Augurare il meglio a chi ci vuole male

L’augurio è, secondo la storia della cultura occidentale, il «responso divinatorio reso dagli àuguri | Rito con il quale si ricavava tale responso». E poi è «segno, presagio, di cosa futura. Presentimento» e anche «speranza, voto di felicità, salute, benessere e sim.».

In giapponese è: negau 願う che è anche la preghiera e secondo l’interpretazione del kanji del prof. Shirakawa una parte indicherebbe una “grande testa” e l’altro il “pensare”, nella cui addizione viene fuori il “pensare a fondo, con profondità”.

E in questo senso, augurare il meglio a chi ci preme addosso il suo disagio pare un controsenso.

Tuttavia, l’attitudine positiva (pojitibu) dei giapponesi, mi ha insegnato come il controsenso stia piuttosto nell’augurare del male a chi detestiamo. In buona sostanza, questo atteggiamento ci condanna:

1) ad avere quel qualcuno sempre presente nella testa – rinnovando il malessere che proviamo nel ricordare il torto subito;

2) a creare del nuovo disagio in noi – immaginare sfortuna, sofferenza addosso a un altro (sia pure qualcuno che detestiamo) porta un brevissimo piacere, ma lascia spazio alla bruttezza (che rimane dentro chi la concepisce).

Non so cosa sia scattato in me. Forse il secondo figlio, che mi ha tolto il tempo di rimuginare, o forse l’aumento significativo del lavoro di scrittura, che mi porta immensa felicità e insieme un restringimento ulteriore del giorno (per fare quel che voglio fare, come lo voglio fare, un giorno non basta).

La risposta mi era da sempre davanti, la pronunciavo, ma non riuscivo a convincermene fino in fondo. Forse perché da brava italiana ho sempre avuto una altissima considerazione delle mie emozioni, anche le peggiori: della gelosia “perché significa che davvero tieni a una persona”, della rabbia “perché vuol dire sfogarsi”, dello sfogo “che fa bene, anzi è necessario, sennò come ti alleggerisci?”, dell’appiccicume “perché se non ti senti ogni giorno con un amico o con l’amato, l’affetto cos’è?”.

Il fatto che, in fin dei conti, queste emozioni portassero sofferenza a me o ad altri, lo giustificavo dicendomi che “il sentimento è quanto rende tale un essere umano”, che ogni passione ha due facce, e che quella positiva non c’è verso venga via senza quella negativa.

Sbagliavo.

La risposta è proprio l’indifferenza, mushi suru 無視する.

Ho imparato a valutarla, a distinguere l’indifferenza vera da quella di facciata – che, in sostanza, è una sua negazione, perché capita la si “organizzi” solo al fine di far scattare una reazione in chi  la subisce (“io lo ignoro, e lui se ne dispiace”). L’indifferenza cui serve allenarsi (sì, allenarsi!) non ci svuota e non nega le nostre emozioni, ma ha come obiettivo quello di spostare energie e creare spazio per quanto conta di più. Il tempo è poco, il cuore spesso trafficato.

Più profondamente si riesce a provare indifferenza, più essa fornisce libertà d’azione (non si è più vincolati all’emozione fuori controllo) e lucidità di pensiero (quando si agisce, si sa fondamentalmente perché lo si fa).

E praticamente? Cosa significa, quindi?

Ecco, significa ad esempio resistere alla tentazione di andare a cercare informazioni su quella persona. Cosa che, nell’era digitale, pare faccenda complessa. Eppure una volta che te lo vieti, e non rompi la regola (devi metterti in testa che basta anche una sola volta e tutto il lavoro precedente si azzererà), quell’elusione diventa un’abitudine robusta. Naturalmente i passi non andranno più là.

Se non le pensi, le persone non esistono più.

L’irrisolvibile va lasciato là. E se qualcuno si è messo in testa di odiarti, ti basta non dargli volto o voce perché venga automaticamente a morire.

La risposta migliore è, a tutti gli effetti, la felicità.

