Sasayaka o del piccolo “come”

「ささやか」sasayaka in giapponese è quanto è minuto e sottile.

“Piccolo” nel senso di circoscritto, lieve, contenuto nelle dimensioni eppure potente nell’immaginario, nella capacità di evocare una sensazione di benessere.

 Sasa ささ come uno dei suoni prediletti della lingua giapponese, nel senso di una brezza leggera che rinfresca, di una gioia piccina che allevia.

 L’anima in punta di piedi, si fa più leggera.

「ささやかな幸せ」 sasayakana shiawase ovvero “una piccola felicità”. Raffinata, quasi, come l’accordo dei sapori nei wagashi, nei rari sakura-mochi, scovati per caso al ritorno verso casa. Ritrovandoci per caso, io e Ryosuke sulla strada, lui in bicicletta tornando dall’asilo del piccolo, io a piedi da quello del grande. Tè nero per me, tè verde per lui. Una post-colazione che suona come un Buon Non-Compleanno. E l’inizio di un’altra giornata di lavoro.

I sinonimi di “piccolo” sono innumerevoli in italiano (minuto, impercettibile, contenuto, limitato, trascurabile, esiguo, minimo, scarso, modesto, piccino, piccolino, piccoletto etc.) e ognuno possiede una sua sfumatura. Così anche in giapponese.

La portata di questa parola, tuttavia, io la collego a un diverso ragionamento. Quello per cui non serva misurare il mondo perché spesso l’errore sta proprio nella tentazione di applicare un numero alle cose: cosa è grande e quanto, e largo, ma largo quanto? Importante? Ma molto importante o poco importante?

Anzi, mi dico, che se al quanto talvolta sostituissimo il come, saremmo probabilmente in grado di cambiare le cose. E non le cose in generale (che “le cose in generale” non esistono, proprio in generale), ma le cose che ci stanno più a cuore.

Mi ama? Ma quanto?

Mi ama? Sì? Bene! Ma come?

 Dell’amore, del tempo che si trascorre insieme, del resto, non è mai l’abbondanza, bensì la natura, il valore.

 Le proprietà precise di quel ricevere e di quel dare che ti spiegano come amare non abbia quasi nulla di naturale,  ma sia un esercizio costante di attenzione, di cura per sé e di cura per l’altro, che nessuno deve patire.

 Una domanda ripetuta periodicamente: come?

Approfondire l’amore

Tatuare l’amato era nel diciottesimo secolo una prova d’amore.

Lacerare frammenti di pelle, inserirvi l’inchiostro, soffrire le pene dell’inferno. Spiegare così il paradiso dell’amare e dell’essere amati in eterno. L’ultimo termine che l’ago picchiettava nel corpo era, per altro, inochi 命 la “vita”, dalla lunghissima coda, che suggeriva la devozione che sarebbe durata fino a quel termine ultimo.

L’amore moriva con la vita. E la pelle stava lì a testimoniarlo.

Katagawa Utamaro, Onitsutaya Azamino e Gontarō,1798-99

 

 

Emil Cioran scriveva che «Ha convinzioni solo chi non ha approfondito niente» e personalmente lo credo anche quando rivolto alla conoscenza di sé, quella sentimentale.

Mai credersi troppo.

Piuttosto confutarsi, domandarsi costantemente com’è che si ama, com’è che si detesta, com’è che l’interesse sparisce, com’è che l’affetto ritorna.

Amare, pertanto. Anche dichiararlo. Ma mettersi in dubbio un po’ sempre. Perchè inochi ha una coda lunga, sì. Ma quanto poi non si sa.
Mai mettere fretta all’amore.

 

Giorni di lettura e scrittura, in attesa dell’uscita in UK di Quel che affidiamo al vento  (The Phone Box at the Edge of the World), già “uno dei libri migliori del mese secondo Stylist .

“Carefully told and with great care, this feels a particularly resonating story right now” . E di questi giorni la notizia che i diritti del romanzo sono stati acquistati anche da una casa editrice americana. Uscirà nella primavera del 2021 anche negli USA.

La gioia, la gioia~❤

Lo stavi scrivendo per te

In questi ultimi mesi ho ricevuto centinaia di lettere e commenti e messaggi, sconosciuti che mi raccontavano la perdita di una madre, di un padre, di una nonna, di un figlio, di un’amica importante, lo sconvolgimento del paesaggio quotidiano, l’anima che veniva un poco a mancare.

