Condividere più che insegnare

Quando mi si domanda perché ami scrivere, viene sempre per prima una risposta tra le tante: perché adoro studiare.
Su questo tavolo tondo – unica forma che ho ammesso negli anni – le ultime fasi di preparazione del corso per la Scuola Holden sul tema dell’Altrove, in partenza il 16 di questo mese.
Il corso è andato in SOLD OUT ma ho dato la disponibilità per un 2° corso che partirà a marzo.
Più che l’emozione dell’insegnare, è forte il sentimento del #condividere che, per me, è la chiave per comunicare il senso di meraviglia, la conoscenza profonda delle cose.
Se non le si ama le cose, anche le più brutte, è impossibile spiegarle. Un comico e l’oggetto della sua satira, ad esempio, uno scrittore e una periferia anche molto degradata, un istruttore e le potenzialità dell’allievo pure poco dotato.
E quindi sì, io non vedo l’ora 💕

La commemorazione dei morti è la celebrazione dei vivi.

La commemorazione dei morti è la celebrazione dei vivi.
L’ho capito esplorando negli anni i tanti modi che hanno i giapponesi di curare il ricordo dei propri affetti, l’idea straordinaria per cui non vi sia una priorità della vita sulla morte, ma un’accettazione tanto piena da considerare la seconda come acqua da versare abbondante sulla prima, sole per farla rigogliosa, terra nutriente per sostenerne la crescita.
Questo è l’altarino dedicato alla Gigia, la nostra cagnolina Welsh Corgi adottata in un canile di Tōkyō tant tempo fa, e morta circa sei anni dopo.
Mia suocera lo cura da allora. Le sue ceneri, il collarino tutto consumato in cima, giochini che amava, oggetti acquistati per richiamarne la memoria, cibo gustoso in scatoletta persino, lì a sinistra.
Il ricordo non serve al futuro, mi dico guardando ogni volta questo angolo del soggiorno dei miei suoceri. Tutto sparisce nel futuro, anche il ricordo. Allora, esso serve a conservare piuttosto dentro di sé quell’amore provato. Perché l’amore rende migliori davvero, non solo per l’oggetto diretto di quel sentimento, ma in genere proprio.
L’empatia, del resto, è secondo me “amore immaginato”.
Per questo guardo mia suocera e penso sia intatto dentro di lei l’amore per Gigia. E questo non solo la consola ma la rende la persona meravigliosa che è.

“Storia della mia pelle”

Fin da piccola ho un’ossessione. Dove finiscono, dove iniziano le cose? Dove? Esattamente dove?

Il confine di una spalla, ad esempio, il punto esatto in cui si tramuta in schiena; oppure la luce quando, aprendo una serranda, tutto inonda – il momento in cui tutto esce dal buio e si mostra.

E un sentimento: dove finisce, dove inizia?

Fin dai tredici anni ho avuto una pelle complicata. Dallo sviluppo, certo, ma soprattutto dall’idea di dover essere perfetta.

Perché avevo piccoli brufoli in viso, impercettibili a volte, appena dolenti, invisibili anche. Ma il punto non è mai avere le cose, è gestirle.

Mi sono massacrata per anni, con le dita, con le unghie, talvolta con cosechelasciastare, e mai per sbaglio o disattenzione. Ferite profonde, croste, un campo di fragole che celavo col trucco, interdicendo a chiunque la possibilità di vedermi struccata. Ho coperto in casa gli specchi per decenni per evitare di notare l’imperfezione e infierire – e ancora oggi i miei storici amici ricordano gli specchi coperti nel bagno, le lampadine che non cambiavo appositamente, Ryosuke che prima di uscire di casa doveva mettersi in punta di piedi per controllare di avere i capelli messi per bene e la barba, niente, c’era solo da rinunciare perché sullo specchio avevo attaccato il giornale. E c’è da ridere forte a ricordare quest’uomo gentile che per un anno intero (davvero) si è messo due bende incrociate (da pirata!!! di quelle che si acquistano in farmacia) per dormire con la sottoscritta.

E poi?

E poi è successo che, circa tre anni fa – senza rendermi conto di cosa iniziasse, di cosa finisse – ho smesso.

Come è successo? Non ne ho idea, mi è uscito di mente.

E ora sono liscia liscia, esco struccata di casa, e se anche qualcosa compare, lo lascio stare. È uscito dalla mia sfera di attenzione.

Allo specchio del bagno di casa nostra, tuttavia, ancora aderisce uno strato di carta speciale su cui ogni anno, ad ogni compleanno, Ryosuke mi scrive un messaggio di auguri – per me che tanto soffro quel giorno (non per l’età, no, ma per l’aspettativa di una gioia che mi rende sempre un po’ triste), archeologia del ricordo della mia pelle, divenuta, suo malgrado una lezione.

Perché la morale di questa storia della mia pelle è che non esiste morale. Che non c’è modo di interrompere nulla né, spesso, di farlo cominciare. Serve solo avere fiducia nel fatto che molto inizia e tutto finisce.

E che non pensare alle cose è impossibile esattamente come pensare alle cose.

Negli interstizi del mondo

Io Tokyo la individuo in queste presenze.

Appoggiati a un muro, seduti su uno scalino, sul retro di una stradina vivace come Cat Street ad Harajuku. Intenti, tutti, a prendersi cura delle loro minuscole vite.

Sono esattamente queste presenze, sul retro, nel risvolto di una manica di un incrocio iper affollato, sul versante opposto di un ristorante davanti cui fanno la fila decine di persone – lì, sulla porta spalancata delle cucine di quello stesso ristorante, dove un cuoco sbuffa e una cuoca sorride affettando della verdura, la luce arancio che si fa più intensa intanto che cala la sera.

 

E’ nella gente che, come scrivevo in Tokyo tutto l’anno, pare vivere negli interstizi del mondo.

Io la trovo bellissima.

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°Harajuku, qualche giorno fa.

Come?

Come li scrivi i libri nonostante il lavoro universitario, i bambini piccoli, tutti gli altri lavori paralleli che comporta la scrittura?
Svegliandomi alle 5 della mattina, o prima. Uscendo con le stelle e la luna ancora in cielo.
E ammalandomi tanto…