Con un cuore legato non si entra nell’impossibile

Mi sveglio la mattina, con l’ansia sottile delle cifre. Della conta cresciuta dei morti, della fila degli infetti.

 Celo il cellulare, con il suo innaturale chiarore, sotto le coperte comuni, il bimbo di fianco che mi sente sveglia e ha una gran voglia di accendere il giorno, di sgambettare per il biscotto, i giocattoli da spartire con il fratello, urlando con quanto fiato hanno in gola.

Controllo le informazioni, la posta, i commenti, come percorrendo e ripercorrendo costantemente la medesima strada. Alla fine mi gira la testa, perché anche il corpo lo sente, che è un ruotare un po’ vano, nella millimetrica differenza che fa sapere “ogni cosa”.

Un altro paese – Israele – che si aggiunge alla lunghissima lista delle lingue in cui uscirà questo romanzo che mi dà tanta gioia. Una gioia certo smorzata dalla contingenza storica che tuttavia so momentanea, perché nella natura nulla è destinato a restare.

Dovevo tornare a maggio in Italia. La prossima volta invece, chissà.

Registro brevi video per associazioni, librerie, iniziative diverse, accomunate dalla convinzione – che condivido – che leggere possa aiutare in questo momento. Non per rendersi più “acculturati”, per quando insignificante poi suoni questa parola. Ma per prendere una pausa da se stessi, che in momenti di grande stress serve grande riposo.

Serve uscire (mentalmente) per ritornare rinnovati, mettere in pausa la vita in prima persona che tanto gravosa sa essere per la responsabilità – completa – che essa ci affibbia. I bambini ne ripartiscono il peso con i genitori, ma agli adulti tutto resta, la libertà e l’onere del giudizio. Quanta fatica.

Leggere allora è diventare Napoleone, pensare ai suoi crucci diversi, vederli risolversi, dipanarsi nella sua particolarissima storia; è essere Cristina Campo che lotta per una parola e che, imperiosa e fragile insieme, non smette di cercarla per tutta la vita (Belinda e il mostro) ; è diventare Jack London e vivere tutte le esistenze possibili in una sola, attraversare luoghi così remoti che non ci sono già più (Figlio del lupo); è ricordarsi cosa è famiglia, in profondità (Non è vero che non siamo stati felici). Alcuni li ho appena assaggiati, altri sono già parte di me.

 

E poi mi è venuto in mente il lato altruistico della faccenda. Leggere ad altri, perché anche il bene, a se stessi, non è detto che ce lo si conceda. Fare per altri, talvolta, è più facile che fare per sé.

In questo leggere ai bimbi aiuta.

Leggete fiabe ai vostri bambini. Di fate e castelli, di minuscoli re e immensi mostri, di magie e maledizioni che aprono con improbabili soluzioni il cuore ai malvagi, di crudeltà indicibili che in effetti non vengono dette, di cuori giganteschi che si strizzano e annaffiano boschi.

Ma leggete anche ai nonni, una fiaba per telefono, magari su Skype, una storia che allaga il cuore di parole diverse, che nulla hanno a che fare con la realtà che ci sta addosso e ci cambia le vite.

Un respiro profondo, ecco cosa è la lettura in questo preciso momento per me. Una pausa dalla propria vita. Un modo di recuperare (energie, libertà, serenità) in un mondo che non è questo.

“Le fiabe insegnano a ragionare alla rovescia, a sconfiggere la legge di necessità e a passare a un nuovo ordine di rapporti. Insegnano a spiccarsi «il cuore dalla carne …poiché con un cuore legato non si entra nell’impossibile».*

L’impossibile, in fondo, coincide spesso con il non immaginato.

E dell’impossibile, adesso, abbiamo talmente bisogno.

 

 

 

*Cristina Campo, Gli imperdonabili, Adelphi

 

Di nuovo marzo, di nuovo l’undici

Ero qui dentro mesi fa, raccogliendo parole come conchiglie sul bagnasciuga.

Tentavo di dire qualcosa a mio padre, che però ancora c’è, pur nella sua salute traballante. La lontananza, nel cuore, talvolta però è vicina alla morte.

