Gente che si dà in un’altra lingua
“Io non ho paura, perchè …non ho … potege…”
E’ una frase piena di pause, quelle dell’incertezza della lingua che non sa, dell’italiano che inciampa nell’inglese e cerca di spiegare il pensiero in giapponese.
Ha i capelli tinti d’un rosso artificiale, porta gli occhiali ed ha i lineamenti che emergono tondeggianti dal quadrato del volto. Un naso importante, labbra grandi e bocca larga. Un’incertezza che avverto e non conosco.
“Potegere? Perteggere?”
“Perdere?” suggerisco io anticipando per evitare frustrazione. Lo faccio sempre quando uno studente cerca invano di spiegarsi perchè i secondi che passano scavano una voragine tra il pensiero e la parola.
“No, proteggere” precisa lei che infine si è trovata.
“Io non ho paura, perchè non ho più nulla da proteggere”
Capita che nelle prime presentazioni, quando si deve parlare di un sè generale alla classe – chi sono, cosa faccio, cosa mi piace, chi c’è nella mia vita – ci si nasconda un po’ per imbarazzo, un po’ per una forma di modestia tutta giapponese, un po’ perchè non si hanno strumenti sufficienti per raccontarsi. Ma capita anche che durante la jikoshōkai 自己紹介 “la presentazione di sè” ci si sveli, affinchè di lì in poi non vi siano più domande che possano far male.
Forse è per questo che M-san da subito lo dice. Immediatamente dopo il nome.
“Mio figlio è morto dieci anni fa, in un incidente stradale”
E ci tiene a ripetere quella frase. Che non ha più paura, che niente le può più fare male perchè il peggio lei l’ha già provato.
“No, io non ho paura, perchè non ho più nulla da proteggere”
E’ una ex insegnante di giapponese delle scuole medie. Ora insegna tennis ai ragazzi come volontaria. Dopo il pensionamento ha iniziato a studiare l’italiano.
Perchè proprio l’italiano?: chiedo sempre a tutti dato che mi incuriosisce sempre tanto sapere cosa spinge persone così lontane dal mio paese a studiare una lingua che viene parlata quasi esclusivamente in Italia. E del resto è la stessa domanda che loro rivolgono a me circa il giapponese.
E’ perchè ha studiato il francese all’università e la pronuncia le risultò troppo complicata. E allora ha pensato che avrebbe potuto studiare l’italiano. Le piace anche la pronuncia, le piace tanto.
Racconta che suo marito dopo la pensione ha iniziato, invece, a studiare la storia e la filosofia del buddismo. Va ai corsi extracurricolari di una delle tante università che ci sono a Tokyo. Vi si organizzano lezioni nel weekend oppure la sera per i cosiddetti shakaijin, ovvero quelle persone che sono già inserite nella società, e “studiano part-time”. Li ospitano in aule che di giorno vengono affollate invece da quelli che mirano un giorno a diventarlo, shakaijin: giovani studenti spesso pigri e sonnolenti che incontro le mattine di ogni mia settimana.
Così, nei discorsi di questa coppia che si sta facendo anziana e che deve aver sofferto tanto, si mischiano buddismo ed italiano in un connubio che sarei tanto curiosa di ascoltare.
L’italiano per i giapponesi è terapeutico. Si aprono strade da percorrere anche trafelati, con i bigodini in testa. Perchè nella lingua della pasta e della pizza, dei sorrisi e dei gestacci con le mani, si sentono liberi di reinventarsi.
Le formule indirette proprie del giapponese saltano, come ordigni ormai disinnescati, vengono risucchiate dalla forza, persino dalla violenza della lingua. Perchè in italiano bisogna dire o non si verrà capiti e non è più ovvio, come invece accade in giapponese, che l’altro capisca senza bisogno che si dica.
Molti giapponesi dall’Italia tornano cambiati, più aggressivi, più diretti, tanto che del corpo fanno un tutt’uno con la mente. Sembra un paradosso ma a volte fatico persino a rapportarmi a loro. Diventano ibridi, nella stessa misura in cui un ibrido sono diventata anch’io, vivendo tanto fuori dall’Italia. I giapponesi che scelgono l’Italia rifiutano per istinto ampie pezze di Giappone. Così, anch’io, benchè intimamente innamorata del mio paese, soffrirei nel dovermi calare nuovamente nella sua realtà sociale, nei meccanismi che regolano il quotidiano del Bellissimo Paese. Sarei pesce senza acqua, lama senza manico, porta senza chiave.
