individui di età e aspetto molto differente, tra cui spicca un anziano con grandi occhiali dalla montatura sottile, così come sottilissima è la sua figura, tutta ossa, mentre sciacqua in pantaloni di tela beige e una maglia gialla, come una vela sgonfia in mare. Quello che guida la mia attenzione su questa scialba figura è tuttavia quello che cattura anche moltissima altra gente intorno a me. Siamo stregati tutti dalla sua risata, perché quest’uomo ride, ride, il suo volto rinsecchito dall’età, tutto tagliato dalle rughe, ha addosso lo splendore di una felicità che non si smorza e anzi cresce. Pare lui stesso una barchetta che fila in acqua, e si gonfia di quell’allegria che chiama sguardi e che contagia.

La gioia di quest’uomo è rivolta alle girandole di un cane che è ai suoi piedi, minuto come un barboncino, dal pelo morbido e arricciato, anche lui giallo ocra, come accordato al suo padrone in un’onda sola di colore. Solo ora mi accorgo del guinzaglio che l’uomo tiene in mano molle, dell’impedimento che creano le zampette iperattive, in un andare e venire che diverte tanto l’uomo. Lo stupore che provo non è solo per quell’abbinamento che mi ero persa inizialmente, ma sul fatto che la risata di uno sconosciuto, che non sia né attraente né famoso, si possa portare dietro tanta gioia.

Sorridere, un verbo così abusato, banalizzato, eppure pieno di potere. Simbolo di un buonismo che di anno in anno sempre più valuto a fronte di un imperante e sopravvalutato (questo sì) cattivismo. Eppure quanto benessere si porta dietro.

Il kanji di warau 「笑う」 ovvero ridere pare provenga dalla danza di una sciamana, che è in trance, e il componente in alto 竹 richiama le mani alzate al cielo nella danza. Il corpo che si agita nel ritmo sfrenato, e agita il bacino, come scosso dal vento.

Bello ridere, davvero.

È come disperdere l’ansia, il nervosismo, lo stress che più dell’alimentazione o dell’aria che si respira, determina della nostra vita la qualità.

Ridere e scrivere, e salendo le scale al ritorno dall’asilo incontrare per la seconda volta una falena, dirlo a Sousuke, continuare la salita, poi chiamarlo, che non segue nei passetti, ricevere in risposta il suo silenzio.

Che cosa starà facendo? Sousuke? Sousuke? Souchan? Scendere ancora, ritrovarlo muto, emozionato.
E la farfalla? Non è che hai toccato la farfalla? domando scontenta, perché pretendo lui rispetti gli insettini.
Mh, mi guarda.
Dove è la farfalla, Sousuke?
Eh, inizia,  eh, sospende.
Cosa? incalzo.
Andata a lavorare! esclama.

 

 

Se non sei disposto a cambiare, non venire in Giappone!

Non ho mai chiesto di condividere un articolo, forse perché ho l’idea che i miei scritti, così come quelli di chiunque, giungano a chi devono arrivare, nel momento esatto in cui essi si rendono necessari.

Eppure, senza maschere né trucco, porgendo tutta la sincerità di cui sono capace, a chi mi presterà cinque minuti del suo tempo, voglio raccontare di un disagio, di un pericolo e insieme di una possibilità che riguarda il Giappone. E porgere una preghiera.

Noto negli ultimi anni a Tokyo e dintorni una abbondanza crescente, impressionante quasi, di turisti, specialmente asiatici ma anche occidentali. Non metto mai in questione le culture nel proprio contesto, ma non posso nascondere il disagio che provo nella mancata cura di questi enormi gruppi di persone che urlano invece di parlare, che scontrano i passanti senza aver cura del prossimo, che arraffano cose di valore come fossero merce da niente, che gettano rifiuti lì dove non è consentito e monopolizzano i luoghi di attrazione.

Ryosuke mi parlava del verbo 「畳む」 /tatamu/ che significa “piegare, ripiegare” ma anche “levare, chiudere”. Il Giappone, insomma, si avvia al proprio esaurimento, al ripiegarsi, al chiudersi. Si tratta di un verbo che si usa in ambito sociologico, e che molti iniziano ad adottare per domandarsi come sistemare, concludere e riordinare un paese in via d’estinzione.

Con il figlio più piccino di nove mesi appeso al marsupio, il piccolo volto esposto davanti a dondolare le gambette e il passeggino a fendere l’aria della stradina che percorro, noto un enorme americano (oppure brasiliano come suggerisce la maglietta?) che getta rifiuti nel cestino preposto alle lattine e bottigliette di plastica. Gli faccio notare con un sorriso che il luogo è sbagliato, mi risponde rabbioso “Lo so!” e continua…

Ricordo con vera vergogna una ragazza, amica di amici, che per non pagare il biglietto della metropolitana, fece la furba saltando i tornelli; credendosi molto spiritosa, in italiano prendeva in giro i giapponesi che le stavano accanto. Non mi toglierò mai di dosso quel maledetto disagio nel non poterla sgridare come avrebbe meritato facessi.