Eppure ho sentito anche salvezza, anzi, soprattutto quella. E possibilità.
“Hai ancora tempo, Laura” mi sono detta. “Vai!”

Anche grazie a quel giorno, a quell’esperienza, mesi dopo, a Roma, lo ho abbracciato forte forte. Dopo anni, finalmente, sono riuscita a partire.

Oggi è il nono anniversario da quel giorno devastante del 2011, in cui lo tsunami si abbattè sul nord-est del Giappone, rastrellando migliaia e migliaia e migliaia di singole vite.
Il Telefono del Vento (風の電話)  ha aiutato tantissimi, distribuiti in ogni parte del mondo, a riprendere un dialogo sospeso con chi amavano ed è rimasto indietro.

Scrivere “Quel che affidiamo al vento” è stato bellissimo e straziante. Mi è sembrato di restituire dignità alle vittime di questo giorno, di rimetterle in mezzo, sotto le luci di scena, dopo che Fukushima – sui giornali del mondo – pareva aver ingoiato ogni loro rilevanza. Ed è stato per me soprattutto un regalo, perchè non c’è giorno che qualcuno di voi non mi scriva, non mi racconti del proprio lutto, di una lettura che li ha presi per mano e li ha aiutati ad uscirne. Grazie, grazie di tutte le vostre parole.

Un pensiero rivolto alle vittime dell’11.03.2011.

Un abbraccio a tutti quelli che ancora oggi – per questioni per ognuno diverse – sono in difficoltà.
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(Translation by Lucy Rand)

I stood in there some months ago, collecting words like seashells on the beach.

I was trying to say something to my father, who is still alive, but in shaky health. The distance, in my heart, sometimes feels close to death.

Yet among the feelings I had in there, there was salvation, actually, it was mostly that. And opportunity. “There’s still time, Laura” I told myself. “Go!”

Thanks to that day, to that experience, months later, in Rome, I hugged him with all my strength. After years, finally, I managed to get back to Italy.

Today is the ninth anniversary of that devastating day in 2011, when the tsunami struck the north-east of Japan, sweeping up thousands and thousands and thousands of individual lives.
The Wind Phone (風の電話) has helped so many people, from all over the world, to pick up an interrupted conversation with the people they loved and who left them behind.

Writing The Phone Box at the Edge of the World was both beautiful and devastating. It felt like a way to restore dignity to the victims of the tsunami, to put them back in the centre, under the stage lights, after Fukushima – according the world’s newspapers – seemed to have swallowed them whole. But it was a gift for me too, because now not a day goes by that one of my readers doesn’t write to me telling me about their grief and how this book took them by the hand and helped them step out of it. I am so grateful for all those words.

A thought for the victims of 11/03/2011.

An embrace for all those who today – for reasons that are different for each person – find themselves in difficulty

Usiamo le energie per rassicurare chi sbaglia

“Quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero. Ma su un punto non c’è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato.”

Murakami Haruki

Non usiamo le energie per sgridare gli altri. Usiamole per rassicurarli.
Non direttamente, ma con l’esempio.
Ci vuole più energia per resistere alla rabbia, che è senza dubbio l’emozione più facile. Quella spontanea.
La rassicurazione è tuttavia più potente. Amplifica l’energia, non lascia sguarniti.

 

Coloro che prendono i treni, che scappano dalle zone rosse sfidando le regole, quelli che corrono a svuotare i supermercati, sono come bambini impauriti. Insultarli, sgridarli, li fa rientrare solo nella nicchia di errore che si sono scavati, li farà sentire contro tutti e, in quanto tutti, nessuno. Disinteressati al mondo che li disprezza, aumenteranno i comportamenti anti-sociali.

Si comporteranno alla stessa maniera, ma di nascosto.

 Impareranno se gli urleremo contro? No.

 Impareranno se li disprezzeremo pubblicamente con frasi esemplari da “primi della classe”, da gente che non sbaglia, da noi che invece…? No.

Torneranno convinti, comunque, di avere ragione. Arrabbiati, porteranno l’odio in casa propria, sentiranno il desiderio di evadere nuovamente dall’unico luogo in cui noi tutti vorremmo che restassero buoni buoni per 15 giorni consecutivi.