Non solo la propria – e qui sta forse l’epifania – ma anche quella di chi vorremmo “maledire”.

Una persona che è felice di solito è impegnata, impegnata nella propria felicità.

La gioia è una sorta di lavoro che ti occupa le mani o la testa, o tutti e due.
Ikari 怒り “la rabbia” invece corrode. C’è il cuore, c’è una donna, c’è un ancora. Cos’è?

Noto personalmente come spesso lo “sfogarsi” corrisponda a un “affogarsi”, perchè le parole hanno un potere enfatizzante, e nel costruire una storia da raccontare, nel riferire quanto ingiusta o meschina sia stata quella persona, la lucidità la perdo mano a mano che recupero dettagli insignificanti (sapessi il tono di voce, mentre parlava mi guardava così, guarda che email disgustosa mi ha inviato, mi sono sentita così in collera).

Anche persone che non valgono niente, nello sfogo diventano enormi.

Così ora, quando mi imbatto in qualcuno di particolarmente fastidioso o, semplicemente, lo recupero nel ricordo, mi dico che bisogna sperare che ottenga un lavoro più soddisfacente, che trovi un amore più luminoso, che scopra una fonte d’appoggio, una consolazione più netta.

Solo così, davvero, smetterò di sentirne parlare.

見守る o del proteggere guardando

Nevica a Tokyo, a Kamakura lo fa per un’ora soltanto.

Così almeno pare, guardando oltre le ampie vetrate del soggiorno, da quelle della mia stanza da letto, dove grossi fiocchi scivolano da una parte all’altra della finestra, in una diagonale che non suggerisce nient’altro che il suo formarsi e cadere. Più giù, sulla strada, sarà subito sciolta.

 Poi ecco un giorno in cui le temperature s’alzano fino a 19 gradi. Un altro, una settimana dopo soltanto, in cui calano all’improvviso e così io mi prendo l’ennesimo malanno, a dimostrazione d’un corpo che curo poco e che è ancora concentrato a nutrirne un terzo. Il meglio, va a lui.

 I bambini spalancano libri sui blocchi di gomma, Sousuke impara le lettere, le cerca nelle pagine scritte. Diventano come tatami, coloratissime pagine che parlano insieme due lingue, in intervalli di pochi centimetri di distanza. Come si alleva un bilingue? Leggo, apprendo un mucchio di strategie, di nomi, eppure mi chiedo come si faccia a far collimare la teoria generale alla pratica tutta singolare di mio figlio, nello specifico della nostra famiglia, degli orari che ci vedono insieme in soggiorno.

 So che i cuori di questi bambini hanno bisogno di due lingue. Di due sistemi diversi. E cerco di nutrire la parte di cui mi spetta la supervisione, al massimo delle mie capacità.

 Poi torno sola con Ryōsuke, e si torna al giapponese che è la lingua che ci ha fatto innamorare.

«Bella la parola 流転» mormoro attenta. È lo scorrere della vita, lo scorrere in generale, il torcersi, nella traduzione che ne fa “le vicende, le vicissitudini, la mutevolezza”. La trovo anche nel greco panta rhei di Eraclito, suonando così: manbutsu wa ruuten suru 万物は流転する.

 Tutte le cose del mondo sono destinate a mutare di posizione. Emigra l’anima, in fondo, perché non dovrebbe farlo il corpo?

«E questa parola? Non è stupenda?»

È 音頭 ovvero “ballata”, che usa i kanji di suono e di capo. Come una musica che non si leva dalla testa. Qualcosa che risuona nel cranio e pulsa da lì, altrove. In ogni cantuccio che pensa.

«Tutto è intraducibile eppure tutto viene tradotto. Ogni cosa fraintesa è come una cosa capita due volte

Così le parole straniere, che tiriamo a noi per cercare di garantircene la comprensione, e le mettiamo mano per mano con altre che sono nella nostra lingua madre e che, come a una festa in cui vogliamo tutti siano a proprio agio e diventino amici, abbiniamo a termini che ci pare gli somiglino un poco.