“Ehy, che stai a fa’?” esordiva un ex studente che parlava così bene l’italiano da rendere innecessarie persino le lezioni. La cadenza romana, il tono alto della voce, l’ironia continua sui giapponesi. Una sorta di piaggeria per accaparrare il mio consenso, per dire “anch’io sono italiano, anch’io la penso come voi”. Ma io ho cambiato idea e non la penso più nè come noi nè come loro. E soprattutto fatico sempre più a individuare un noi e a stabilire un loro. Dico “noi” per dire Italia ma sento assottigliarsi il potere del pronome.
Così, una donna che si presenta per la prima volta a me e alla classe e dice in italiano che non ha più paura, che niente le può più fare male, mi scatena pensieri e ricordi, il sentimento dell’ibrido e la percezione traballante di un pronome soggetto. Del non essere nè fungo nè cavolfiore, nè rabbia nè passione, nè italiana nè giapponese. Sempre straniera ovunque andrò o ritornerò.
Ma la familiarità, mi dico, è probabilmente una cosa che si crea alla stessa stregua di un tavolo, la cui superficie la si lima con gli strumenti del mestiere, con le mani e infine con l’uso finchè non sarà liscia e piacevole al tatto, le cui gambe vai ad accorciare di un millimetro alla volta per rimetterle al giudizio del pavimento. Un’approssimazione perenne destinata a non incontrare perfezione.
Ripenso poi alla paura che questa donna magra con gli occhi grandi e i capelli rossi mi insegna essere sentimento che si fugge ma che racconta tanto non solo di ciò che manca e si vorrebbe ma soprattutto di ciò che si ha.
Di tutto quanto – che è spesso tanto – si vuole proteggere.
E rivaluto le mie paure più profonde, testimonianza della vita che amo, delle persone a cui tengo, di tutto ciò che ho.
Ci sono donne intorno a me che perdono figli, che hanno vissuto e mai superato dolori immensi che le hanno risucchiate. E’ gente che si dà in un’altra lingua. E’ gente generosa.
Chiunque abbia una storia da raccontare la racconti. Il mondo, sono certa, cambierà.
Credo che ti aspettassi un mio commento… ed eccolo subito; l’articolo è molto bello e toccante, ha rievocato in me tante cose, i giovani lutti che hanno squassato la mia famiglia, le diverse reazioni piene di coraggio…
…ed ovviamente non posso non pensare alla mia Yumichan, che vive in Italia, nella sua Italia che si è costruita e che le ho dato … noi la chiamiamo Giappino…lei è molto Giapponese dopo 12 anni che è in Italia, forse perché il nostro lavoro le permette di andare nel paese del sol levante due volte all’anno per un mse o più alla volta, ma quando è un po’ che è là cambia torna giapponese ad alte percentuali e io devo star molto più attento a quel che dico e quando torna in Italia fatica a riadattarsi al nostro diverso modo di vivere e sentire…ti faccio un esempio quando parte all’aeroporto ci baciamo…quando torna ci baciamo solo quando rientriamo a casa…non so se mi sono fatto capire…
Certo che quando è in Giappone con me è ancora diversa, è là che là vedo più sicura e fisica come dici tu…qua in Italia invece si deve sforzare per non farsi schiacciare e forse io ho sbagliato, sbaglio e sbaglierò, l’ho sempre protetta e del resto l’ho promesso anche a suo padre di proteggerla per sempre 🙂 … Ciao Laura adesso ci viene a trovare un’amica di Tokyo che studia Italiano … è bello il nostro mondo fatto di due mondi! O no?
il potere di un testo ben scritto come il tuo è che ti fa compagnia a lungo e ti viene a cercare nella mente anche dopo un po’ di tempo…ed ho capito meglio anche chi ho sempre ( o quasi ) vicino a me e che ha preservato la sua giapponesità perché ha avuto la fortuna di leggere, scrivere, ascoltare, guardare ( grazie al web) il suo Giappone…e quando è sola con me e i nostri più intimi non ha bisogno di indossare un’armatura che mette con gli estranei..lo sai Laura, la sua voce è diversa se parla con chi la fa stare a suo agio o con estranei… un giorno quando avremo modo di conoscerci sentirai la sua voce da esterno 🙂 che confemerà appieno le tue parole del post, se avremo modo di incontraci più volte sentirai l’altra voce, la sua, più infantile e gentile…^^
Viviamo fra due mondi, tre, quattro, cinque. Viviamo con le braccia aperte sul mondo. Imaginary homelands, le chiamava Rushdie. Siamo nati altrove, Laura. Forse è solo questo: siamo nati in Italia, sì, è indubbio. Eppure siamo rinati, interi e consapevoli, adulti-bambini in altre latitudini. Toccante questo post. E penso ai dolori, alle persone che abbiamo amato e non siamo riusciti a proteggere. Grazie, come sempre per la magia. