«È bello vivere per­ché vivere è cominciare, sempre, a ogni istante»

Il primo lunedì del nuovo anno sono le decorazioni profumate di pino del Capodanno ai lati degli ingressi dei negozi e delle abitazioni, il passo svelto verso l’incrocio dove ci daremo appuntamento con Ryōsuke e i bambini. L’ultimo tratto di strada lo faremo insieme.

E camminando svelta, con il sole alle spalle, raggiungo una anziana che si volta a guardarmi. «La sua ombra, l’ho vista avvicinarsi velocemente» dice giustificando lo sbigottimento scritto sul volto. Il piccolo sussulto che ha avuto.

 È solo allora che noto come la mia ombra, in quel pezzo di asfalto, si fosse mescolata alla sua. Le sorrido. Potrei dire di più ma corredo il sorriso al sumimasen e con dolcezza riprendo il cammino. Sumimasen è una parola che non vuol dire poi molto ma che, per assurdo, è molto robusta nel senso. Ci sono parole così, che si piegano alla voce e al viso, parole in cui è il modo di porgerle che sta il significato.

«Mamma, cosa significa Capodanno?» mi domanda Sōsuke quando gli spiego che è per quello che oggi i saluti di tutti sono diversi.
La prima volta che ci si incontra dopo Capodanno, in giapponese infatti si dice: akemashite omedetou gozaimasu, kotoshimo yoroshiku onegai shimasu  あけましておめでとうございます。今年もよろしくお願いします。

«È l’inizio dell’anno». E toccandomi la testa, subito aggiungo «capo di anno».

«E l’anno cos’è?»

«È un inizio, uno dei tanti.»

Mentre lui corre davanti ricordo che anche questa mattina, davanti alla lavatrice, me la sono riportata alla mente, che l’ho fatto anche ieri scendendo dalla bilancia, che in fondo non ci sia giorno che io non mi ripeta costantemente la frase di Cesare Pavese, la stessa che ho  messo in bocca a Clara in Non oso dire la gioia.

 «L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere per­ché vivere è cominciare, sempre, a ogni istante»

Pensarlo, effettivamente, mi aiuta a riprendere da capo, a non sentire il peso di ieri e degli errori che ho fatto.

Ogni giorno è possibile ricominciare.

 

 

Quel che affidiamo al vento

Manca così poco~❤

Dal 14 dicembre in prevendita ovunque.

 

感謝 o della riconoscenza per gli altri e per sé

Sei qui, in questa palestra, vestita di abiti pensati, disegnati, prodotti, consegnati, confezionati, venduti da altri.
Nutrita di cibo che in origine era altrove, anche molto lontano da te, piantato, annaffiato, raccolto, preparato, imballato da altri.
Seduta in un luogo che altri hanno progettato, costruito, per cui ci sono volute centinaia di materiali diversi, ognuno confluito da un pezzo diverso di mondo.

E ognuna di quelle persone ha una vita, che coinvolge tutte le altre.

Questo – mi ha insegnato Yuko mercoledì – è quel che si intende per kansha 感謝 la riconoscenza.

Mani giunte al petto e un inchino.
La solitudine è un sogno.
La realtà è una folla invisibile, di cui percepiamo solo l’io.

E poi c’è quell’altra riconoscenza.

Quella per il corpo che ti porta da un lato all’altro della tua vita. Che anche disprezzi, perchè non è mai come lo vuoi.
Che nonostante lo pretendi perfetto non gli dai le cose giuste con il quale nutrirlo. Non lo coccoli mai. Che non vuol dire rimpinzarlo di dolci, ma farlo riposare quando ne ha bisogno, farlo dormire, dargli le cose giuste da mangiare.

Se in questo anno di grande fatica e immense soddisfazioni lavorative ho capito qualcosa, è che serve mettere un palmo sull’altro e fare un inchino a se stessi.

Non solo dire grazie ma dirsi grazie.

La Notte dei Pupazzi in Biblioteca

Dopo mamma e papà, in casa nostra, viene l’Orso Loretto.

 L’orsetto bianco di stoffa, che prende il nome dalla nonna Loretta che glielo ha donato, è una figura centrale nella vita di Sōsuke, il mio bambino più grande.

Lo cura, lo porta sul futon quando è il momento di leggere le fiabe, talvolta lo infila nella maglietta a mo’ di marsupio. Lo ha pigiato nello zainetto prima di ogni viaggio e quando mima il gesto di nutrirsi pizzicando le immagini di cibi sparse sui libri illustrati, destina a lui sempre un boccone.

Attraverso l’Orso Loretto, Sōsuke ha capito cosa significasse allattare, come consolarsi della lontananza temporanea della madre. Gli attribuisce stati d’animo o condizioni fisiche che avverte su di sé o che vuole esplorare. Il mondo, mi pare, lo comprende meglio così.

 Per questo, quando ho scoperto che nella biblioteca di zona si sarebbe tenuto il nuigurumi-otomari-kai ぬいぐるみのお泊り会 ho voluto aderire immediatamente.