Mario, ingegnere, potrebbe andar d’accordo con Takeshi, anche lui ingegnere. Nella maniera in cui kokoro stringe nel palmo “mente” e “cuore”, benchè le parole siano raddoppiate.

 Amo da sempre il verbo 見守る mimamoru. Il dizionario lo traduce come “guardare con attenzione”, ma è molto di più. Basta scomporlo, perchè in esso miru 見る è “guardare/ vedere” e mamoru 守 è “proteggere”.

Mi riassume insieme la resa e l’amore, perché capitano innumerevoli occasioni nella vita in cui non si può far altro che guardare una schiena che sparisce all’orizzonte. Lo trovo usato sia in circostanze piccine, in cui si augura magari una partenza sicura vero la stazione, un pezzo di strada fino all’ingresso di scuola, sia in congiunture di enorme portata, il viaggio in barella dalla stanza d’ospedale alla sala operatoria, momenti più in generale in cui è necessario prendere in mano la vita e rischiare di farsi anche molto male.

Quando non si può fare nulla, è allora come un vegliare. Guardare (miru 見る) del resto è in giapponese un occhio con le zampe, proteggere (mamoru 守る) ha un tetto sulle spalle.
Lo ripeto: amo profondamente questo verbo attaccato a un discorsare comune, che elargisce quello stesso affetto, quella stessa attenzione per il prossimo che avverto costante nella vita quotidiana giapponese.

 Le donne alla cassa del mercato in cui vado a fare la spesa che mi regalano fiori, quella signora che tira fuori dalla tasca una caramella quando mi vede stanca, al caffè la commessa che mi domanda del prossimo libro che esce. O, in terza persona, le madri che salutano dalla soglia i figli armati di cartellai, altre che ne scortano i passi fino allo scuolabus.

Mimamoru evoca in me il fazzoletto sventolato dai treni e dalle banchine alla stazione nel secolo precedente, quello sguardo che cala dalla montagna per chi si appresa alla discesa o alla scalata, l’augurio sentito d’un oltre, di un dopo che scavalca la nostra giurisdizione.

 

Mi piace soprattutto pensare che anche le azioni di un altro, di cui per forza di cose ci arriva solo un’immagine differita, come una eco, siano importanti per noi.

Seguire quel qualcuno, guardarlo con la dovuto attenzione. Augurargli il meglio.

Come, allargando, il manifestare il fatto che teniamo a quella vita, che vogliamo stia bene, al di là di noi.

«La (vera) memoria dell’acqua»

Accadde un giorno, e da quel giorno fu tutto diverso. 

Ci svegliammo nell’acqua. 

Ondeggiava incurante del nostro affanno, lambiva placida le mura dei palazzi e delle casupole fitte di Tokyo. Pareva un mare salito in soffitta, e dai tetti guardavamo annegare gli steli dei lampioni che, anche loro istupiditi dalla sorpresa, continuavano a illuminare la strada sommersa. 

Nulla si era rotto – all’inizio lo si credette e ci si adoperò per ripararlo. 
Controllarono le tubature, ipotizzarono un guasto di sistema, oppure, disse qualcuno, era l’oceano avido di quella terra che un tempo gli apparteneva e che gli uomini gli avevano a forza sottratto. Un bambino parlò di una diga che, disannunciata, avesse spezzato le stecche di balena che ne sostenevano il busto. 

Nessuno tuttavia indovinò la ragione. Si crearono in breve crocicchi di barche di fortuna sulle strade divenute fiumi, capannelli di gente issata su porte disarcionate, bambini con braccioli e ciambelle. I surfisti giunsero dalla provincia, attendevano l’onda perfetta. Tuttavia, senza una spiaggia, casa dov’è? Era un’acqua mescolata alla gromma della capitale, alla guazza di passi frettolosi sotto le rotaie della Yamanote a Shinbashi, alle bettole di Golden-Gai e alle vie ricchissime, tutto lucore, di Ginza. 

Eppure era stranamente limpida, trasparente, così che quanto era sul fondo lo si scorgeva chiaramente. 

