Come stai

E’ la frase più banale al mondo, anche vuota se vuoi. Perchè spesso è incorporata al saluto.
Ciao + “Come stai?”

La insegno ai miei studenti. Perchè sappiano incontrare l’altro nella conversazione.

Perchè il “come stai?” apre una fessura tra il me e il te, è lì che ogni volta si inizia.
Spiego loro che “bene”, come risposta”, spesso non significa nulla. O copre nella neutralità anche una bugia.Serve a fermare l’altro, perchè non domandi di più.

Ebbene, da oggi – e non so per quanto tempo dal giorno che è ancora oggi in Italia – questa domanda è bandita.
Non me lo si chieda. Come stai?
Non lo voglio sentire come sto. Non lo voglio sapere io come sto.

Quel che resta della mia famiglia, cinque amici e basta potranno farmi questa domanda. Nessun altro me lo chieda.
Non lo voglio sapere.

Sì, mio papà non c’è più.

#DiarioDalGiappone n. me (19)

“C’è una tecnica bellissima nell’arte della ceramica giapponese che si chiama kintsugi 金継ぎ /kintsugi/, l’oro金 kin che si fa colare nelle 継ぎ目 tsugime ovvero le saldature di un oggetto che ha subìto un qualche incidente.

È una ciotola che cade, si frantuma e mostra così la natura parziale di tutte le cose, che spiega come in verità il mondo sia fatto di pezzi, grandi o piccoli, e come stia a noi ricompattarli nel modo più indolore. Sono stoviglie spaccate, sbreccate, rinsaldate con la lacca e i cui punti di rottura vengono riempiti e decorati con l’oro, l’argento, con l’oro bianco, con la lacca di vari colori.

Kintsugi è una tecnica nata in Giappone e, nella stessa definizione del termine, si racconta in questa lingua l’attesa trepidante e gioiosa nel vedere cosa verrà fuori dalla riparazione.
La felicità rappresa nell’errore. ”

In Giappone si discute tanto sui media in queste ore, di come la gente affronti psicologicamente questo periodo speciale. Io stessa me lo domando.

Credo serva ammettere in primo luogo di non essere in grado, alzare la mano. Scusi, cosa significa questo? Non è che puoi darmi una mano?

Quando non si sa, per sapere serve domandare, farsi aiutare.
È tuttavia è importante selezionare bene l’aiuto, perché non c’è autogol peggiore di quello fatto da un giocatore che ritenevi sicuro. È come tenere all’ingresso stampelle difettose, che poi ti fidi e quelle ti fanno precipitare. Meglio la gamba guasta, a quel punto.

Suono drastica quando mi sento fragile, persino infantile. Ma accade quando perdo la fiducia nell’altro, quando credo che il dialogo non abbia più potere. Che spiegare non serva più a nulla.

E allora torno alla semplicità, ma senza dispiacere. Mi sembra quasi assurdo, che capiti a me che di solito sento tutto al quadrato. Ma torno invece leggera, ritorno alle cose sicure, a quelle che ho scelto in un tempo in cui ero lucida. Mi fido più di quella me pre-quarantena che di quella che nella quarantena è ancora dentro, inzuppata.

Chissà se capita anche ad altri…

Perché la quarantena è una condizione talmente strana. Ti appiccica a cose e persone cui normalmente non ti saresti mai appiccicato così. Come nuove piccole dipendenze, cioccolatini, sport, vicinanze.

E certe volte sono occasioni meravigliose. Altre volte sono sbagli, semplicemente. E senti d’esserti donata per errore.
Ma accade.
Serve comunque, dentro o fuori dalla quarantena, usarsi clemenza.

Che siamo creature piene di crepe.

 

***fotografia di 現代金継ぎ

#DiarioDalGiappone n. 17

Ogni giorno registro il lungo notiziario delle 7 della mattina sulla NHK. Lo faccio per tenermi informata il giusto, non guardo quasi altro. Temo la sovrapposizione delle notizie, la perdita di tempo.

Il lockdown sarà con buona probabilità prolungato di un altro mese. Le cifre dei contagi e dei morti paiono ridicole a confronto con quelle italiane, ma qui il personale medico ha un enorme peso politico e non si prende sottogamba.

Ascolto discussioni pacate, nello stile tipico del Sol Levante, lo stesso che fa sì che resti sempre tanto sorpresa (senza colore) guardando un salotto televisivo italiano. Qui nessuno urla, nessuno si parla addosso. E chi lo fa (praticamente nessuno, va detto), non ci fa comunque una bella figura.

E poi, una cosa che avevo dimenticato è lo stemperamento costante, la pessima notizia intervallata alla sciocchezza, al video virale che ti strappa più di una risata, la mappatura rigorosa del contagio subito seguita dall’angolo dedicato ai giochi che una madre si è inventata per intrattenere i figli in casa.

E’ questa alternanza del brutto e del bello, del serio e del lieve, ad avermi innamorata – tra le tantissime altre cose – di questo paese. Il fatto che non ci si prenda (in fondo) mai troppo sul serio, che ci si ammetta di rimanere bambini pur mantenendo un corpo d’adulti.

Aggiungere peso, sottrarlo. Parlare del contagio, illustrare con disegnini kawaii le indicazioni di rilievo, come lavarsi le mani.