Giorni fa, al caffè, un ragazzo francese chiede alla proprietaria se può riempire la propria bottiglietta di plastica dell’acqua della brocca, quella a disposizione (insieme ai bicchieri) dei clienti. E lei, cosa può dire se non di sì? Ma si domanda una cosa così? Davvero si deve chiedere? L’idea che sia errato non ferma dal domandare?

Oppure noto turisti sedersi in un caffè, come Starbucks, senza ordinare nulla, come se lo spazio fosse gratuito. Oppure chiedere a qualcuno di gettare la spazzatura per loro, affidandola ai gestori di un caffè dove magari si è sostato per breve tempo. Altri baciarsi vistosamente in pubblico, come a “insegnare” ai giapponesi che sono loro ad essere troppo freddi e loro, gli italiani, gli americani, i coreani etc. ad avere ragione. Altri ancora telefonare sul treno, magari subito sotto all’adesivo che segnala che non si fa. Oppure mangiare a bordo di convogli metropolitani, lì dove nessuno lo fa.

Mi disgusta quella percezione soprattutto del “dobbiamo insegnargli come facciamo noi”, questo sentirsi superiori. Sempre. Comunque. Il continuo sospetto, l’accusa in punta di lingua di ottusità, di un eccesso di protocollo. Ma a nessuno viene mai in mente che sia proprio il rispetto di quel laborioso protocollo a rendere affidabili i treni che sfrecciano su fasci di binari e che traghettano milioni di persone ogni giorno, ogni ora in completa scurezza? Che rendono piacevole entrare in un negozio, acquistare o invece non acquistare niente, e uscirne sempre salutati, con un sorriso sulle labbra? Che fanno sì che perdere qualcosa, equivalga praticamente sempre a ritrovarlo?

Bisogna dare fiducia anche quando non comprendiamo il perché di qualcosa. Che a noi scatta subito la rabbia se qualcosa non va come vorremmo e diamo per scontato manchi la buona volontà da parte di chi non fa come vorremmo o ci aspettiamo. Ma ve lo garantisco, in questo paese, la buona volontà c’è. Sempre. Comunque.

E io? Anch’io non sono esente da errori. E ricordo ancora, con autentico imbarazzo, quando ormai quattordici anni fa, durante il mio primo viaggio in Giappone, l’unico da cui abbia mai fatto ritorno in Italia, quando gettai dei rifiuti nel grande secchio fuori da un ristorante ormai chiuso, al ritorno dall’aver sparato fuochi d’artificio nel parco di Inokashira, altra cosa probabilmente proibita.

Ecco, me ne vergogno ancora. E il solo fatto che lo ricordi mi segnala che fin da allora ne percepissi l’errore.

O quando ho incrociato le braccia, in bicicletta, per mostrare tutto il mio dissenso a una donna che – pur francamente eccessiva – mi segnalava la direzione sbagliata di marcia nonostante dovessi girare a un metro soltanto da lì. Perché il punto non sta nell’aver torto o ragione, ma nel non dover convincere il mondo che la si ha.

O ancora il fastidio che mostro ogni volta che mi viene domandato di compilare uno degli infiniti fogli che sono richiesti in farmacia o dal dottore, e magari mi viene da dire loro, ma a cosa diamine serve scrivere tutto se poi te lo devo ripetere a voce?

I giapponesi tendenzialmente non fanno appunti allo straniero o allo sconosciuto: è per evitare lo scontro, per mantenere quel clima di pace e armonia che noi tanto ammiriamo e che pure siamo pronti a giudicare come sbagliato, freddo, sconsolato: “Ma perché non dicono niente? Perché non si arrabbiano con i turisti?”

Il motivo è lo stesso che fa sì che qui non suoni il clacson praticamente nessuno. Solo nel pericolo si interviene. È il comportamento di tutti, proprio quell’evitare di dire sempre la propria e farlo sgridando il prossimo, che conserva l’armonia generale. Il dissenso, se proprio si rende necessario, deve essere mostrato con garbo e delicatezza.

E ora che Ryosuke mi fa questo discorso, ora che capisco il pericolo reale che corre il Giappone – perché io stessa incontro senza sosta questa torva di gente, la noto crescente, chiassosa, sgarbata e insofferente in questa città dall’altissimo profilo civile – ecco che riesco a tenere ancora più sotto controllo il mio temperamento, a non arrabbiarmi, pulisco anche quanto non ho sporcato in prima persona, cerco di sorridere quando posso e l’umore me lo permette, di ignorare quanto davvero non mi sta danneggiando ma solo un poco infastidendo.