Il passato, con la sua efficienza, la rapidità esclamativa, riposava ai piedi di tutti, non si era ritratto al confronto con quel mondo nuovo che stava nascendo. 

Tuttavia la domanda restava. 
Tokyo e tutta quell’acqua. 
Da dove iniziava? 
Come era possibile farla confluire altrove? 

Si pensò sarebbe passata, come le guerre e tutte le altre cose insensate partorite dalla storia, e invece era il tempo che continuava a passare, e lei rimaneva. Dopo due settimane si vide il primo pesce guizzare al principio alle scale. Si prese a immaginare il giorno in cui i tonni sarebbero diventati i cavalli di una volta o le carpe animali da compagnia da tenere al guinzaglio. In cui la colazione la si sarebbe pescata la mattina fuori dal balcone. Anche gli insetti che d’abitudine vivevano a pianterreno si trasferirono in cima agli alberi. Pazienti, annunciavano un’evoluzione rapidissima, di creature subito adeguate alla rivoluzione, come tutti gli animali che sanno che dibattersi serve solo ad andare a fondo più in fretta. 

Ecco, ci si disse, impariamo da loro. 

Invece di camminare si sarebbe nuotato, all’ingresso avremmo appeso il boccaglio e le pinne. Cose così. Anche le piante, dal fondo sempre più sconosciuto del mondo che un tempo abitavamo, allungarono di giorno in giorno radici, spuntando infine una mattina sul mare. 
E fu un campo di indistinta beltà. 

Il linguaggio fu il primo, insieme agli animali e alle piante, ad adeguarsi, e prese per mano il pensiero che, docile, lo seguì. 
Svilupparono branchie e pinna caudale anche i kanji. Al carattere di madre 母 spuntò una coda, per poter afferrare nella massa d’acqua i propri figli, sorreggerli come un’asta, insegnare loro a nuotare. I bambini usarono l’estremità del proprio kanji 子ども come un uncino, per aggrapparsi e farsi trainare. Vennero a galla parole affogate da tempo. 
Quella briciola d’aria che avevano segretamente conservato nella pancia di un componente chiuso come la bocca le riportò in superficie. 
Si tornò a parlare di antichissimi giochi nell’acqua, ma anche di cose crudeli come la morte imposta per ebollizione. 

Dopo un’esitazione iniziale, si scelse la gioia.

Tutti tirarono allora fuori dall’armadio i kimono di un tempo, altri li fabbricarono con vecchi impermeabili, stivali e vestiti dismessi, tutine da neonato su cui si applicarono squame, spine, pinne di gomma. 
Fu un esercizio di vanità, più che di sopravvivenza. 
Tokyo si specchiava in se stessa, la città tutta voleva rimirarsi, ne possedeva adesso il tempo cui era costretta e pareva guardarsi per la prima volta negli occhi, smettendo infine di rinvenirvi travi e pagliuzze. Avvolta nell’acqua, la metropoli iperattiva scopriva che la resistenza dell’elemento la rallentava, e che quella lentezza si preparava a trasformarla. La si sarebbe sfidata, come un tempo si sfidava l’aria e la terra? O la si sarebbe assecondata, come un’opportunità? 

Fu a quel punto, quando ci si rassegnò con gioia vergognosa a viver nell’acqua e in essa a ridursi nella velocità, che come sfiatando essa prese a colare oltre i confini della città. Tornava la terra, la resistenza più lieve dell’aria. Il Paese del Mare, Umiguni spariva. 

Il processo fu rapido nel distacco almeno quanto fu nell’incontro, e così come allora non si era trovato un modo per liberare Tokyo dall’acqua, così adesso non si trovò modo per farla restare. 
Se ne andava, di spalle, potevamo vegliarne soltanto la dipartita, augurarle buon viaggio. 

La nostalgia corrose la memoria, tutto si asciugò. 