Lo Stato ha invece quella funzione. Guidare, punire lì dove è importante. Se serve, segnalate allora alle forze dell’ordine (senza tuttavia sovraccaricarle) le situazioni che vi paiono pericolose per l’ordine pubblico.

L’opinione pubblica deve fare cuscino, rassicurarsi a vicenda. L’esempio, solo quello davvero funziona.

Basta frasi violente. Basta parolacce. Basta frasi ad effetto per dire quanto loro facciano schifo e noi invece no. Slogan del “così imparano a …”, “quando si parlava di emigranti invece…”, “il nord”, “il sud”.

Basta parlare di estinzione. Basta insultare. Basta sfogare la rabbia in rete. Ora la rete è l’unico mezzo che ci può tenere uniti, che mantiene in piedi – letteralmente – le reti sociali. Usiamola bene.

 La società giapponese, con tutti i difetti che per alcuni può avere, possiede tuttavia un alto senso civico. E qui, chi sbaglia, non viene ripreso pubblicamente da un altro. Chi sporca non viene fermato da un terzo che lo vede sporcare. Non si sgrida la gente per strada, si cerca di ignorarla e continuare a comportarsi per bene. Spesso gli stranieri si domandano come mai, perché i giapponesi siano così poco reattivi. Che il paese chissà dove finirà reagendo così.

 E invece è così che si mantiene l’armonia, che la maggioranza continua a comportarsi bene.

 Perché funziona molto di più il gesto di raccogliere da terra la bottiglietta che un altro ha gettato a terra che non urlare contro il colpevole. Certe cose non le si può insegnare.

 

 Impariamo ad esser gentili.

Per il semplice fatto che:
1.
L’educazione non la si insegna da adulti
2. L’esempio funziona più della parola
3. Per stare tanto vicini serve stare tranquilli o ci si fa la guerra anche in casa.

Con calma, con gentilezza.

 A cosa serve ormai “avere ragione”?

Trovare di chi sia la colpa ormai non ha più alcuna rilevanza.

 

P.S. Personalmente, come autodifesa dalla rabbia, mi tiro fuori da profili di contatti che inneggiano a comportamenti antisociali; mi allontano in silenzio da persone che, in barba alla gravissima situazione, pensano solo al “devo partire per il Giappone, e il mio volo? Da che aeroporto posso partire?”, e il “MIO viaggio”, “la MIA meritata vacanza”, “i MIEI soldi”, “la MIA situazione lavorativa”, “il MIO rimborso”; prendo una pausa da pagine di persone che non ce la fanno a star zitte e riversano sugli altri la propria angoscia e la propria rabbia, insultando chi non si comporta nella giusta maniera. Silenzio chi si giustifica d’aver preso un treno stracarico di gente per fuggire dal nord, per fare poi quarantena in casa: comunque il non-sense.

Intervenire? Sgridarli? A che serve?

So che non è in mio potere far nulla. Se non abbracciare chi è in difficoltà. Salvaguardare il mio buonumore e, di conseguenza, quello della mia famiglia.

È tutto un frugare tra le emozioni per trovare quella più giusta.

È fortissimo il potere dei numeri.

Nelle ultime trentacinque notti ho dormito abbracciata al bimbo di due anni. Ho avuto in bocca la lanugine dei suoi capelli venuti fuori biondi, contro ogni attesa. Ho dormito fino a saziarmi dell’alba, dell’insonnia patita negli ultimi anni. I piccoli calci distribuiti sulla mia schiena quando al risveglio Emilio sale, sale verso il limitare del letto, come volesse sgusciare fuori da un guanto.

 Negli ultimi venti giorni ho sillabato a me stessa consigli. La ripetuta litania delle raccomandazioni. L’invito a non anticipare nulla. Che nulla – per quanto lo si tiri a sé, per la manica, per il bavero della giacca – arriva prima del tempo.