E un turista? Come dovrebbe fare? Leggere, ad esempio, prima di partire, documentarsi, farsi guidare da gente che ha la patente per farlo (per inciso: lo sapevate che è illegale fingersi guide in Giappone senza aver studiato e passato uno specifico esame? si sottrae lavoro a chi ha studiato una vita per farlo ed è scorretto esattamente come dichiararsi medici senza aver preso la laurea in medicina o proporsi come giornalisti senza aver passato il concorso nazionale).

E poi bisogna fare come i bambini, guardarsi intorno, adeguarsi al contesto. Cercare nell’intelligenza dell’osservazione la risposta al diverso, all’inadeguatezza che coglie chi non sa come comportarsi.

È come andare a casa di un’amica e fare invece come se si fosse a casa propria: stare discinti, lasciare oggetti dovunque, lordare, fare rumore. È strano come capiamo queste cose solo facendo paragoni con il privato, perché il pubblico per noi vale sempre molto poco e tutti, paradossalmente, possono metterci bocca. E invece il pubblico è definito in Giappone. È la parte più importate di tutte, proprio perché condivisa.

Ci crediamo tanto intelligenti a trovare una terza via ogni volta che ci sono poste due alternative, ma è giusto? Non è forse meglio esercitare il proprio intelletto su altro? Nella comprensione della diversità, ad esempio, nella considerazione che aspetti che tanto lodiamo, come l’onestà, la cortesia, la pulizia, si basino anche su quelle regole che riteniamo scavalcabili, fastidiose?

Ecco, un invito. Godete invece della diversità del contesto, come a trovarvi in un videogioco: abbassate di un poco la voce, scoprirete quanto è bello il sottobosco dei suoni in un treno, in un ristorante; non baciatevi in pubblico vistosamente, trattenetevi e poi, con la tensione che scatena il desiderio, fate l’amore a lungo in albergo; fate la fila, proverete l’emozione di vederla muoversi molto più rapidamente di quanto non credevate.

Ecco vorrei tutti avessero chiara la percezione di quanto importante sia rispettare le regole, di quanto vada preservato questo microcosmo che è il Giappone, il garbo sostanziale, la cura, il popolo stesso che, come diceva Lévi Strauss, è il primo patrimonio del paese.

Basta sorridere! Basta perdonarsi perché in fondo siamo di un’altra cultura! No, no e ancora no! Non è lontanamente tollerabile indulgere sul “tanto…”, perché “tanto non conta” è sbagliato, e conta eccome. Ogni minuscolo gesto. È faticoso, e lo dice una che ci abita da tredici anni in Giappone. Ma è una fatica che vale la pena.

Più l’esempio negativo invaderà il Giappone, più il Giappone, goccia a goccia, con l’avanzare dell’invecchiamento della sua popolazione e del calo demografico, rischierà di mutare. E comunque ho capito negli anni che è anche da come si comportano in Giappone, dai discorsi che fanno, che è possibile saggiare la pasta delle persone.

Ed ecco infine la preghiera. Comportatevi bene in questo paese, siate eventualmente voi a far notare ad altri turisti che stanno sbagliando, date fiducia a questo popolo mite, non credete di avere sempre ragione, non dubitate neppure un momento vi stiano ingannando, perché la possibilità d’esser derubati o raggirati è vicina allo zero.

Sì, comportatevi bene. Rispettate le regole, tutte. Non credetevi più intelligenti di loro nell’infrangerle. Se esistono, un motivo, assai ponderato sicuramente c’è, anche se non lo cogliete o non lo comprendete.
Ricordate che ogni cultura è un puzzle 3D, anche un pezzo apparentemente insignificante è parte delle fondamenta che lo tengono su.

Amatelo invece, traete ispirazione da quello che vi piace di più. E se non siete disposti a scendere a patti con un altro sistema-mondo, rimanete a casa.
Che casa è l’unico luogo dove è giusto imporre la propria ottusità, il proprio egoismo, la propria orrida “autenticità”, il muso duro “perché sincero”. La propria, amata, imbecillità.

Non imponetela ad altri, godetevela a casa.

L’io che cresce in mezzo al noi o dell’individualismo giapponese

 I treni sono la seconda casa dei tokyoti.

 La fila ne precede l’ingresso, paiono tutti in una attesa apparentemente disinvolta eppure tesa, cosciente; sono ordinati nel segnalare la propria presenza, disciplinati nell’attendere che le portiere si spalanchino e diano inizio alla corsa. Perché nel salire, in quel momento soltanto, avviene la metamorfosi che dura giusto due, tre secondi, quelli necessari a prendere posto, districandosi nella giungla delle altre intenzioni, nella traiettoria dei passi altrui.