Qualcuno, inconsolabile, dichiarò che la realtà è per 97% immaginazione, alla stregua del corpo umano che è fatto d’acqua. 
Ce lo eravamo sognato, tutto il liquido che avevamo addosso ci aveva dato alla testa. 

Tuttavia qualcosa rimase. Qualcosa sempre rimane. Pochi ne sanno la vera ragione, dell’amore profondo che noi giapponesi nutriamo per l’ofuro, la vasca da bagno. Alla stessa parola che lo distingue, furo, applichiamo il prefisso onorifico o- che, nella nostra lingua, funge da inchino. Come un cerimoniale di abluzione, che poco ha a che fare con la pulizia corporale, vi entriamo dopo esserci strigliati a dovere. 
Abbandonato lo strato superficiale di pelle, confidiamo segretamente vi crescano squame. 
E quando adesso un uomo muore di impegno, quando ci si fa troppo laboriosi e per questo si perde di lucidità, chi ancora ricorda quel tempo ritratto, la tentazione di un mondo più lento, si immerge nella vasca da bagno, e nell’ofuro scava l’acqua col corpo. 
E sott’acqua, lì dove tutto tace, sospira.

*Racconto pubblicato su Corriere della Sera, Futura il 14 dicembre 2018
Illustrazione di Sonia QQ~

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I nomi di mio figlio

Un bambino blu che non voleva arrivare, le lacrime, e poi: “Hai un daruma nella pancia”

Per anni tutte le strade hanno avuto il nome di mio figlio. Tōkyo, che nomi di strade non ne ha, accoglieva placida il mio desiderio e mi lasciava giocare. Era tuttavia un nome sbagliato, di pura invenzione. Di città in città quel figlio che non arrivava acquistava un nuovo nome. A Ravenna lo chiamavamo “Teodoro”, in omaggio al re degli Ostrogoti, a Hakodate “Toshizo”, come l’eroe della resistenza Meiji. Ci divertivamo da matti a immaginare di concepirlo in un posto diverso del mondo, a onorarlo estraendone un suono e a portarcelo dietro per tutta la vita, per riconoscenza. Di luogo in luogo, in piccoli viaggi che ci allontanavano un poco dall’ossessione maturata per una felicità sempre rimandata, costantemente in là da venire, ci promettevamo che sarebbe accaduto la prossima volta, al massimo quella dopo ancora.

Itsuka dekiru to omou?– domandavo a Ryōsuke una volta nei giorni migliori, anche dieci volte in quelli peggiori – Pensi che un giorno ci riusciremo?

Zettai dekiru yo! – coniugava mio marito, al futuro, convinto – Arriverà, di sicuro!

Parlavamo solo giapponese in quegli anni, e tutta l’archeologica ricerca di una causa, la botanica di un germoglio da impiantarmi nella pancia, l’infertilità e le sue derivazioni, sono e saranno sempre declinati in questa lingua per me.

La tendenza a battezzare le cose l’ho peraltro sempre avuta. Anche nell’infanzia in cui ero così figlia da non potermi immaginare madre, se non in ciò che mi faceva soffrire e mi giuravo non avrei fatto subire a un bambino mio. Anche nell’adolescenza in cui a essere figlia mi pareva ci si destinasse solo a replicare l’errore. Anche nella maturità in cui una creatura finalmente mi pareva una possibilità di riscatto, un arendtiano ricominciare. L’ennesima metamorfosi del nome di mio figlio avvenne una mattina di luglio, davanti a un foglio A4. Sei sfere irregolari, dai bordi frastagliati qui e là, bollicine occhiute a raccontarmi le mie sei possibilità.

Ecco i vostri embrioni – annunciò la dottoressa che mi aveva praticato la Fivet. E accanto a ognuno capeggiava il nome di un colore: bianco, blu, rosso, giallo, verde, nero. Di bello tuttavia c’era solo il blu: Ao, l’unico degno d’essermi trasferito nel corpo. Vi aggiungemmo subito il suffisso confidenziale -kun, inaugurando una frequentazione che speravamo prolungata, la realizzazione del sogno: ecco il nuovo nome di mio figlio, Ao-kun.