 Negli ultimi ventidue pomeriggi ho iniziato a riflettere su come la Storia la si faccia ogni giorno e su come, insieme, essa cresca, d’un tratto, alla stessa maniera in cui invecchia la gente. Non poco a poco, ma a intervalli, come se l’età fosse acqua e goccia a goccia riempisse il vaso che d’un tratto trabocca. E lì, in quel rompersi dell’equilibrio di resistenza, appaiono rughe, l’età fino ad allora non percepita travolge i lineamenti, ammorbidisce o imbolsisce definitivamente una figura.

 «Siamo in una pagina di Storia» mi sono detta. «Ci siamo finiti dentro un po’ tutti».

Un giorno, nei libri di scuola, parleranno della pandemia scoppiata nel secondo decennio del XXI secolo, di come iniziò, di come si diffuse, di come reagì la popolazione, delle conseguenze politiche ed economiche che comportò. Delle soluzioni esatte, delle soluzioni sbagliate. Parleranno di noi, come di una massa senza volto singolare, come di una folla che – in attesa di una soluzione (che di certo sarebbe arrivata) – frugava tra le emozioni per trovare quella più giusta. .

 Nasceranno romanzi, nuova letteratura, storici recupereranno diari per sapere cosa accadeva, in una città o in un’altra, su una frontiera, tra minoranze.

Scrivendo dello tsunami del 2011, quanto la vita in Giappone parve per decine di migliaia di persone conclusa, e un dio (quale poi?) assente, la gioia sparita, ho scoperto di cosa si lesse in quei giorni. Di cosa, per la precisione, leggessero i sopravvissuti che lottavano con l’inutilità che gli pareva contagiare ogni resistenza.

Nelle biblioteche itineranti, nel post-tsunami del 2011, il libro più letto fu Uno psicologo nei lager di Viktor E. Frankl.

L’avevo comprato anni prima, perché Ogawa Yoko spesso lo citava. L’ho scandagliato di nuovo, alla ricerca del senso. Ho isolato, tra tante, una pagina che è pura speranza. Lì, sotto le suole del mondo, dove il male non era natura ma uomo, ecco che un altro uomo, un internato tutt’ossa che aveva perso ogni cosa parlò e disse qualcosa che avrebbe rimesso in piedi chi la speranza la voleva nutrire, a dispetto di tutto. E non solo nei disgraziati scheletrici di fronte a sé, che cercavano vita lì dove, anche il giorno seguente, avrebbero potuto trovare con ogni probabilità la morte, ma anche in generazioni di lettori, che vi trovarono dentro il senso non di una vita, ma della Vita. Quella di tutti.

La leggo qui, con voce imprecisa, per chi la vuole sapere.

Sono giorni eccezionali.

È tutto un frugare tra le emozioni per trovare quella più giusta.

Cerchiamola, diamole un nome. Ne avremo meno paura.

 

Io, alle tre

Scegliere un’ora del giorno, fare caso a cosa si sta facendo, a cosa si sta pensando, a cosa sta accadendo intorno a sé.

Farne un appunto. O una illustrazione. Descriversi l’ora, la luce che piove. La temperatura.

Lo stato dell’animo in cui si è.

Si nota allora così come, al modo delle perline di una stessa collana, le medesime tre del pomeriggio di un’intera settimana o le identiche undici della mattina di sei diversi mercoledì, si distanzino assai.

L’idea di fare una vita “sempre uguale” sta allora esclusivamente nel fatto che ad ogni cosa si attribuisce il medesimo nome e che, senza molto considerarlo, si scorre veloci all’impegno seguente sulla lista.

L’idea di dare importanza a una tra le 24 ore di un giorno, al compito di concentrarsi su quella soltanto per rimanere vigili, non è affatto un’operazione banale.

In Giappone sono molte le pubblicazioni di questo tipo. Allacciano un disegno minimalista, un accenno grafico, a frasi brevi che paiono idee svestite, puri concetti. E per questo potenti.

Ecco Sanji no watashi『三時のわたし』di Asao Harumin浅生ハルミン.

“Io, alle tre”

Le mie tre del pomeriggio.

 

E io? Quale ora sceglierò? Che forma le darò?

E voi? Quale ora sceglierete? Che forma le darete?