Tutti immobili e calmi un attimo prima, ritti in prossimità del convoglio in arrivo sulla banchina, poi aggressivi nello scatto e nell’occupazione del posto, e nel momento successivo ancora, quasi a chiudere il cerchio, ecco la tranquillità ritrovata, l’indifferenza dolente di chi chiude subito gli occhi nella posa del sonno se, nella corsa, ci si rende consapevoli di aver sottratto il posto a un altro che mirava allo stesso sedile, quello stesso che, sconfitto pur senza malevolenza, consapevole in fondo che è una questione di pura casualità, gli sta ora in piedi davanti. Altri, in cui è l’emozione di imbarazzo a prevalere, cedono invece il posto nell’istante in cui, entrambi in prossimità del posto vacante, si accorgono che l’altro sta per sedersi. Basterebbe un ennesimo scatto, ma il disagio ha la meglio, e si preferisce cercarne uno ulteriore che, probabilmente, non si troverà.

Quel che il mondo ignora, e che invece il Giappone sa bene di sé, è che l’individualismo è un concetto che si accorda benissimo a quello di comunità. Per pensare a sé, al proprio singolare benessere, bisogna essere previdenti, serve costruire e decorare tutta una casa, non solo un angolo brillante ma angusto di una stanza.

 È proprio a frequentare i treni della mattina, quelli che partono nella fascia oraria interessata dal transito dei pendolari, che si comprendono meccanismi profondi della società giapponese, l’equilibrio ad esempio che c’è tra individualismo e spirito comunitario, le strategie con cui si fa scattare l’indifferenza, elemento di difesa imprescindibile in una società che fa dell’omoiyari 「思いやり」ovvero del “pensiero per l’altro” un concetto fondante.

 Nata e cresciuta in Occidente, mi sento d’esser maturata tuttavia in Oriente, in quello specifico del Giappone che mi tiene per mano da tredici anni. Ho sempre pensato che la libertà sia il principio fondamentale dell’uomo, che è inseguendo la propria personale felicità che ci si realizza. Eppure qui ho scoperto che la gioia, quella duratura, la fa soprattutto l’ambiente in cui si vive, la comunità sconosciuta che ci accoglie.

 È la pulizia delle strade, il sorriso che si presenta ovunque, il garbo del contatto, la bellezza di una città curata, l’esattezza dei mezzi, il fatto che – esclusi casi eccezionali – non esiste nervosismo originato da terzi, da sconosciuti che collidono nelle nostre vite e ci impongono la loro individualità. Siamo troppi in questo mondo, e vivere tanto vicini deve necessariamente spingere a rivalutare il concetto di individualismo a tutti i costi.

Meglio scendere a patti con la soddisfazione del momento, con il cedere il passo, l’evitare di sbuffare se qualcuno inavvertitamente ci urta, arrivare in tempo al lavoro così da rassicurare personale e studenti, non chiedere sconti ma confidare nella giustizia di un prezzo, raccogliere una cartaccia anche se non siamo stati noi a farla cadere.

Solo così, nell’edificazione di una gioia generale, si può sperare di vivere bene.

Ci ho messo un mucchio di anni a capirlo, a smettere di considerare “bello ma poco condivisibile” il modo giapponese di considerare il tutti prima del , quasi a provare una tenerezza di distacco nel loro garbo che mi pareva francamente eccessivo, quasi naïve. L’io occidentale è enorme, e si considera “poverino” chi non pensa prima a sé. Ma è poverino davvero? Si è veramente felici a mettere sempre l’io prima del loro?

No.

Non sono la persona più importante a questo mondo. Non lo sono neppure le persone che amo. E per nessuno è giusto schiacciare il benessere altrui. Se lo farò, avrò magari la soddisfazione di un momento, condannandomi a vivere tuttavia in un mondo di prede.

 È il compromesso tra l’io e il loro, tra il noi e il voi, che invece funziona e crea un ambiente dove la gioia, davvero, può esser piantata. Su terreno cattivo – fatto di sporcizia, sgarbo, egoismo e maleducazione – si può poggiare pure una piccola serenità. Ma è quasi certo che non attecchirà, disturbata come sarà dall’infelicità altrui, dalle vendette che origina il malcontento.

Posso anche arrivare prima superando una fila, facendo la furba, ma poi cosa ne resta? La prossima volta sarà qualcun altro a farlo al posto mio, e la mia, di serenità svanirà.

Individualismo allora è cercare la propria felicità, ricordando come questa sia fragilissima se non condivisa da altri. Serve sia un progetto di tanti, solo così è destinata a germogliare e a farsi rigogliosa.

 

°Estratto rielaborato da Wa, La via giapponese all’armonia, Vallardi, 2018