Così alla fine di un notiziario che ti anticipa l’assenza di un altro mese d’asilo, un po’ ti metti le mani tra i capelli, un po’ pensi che la sera (che bello!) andrai a fare una corsa, e vedrai il mare e avrai il vento tra quegli stessi capelli.

L’energia per resistere, insomma, un po’ te la lascia.
Per me, almeno, questa cosa è importante.

#DiarioDalGiappone n. 10

Sento come una febbre, da quasi un mese e mezzo.

Mi coglie d’un tratto, sparisce, un giorno di tregua poi torna.
Forse è semplicemente un’influenza che non passa, forse un male del cuore che il corpo rappresenta, che gli dà forma.
Aspettiamo tre settimane, poi potrebbe (potrebbe!) esser finita suggerisce il governo.

Intanto procede tutto il discorso delle lezioni online. La precisione giapponese si applica a tutto, rassicura e, insieme, ti domanda se sarai in grado di sostenerla. Fare lezione dal vivo mi è sempre piaciuto un casino, io, italiana chiacchierona, molto fisica anche, che andavo ad affrontare con gioia giovanissimi uomini e donne che di quel diverso approccio alla lingua, al corpo, più in generale alla vita, godevano molto.
Me lo hanno sempre scritto a fine anno, che gli suggerivo un modo diverso di vedere le cose, che si divertivano un sacco.

Indosso l’abito comprato a NY nel 2006, strappato in uno dei miei interminabili viaggi in bicicletta da casa a Kichijoji all’università, a TUFS 東京外国語大学, quando ascoltavo audiolibri e macinavo chilometri e ore tra andata e ritorno.

Me lo ha riparato mia suocera Yoko, seguendo un gusto tutto suo, che forse dal mio si distanzia. Cerco di farlo aderire tuttavia anche al mio, che piuttosto che non indossarlo è meglio così. E la riconoscenza è la cosa che, in generale, mi muove di più.

E penso che dalla Grande Mela (che scopro da un amico scrittore non essere chiamata quasi mai così dai newyorkesi) alla melagrana (Tokyo, per me) il salto fu grande, eppure quasi inavvertito. Fu il mio primo viaggio da sola. Partivo ferita, un po’ disperata. La relazione che credevo (erroneamente) fosse la più importante della mia vita, era appena finita. Non “appena”, perché c’erano già mesi di mezzo, ma mi bruciava talmente comunque da crederla “appena”. Appena conclusa.

E d’improvviso New York, d’improvviso quelle strade tutte dritte che non c’entravano nulla con Roma e neppure nulla con Tokyo – che per me rimaneva ancora un labirinto, un mistero. E ricordo comprai in un negozietto di Soho vestiti che indosso ancora ora, abiti che hanno segnato momenti tra i più importanti della mia vita.

Uno a strisce bianche e nere, in particolare, con cui – sentendomi carina (cosa che, lo ammetto, mi è sempre capitato di avvertire abbastanza di rado) – sentii leggerezza sufficiente da rivolgere la parola, nell’ascensore dell’IIC di Tokyo, a un ragazzo che mi pareva di sapere, di aver conosciuto altrove. Era Ryosuke, con cui avevo condiviso un corso di letteratura all’università 国際基督教大学. Grazie a quel vestito oggi sono con lui.

Fu lo stesso vestito con cui feci una delle ultime visite all’ospedale Musashino-sekijuji 武蔵野赤十字病院 dove nacque Sosuke. Lo stesso abito con cui dopo una settimana, con il bambino in braccio, venni dimessa. In questo scatto, per la precisione.

Vai a vedere quanto conta un vestito.

#DiarioDalGiappone n.9

È la chiusura che colpisce la vista.

È come una porta chiusa in faccia, proprio nel momento in cui ci si avvicina, e l’altro si affretta, magari con una parola giustificata, ma in fondo quel che racconta, quello che il corpo ricorda, è che quella porta ti viene chiusa davanti. Che ti interdice il passaggio, che ti rifiuta.

È qualcosa che mi capita da sempre, di fare attenzione a chiudere il portone con gentilezza, a guardare con occhio furtivo che nessuno sia in zona e possa interpretare il mio gesto come un rigetto della sua persona. Forse perché è la sensazione che, in modo del tutto irrazionale, colpisce anche me.

Ed ecco che ogni porta ora è chiusa, ogni negozio, ogni caffè dove ho scritto a lungo, per anni, perché le storie in me nascono nel caos della vita che si dipana a mia insaputa.

E lo so che non c’entra con me, non sono così egocentrica da pensarlo. Che è per il coronavirus, che è per senso di responsabilità. Che sono solo tre settimane e poi si vedrà. Eppure ognuno di quei luoghi che frequento abitualmente sono come bocche serrate, narici che non tirano su nulla, occhi che si abbassano al mio passaggio.

L’unica cosa che mi fa sperare sono i disegni concentrici del legno, come sassi precipitati sulla superficie di minuscoli laghi, tutti ammassati gli uni accanto agli altri, e soprattutto quelle spaccature che mostrano il cielo al di là del portone, subito sopra alla scritta che recita 「本日定休日」 “Giorno di chiusura”.

Del resto un proverbio giapponese recita così:

「人生にぽっかり開いた穴から これまで見えなかったものが見えてくる」
Dagli squarci che si aprono nella vita si riescono a vedere cose fino ad allora nascoste.