Si tratta di un’iniziativa che si svolge in Giappone dall’anno 2000 e che si dipana grosso modo così: i bambini ricevono a casa un invito cartaceo per portare il proprio pupazzo del cuore in biblioteca e lasciargli trascorrere la notte lì, insieme ad altri pupazzi.
Una volta accordato il permesso ai loro piccoli amici, i bambini li accompagnano all’ora stabilita in biblioteca e promettono di andarli a riprendere il giorno seguente.

Sarà allora, quando li riaccoglieranno tra le braccia, che riceveranno anche scatti che ritraggono i pupazzi impegnati nella lettura notturna insieme agli amici, al lavoro al banco prenotazioni, sotto una coperta a sonnecchiare, a nascondersi dietro gli scaffali all’approssimarsi di un adulto.
E sarà in quell’occasione che a ogni bambino sarà suggerito il titolo del libro che il pupazzo vorrebbe gli venisse letto proprio da lui.

 Una iniziativa, questa, che si dice sia nata nel 2007 in una biblioteca pubblica della Pennsylvania, e che ha trovato terreno fertile in Giappone dove le bambole, come tutte le cose più frequentate e amate dall’uomo, hanno un’anima.
Esistono Caffè per Pupazzi, Ospedali per Peluche, Viaggi a misura di Pupazzino. Tsukumogami付喪神è, del resto, una antichissima credenza della cultura giapponese che vuole che le cose che sopravvivono un centinaio d’anni diventino una sorta di deità, acquisiscano un’anima.
Migliaia di rotoli ukiyo-e li hanno ritratti nei secoli.

Il punto tuttavia non è (solamente) nei pupazzi, ma nel medium del libro illustrato come diffusore affettivo.

 Prendersi cura di qualcuno è del resto anche quello, dedicargli del tempo, immaginare – lì dove la parola non sia un praticabile mezzo – cosa gli piace.

 Spiegare pagine e storie, anche in silenzio, tenere aperto un libro all’altezza di un volto, sostenerne il peso.

 I bambini imparano, di un grado di più, cosa sia l’amore.

 Oltretutto pare che l’iniziativa di nuigurumi-otomari-kai abbia un effetto positivo sull’incentivazione alla lettura, come testimonia uno studio di Ōzaki Yoshihiro dell’Università di Okayama, che ha voluto verificare, attraverso una serie di esperimenti, l’efficacia di questo sistema su un gruppo di 42 bambini in età prescolare, riuscendo in tal modo ad attribuire all’iniziativa evidenza scientifica.

Certo, come dimostra il ricercatore, bisogna insistere, rinnovare il ricordo dell’esperienza affinché i bimbi continuino a leggere ai pupazzi le storie Che un’esperienza lava le mani ad un’altra (dopo tre giorni, scrive, la percentuale di piccoli che prende in mano i libri illustrati diminuisce).
E tuttavia, quando poi il ricordo si sedimenta, è – in qualche modo, e qualsiasi forma andrà assumendo – per sempre.

 Oltretutto, allargando di un poco il discorso, mi viene da pensare che forse sta qui una delle tante magie del Giappone, non solo nella sua capacità di accogliere il meglio del mondo nello spirito di wa 和 (l’armonizzazione nella mescolanza) e di portarlo all’eccellenza, ma anche nel saper prendere con il massimo della serietà cose che appaiono invece della minima importanza.

Di attribuire dignità accademica anche a cose tenere e innocue come a un gruppo di bimbi che conducono i loro pupazzi in biblioteca per trascorrervi la notte.

 

*** Le immagini sono tratte da qui, qui e qui

Cose che ti danno sollievo immediato ma poi …

Metà luce e metà buio. L’anno si spacca in due. Era il 30 di giugno. E da allora la luce è andata inesorabilmente diminuendo, ogni giorno di più.

Pioveva quel mese in modo irregolare, ma costantemente, nel colore quasi sempre grigio e bianco del cielo.

L’umidità saliva e sale ancora, il respiro nelle ore più calde si faceva faticoso. Ora è già autunno, l’estate arretra.

Quel giorno mi trovavo in treno, in un punto intermedio tra Shinjuku e Shibuya. La città mi sfrecciava a destra, le nuove costruzioni, le Olimpiadi che avanzano scavando con le dita nel corpo di Tōkyō.

Avevo finito di lavorare all’università, e nel prima e nel dopo di quello stacco pieno di ragazzi che mi pare ormai più una seconda vita, c’è sempre quel blocco compatto di lettura, pensiero, scrittura. Il computer sulle ginocchia, la musica in cuffia, più spesso una melodia che ripropone solo la pioggia. Rumore bianco che facilita il tuffo.

Ho sviluppato negli anni tecniche sottilissime e astute per trovare posto a sedere. Chiunque viva a Tōkyō e dintorni lo fa.