Si trattava adesso di fronteggiare un’ attesa, di compitare la speranza di immaginarlo svilupparsi e diventare tutto quanto prometteva. Di sbarazzarsi di ogni nome e farlo diventare carne e ossa. E la gravidanza in effetti cominciò, le hCG parlavano chiaro.

Tuttavia alla prima ecografia, il verdetto si ribaltò; l’embrione sullo schermo non si vedeva, quel figlio, con il suo carico di nomi idioti, se ne andava da noi. Lo ricordo come il giorno in cui ho pianto tutte le lacrime che avevo messo in serbo da anni. Telefonai a mia madre, cui avevo nascosto persino il desiderio di un figlio, mangiai quattro enormi pizze, sei mochi, inzuppai ripetutamente il pelo della cagnetta. Eppure era anche quello uno scherzo, perché quando mi preparavo psicologicamente già a un nuovo ciclo di Fivet, Ao-kun tornò, recuperando il ritardo, sbattendo il cuoricino sulle pareti del suo nuovo mondo.

Laura-san, ha un daruma nella pancia – pronunciò la dottoressa, indicando il puntino bianco sullo schermo. Daruma è la bambola tradizionale giapponese, cui si colora un occhio nel desiderio, e l’altro quando esso si avvera, e che soprattutto, per quante volte cade, si rialza. E Darumino fu.

Durante la gravidanza che seguì, tutta slanci e girotondi del cuore, scrissi ogni giorno quel romanzo che tanto parlava della gioia di approssimarsi alla maternità, di come anche una donna sconfitta potesse riscattarsi nell’amore del figlio, di come un’altra si consegnasse a mani alzate alla vita, timorosa eppure pronta a misurarsi con la prossima volta. Disegnavo Clara, disegnavo Momoko, mi allontanavo dal foglio e vedevo me. Architettavo un bel destino per loro, mi auguravo la felicità. Mi calmava, e forse essere scrittrici è questa cosa qui, spiegarsi su un foglio, dirsi – raccontando di altri – chi si è.

Non ebbi il coraggio di pensare a un nome proprio per mio figlio fino alla fine. La paura di perderlo ancora era troppa. Poi un giorno, scrivendo, sbagliai a digitare la parola bimbo e finì che Cimbo strinse le dita a Ao-kun e a Darumino per l’ultimo pezzo di strada. E ora che è uscito Non oso dire la gioia e capisco il titolo cosa significasse davvero per me, ora che mio figlio compie due anni e all’anagrafe ha due nomi, ora che di diminutivi e soprannomi ne ha ancora di più, l’augurio per lui e per noi, è di arricchirci di cento altri nomi, uno per ogni passo avanzato nel mondo, appellativi di gioia e di esperienza. Cose da battezzare, nuove storie da raccontare.

 

*Pezzo originariamente pubblicato su Il Foglio il 02 marzo 2018

«In Giappone ho imparato a leggere l’aria»

Biri biri, wai wai, guzu guzu, dan dan.

In questo Paese ogni cosa possiede una sua voce. La carta che si strappa, la gioia di una folla, la lentezza molle di una attesa, tutto quanto cresce e si sviluppa. Eppure qui nulla la alza, la voce. Mi guardo intorno, nel bel mezzo di questa melagrana spaccata che è Tokyo, e non mi sento straniera.

La patria è l’Italia, la matria il Giappone.

In dodici anni casa è diventata una parola, radice qualcosa che tengo per la mano e conduco dove voglio. Eleggo l’amore in giapponese, leggo libri ai miei bimbi in italiano, scandisco coniugazioni di verbi irregolari in vaste aule dai soffitti alti, e narro di una Roma medievale tracciando kanji alla lavagna; conduco idealmente frotte di ventenni in strade dai nomi italiani, per poi, varcando il cancello dell’università, ritrovarmi irrimediabilmente in vie senza nome, battezzate dalla sola familiarità con quanto l’una o l’altra contiene.

Chi ero prima di partire? È bello poter rispondere che non lo so. 