Mi ringraziavano, infine, rendendomi fiera di un’idea se vuoi anche banale, ovvero che esista nel ricordo (che prende per mano l’immaginazione) una possibilità concreta di comunicare con chi non c’è più.
Che è donare la parola, l’amore. Più ancora che riceverlo.
Che non serve per forza una risposta alle nostre domande.
Che serve anzi ricrearla da sé quella risposta. Perché se abbiamo amato abbastanza qualcuno, vuol dire che quel qualcuno lo sapevamo anche un poco a memoria.

E paio ridicola forse, ma per la prima volta nella mia vita rileggo un libro che ho scritto – anche se a pezzi, perché di seguito io non riesco a rileggermi se non mentre scrivo – e cerco lo stesso conforto che quelle centinaia di persone mi hanno detto di aver trovato nelle pagine di Quel che affidiamo al vento. Cerco mio padre.

Quanto ironica può essere la vita – mi dico infine. Vedi Laura? Questo libro, in fondo, non lo sapevi, ma lo stavi scrivendo anche per te. Per tenerti per mano più avanti, quando fosse arrivato questo momento.

E mi faccio persino un po’ tenerezza.

Per un po’ non ne parlerò, ma tenevo a ringraziarvi dei pensieri e della delicatezza in queste ultime settimane.

Il silenzio è effettivamente la forma migliore di vicinanza secondo me. Grazie di cuore.

Quarantena che finisce

Il Giappone esce dall’emergenza.

Ieri sera è stato dichiarato lo scioglimento delle misure restrittive e tuttavia, prima che si ritorni completamente alla normalità, ci vorrà del tempo.

Ma è la gioia di sapere che un primo passo è stato fatto, che la vita costruita a fatica per anni, sta per tornare, anzi torna.
E insieme il dispiacere di cercare gli orari di apertura di due dei miei caffè preferiti dove andavo a scrivere ogni giorno prima dell’emergenza e scoprire che non riapriranno.

Sono sette giorni da quando mio padre non c’è più in questo mondo. Secondo la religione buddhista, di cui è impregnato questo luogo specialein cui vivo, il settimo giorno è un giorno importante per la preghiera.
E io so che è avvenuto un trasloco in questi giorni di grande dolore. Papà è altrove, stretto stretto dentro il mio cuore.

E qui una fotografia postata, in fondo, solo per manifestare la gioia di essere al mondo, nonostante tutto. Perchè quell’uomo alto a sinistra, che è Ryosuke, è la mia casa, ovunque. E quel piccino da basso che non la smette un attimo di parlare è Sosuke ed è colui che mi ha reso madre, e l’altro, appeso al corpo del padre, è Emilio e lui non fa che ridere, dire cose assurde e stringere forte le cose e le persone tra le sue manine, proprio come faceva mio padre.

Che questa lunga, lunghissima quarantena che finisce, sia il preludio di un nuovo sbocciare nel mondo. Perchè, come diceva quella splendida monaca giapponese di cui ho parlato tante volte:

“Dove sei stato posato, fiorisci”.

L’ora-portale  

Alle 11:11:11 si apre un portale. Alle 4.44.44 della mattina qualcosa si muove.

La mente si sveglia.

C’è in ogni ora un’ora segreta. Anzi, un secondo. Un punto precisissimo di consapevolezza. Lì dove la luce cade diritta e non sbaglia. È il puntino rosso del cecchino che mira, con quella luce che vede solo lui e pure tu, che sei davanti allo schermo al cinema e stai col fiato sospeso per una cosa che, davvero, neppure c’è. Eppure, dalla tua poltrona, immagini tutto il resto della vita che non va sotto il bisturi del chirurgo, che non viene ripresa, e che invece accade davvero. Qualcuno, nel mondo, in questo momento spara. Qualcuno cade ammazzato.

Ma lì, nella circonferenza imperfetta di quel puntino di luce ecco che l’ora si apre. 22.22.22. 13.13.13. Si sventra solo per te. No, solo per me.

Lì dove l’ora è uguale. Cinque cinque cinque. Tre tre tre tre tre tre.

Forse è l’attesa che mi tranquillizza, l’idea che io sia consapevole del tempo che passa. Almeno in quella minuscola finestra. E che poi, così come sono rimasta concentratissima nell’avvertirne l’istante di sosta, io lo lasci andar via.