Per dire, riconosco a prima vista movimenti accennati già in fila, riuscendo a intuire se è a destra o a sinistra che andranno le persone sulla banchina davanti a me, non appena si apriranno le portiere; ne capisco la tipologia, lo scatto in velocità verso il sedile più laterale, il movimento invece di chi preferisce salire nei convogli (di solito due per treno) che hanno l’aria condizionata meno forte. So persino l’orario e le stazioni in cui viene acceso il gettito d’aria, la mattina.

Si è tutti abitudinari, tanto che a prendere il treno alla medesima ora si incontrano le stesse persone, ogni giorno; si sa in che momento tireranno fuori la bottiglietta di tè dalla borsa, se leggeranno il giornale, che genere di libri amano, se pongono sui portapacchi lo zaino oppure lo tengono stretto tra le braccia. Posso predire il momento in cui serreranno ogni cosa e si abbandoneranno al sonno.

So, per certo, dove scenderanno.

In questo contesto di precisione, al limite del maniacale, quel giorno in cui l’anno si spaccava in due, ho visto un uomo con un bastone. Era giovane, doveva essersi fatto male per una qualche ragione, non pareva avere familiarità con quella protesi. Appoggiato al finestrino, al lato della carrozza, era irrequieto, guardava verso i posti di priorità, ma nessuno vedeva lui.

Già dopo qualche anno di vita in Giappone, e a Tōkyō in particolare, ho capito una cosa. Ovvero che non è facile giudicare chi non si alza per cedere il posto.

La giornata che si porta sulle spalle quel qualcuno, solo quel qualcuno, la sa.

Una giovane donna con un ciclo dolorosissimo, per dire, un uomo che abbia appena subito una sfuriata da un capo. Un giovane uomo che abbia affrontato un’operazione, qualcosa che riguarda magari organi interni. O ancora, una madre in allattamento, con poche ore di sonno spezzate alle spalle. Una persona malata di depressione, che necessiti di riposo, seduta, anche solo per chiudere gli occhi e prendersi una pausa dalla sensazione avvilente che tutto mondo sia contro di lei.

Non è buonismo, ma gioco di immaginazione. E, la letteratura lo insegna, l’immaginazione spesso si avvicina alla realtà più della sua didascalica descrizione.

Metà luce e metà buio.

E tuttavia ci sono delle cose che ti danno sollievo immediato («me ne resto seduta, me lo merito, sono così stanca, quell’uomo neppure mi guarda») ma che sul lungo periodo ti fanno pentire.

Azioni che, a non farle, ti senti leggero. Ma dopo, nel ricordarle, scopri erano solo false-leggere, come certi cibi che paiono eterei (vedi la panna, certe bibite strapiene di zucchero, il cioccolato fuso) e poi hanno più calorie che una enorme ciotola di rāmen o un intero pollo fritto con le patate.

Certi atteggiamenti lasciano come un alone, il giallo di sudore che si forma sui vestiti bianchi sotto l’ascella.

E ti guastano tutto.

Non stavo scrivendo, lo ricordo. Perché quando scrivo sono risucchiata in quel mondo, romanzo o saggio che sia, e sono sì lucidissima nella mente, molto più di quanto non sia nel quotidiano, ma tuttavia poco presente. Ci sono ma non vedo niente.

Per questo ho individuato quel giovane uomo con il bastone, perché il computer era chiuso e io stavo “solo” leggendo.

Ho avuto un attimo di indecisione (da anni dormo niente la notte, mi sveglio alle 4.30 per scrivere, ho due bimbi minuscoli che assorbono ogni mio momento di pausa con le loro infinite richieste, la schiena a pezzi e una serie di malanni latenti etc. etc.). Ho pensato però che la sfiducia, al pari della fiducia, è un contagio. Che a non farlo sedere, quell’uomo si sarebbe portato a casa la sensazione d’esser poco considerato. Che in qualche modo avrebbe restituito quella emozione negativa a qualcuno, familiare o sconosciuto, quel giorno o il successivo.

Ricompensata dal suo sorriso e dalla riconoscenza sul volto, sono rimasta in piedi una ventina di minuti, finché non si è liberato proprio il posto di fronte al suo. La schiena mi faceva male, ma il cuore era allegro.

Mi è tornata in mente una frase di un maestro Zen letta chissà dove, ovvero che è proprio quando siamo emotivamente in difficoltà, quando ci manca il coraggio, che dobbiamo alleviare gli altri dalla sofferenza, incoraggiarli.

Come a dire che rivolgersi all’esterno, anziché all’interno, talvolta è la giusta risposta da darsi.

Metà luce e metà buio.

E come premio ulteriore c’è il ricordo. Che, forse per il lavoro che faccio, rimane per me la cosa in assoluto più preziosa. Consapevole come sono di come la maggior parte della vita scorra via senza lasciare alcun segno nella memoria, creare un ricordo è qualcosa di grande valore.

Lo scrivo, insomma, perché lo ricordo.