Questo popolo mite mi ha insegnato la cautela, mi ha convinta alla calma, che la fretta nel giudizio è fraintendimento e che questo porta sofferenza. Ho imparato la pazienza, la danza allentata nei rapporti d’amicizia, di un amore che comincia, una panoplia di gesti in cui ci si approssima ad un altro, annunciandosi piano, aspettando il turno di parola. La conversazione in giapponese è un continuo calibrare, lo è anche il pensiero. Sono ingredienti pesati al grammo in cucina, la preparazione di un dolce complicato. Mai una gara, perché chi vince perde comunque.

Tokyo raramente alza i toni. E io che un tempo gridavo, ora sussurro. La risata è la mia, fragorosa, impudente, ma nel privato, che ho imparato a separare dal pubblico, come pula dal grano.

Ho appreso soprattutto a «leggere l’aria»:「空気を読む」/kūki wo yomu/ si dice letteralmente in giapponese. È intuire, anticipare l’emozione altrui, cogliere il non detto nell’aria condivisa, per non costringere alla parola che, pronunciata, rischia di rendere tutto definitivo e sciupare. Ho impiegato anni a capire che non serve venire alle mani con il mondo. Bisogna aspettare.

«Dove si vive meglio? Cosa ti manca?»
Ho imparato soprattutto a non fare paragoni. Uno dei termini resterà per forza di cose svilito, l’altro a priori sul piatto nell’alto o nel basso della bilancia. Vale per le persone, vale per le città, vale per tutto quanto si ama. A chi vuoi più bene, a tuo padre o a tua madre? Da un incendio salveresti Calvino o Tanizaki? Paragonare significa operare una scelta. E scegliere è meno necessario di quanto ce lo si imponga. C’è abbastanza spazio per accogliere ogni cosa.

La matria è l’Italia, la patria il Giappone.

In questa lingua zeppa di segni, in cui il soggetto rimane al margine di ogni discorso, in cui ci si distanzia dalla certezza nell’affermare, in cui si paventa l’aggressione nel domandare e il verbo, come il dessert, giunge a fine frase, ho capito la necessità di organizzare la mente prima di parlare, come imbandendo la tavola per un ospite importante.

Negli affollatissimi treni che prendo la mattina, in quel silenzio irreale che è qui una folla – gente che legge, studia, dorme pacificata nella ressa – capisco ancora una volta che il noi vale più dell’io, e che l’io, senza un noi, non vale nulla.

Senza spingere scendo dal convoglio, gli scarti del bento nella borsa, a fior di labbra un sumimasen se urto qualcuno, un inchino e formule fisse nel commiato, sentirsi chiedere scusa anche quando si ha torto.

Ho scoperto che un buon esempio è facile da seguire, che sporcare un luogo sporco è tanto più semplice che lordarne uno pulito.

E di tutto questo continuo allenamento che è il vivere in Giappone, quel che è stupefacente è che, pur rimestando nella memoria, non ricordo qualcuno me lo abbia mai fatto notare con astio, che stavo sbagliando. L’esempio è un origami di mille parole.

Lasciare l’Italia, che pure mi è sempre presente, mi ha insegnato che non serve affatto tradurmi, perché ogni me ha una sua spendibilità precisa, così come ogni parola. Non c’è una corrispondenza esatta tra una lingua e un’altra, così come non esiste tra la persona che sono oggi e quella che domani sarò. E rinunciare a trovarla, quella parola, significa concedersi la possibilità di crearne una nuova.

Ecco allora cos’è. Vivere qui è cercare quella parola. Avvertirla che titilla la lingua, che è in punta, eppure non varca la soglia, abbarbicata com’è al senso che possedeva, e nel cercarla smarrirla.

È come la gioia, spiazzante, improvvisa.

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Questo racconto autobiografico è stato pubblicato sul Corriere della Sera, Futura, il 16 febbraio 2018

Illustrazione di Luisa Tosetto (che ringrazio per il meraviglioso accompagnamento)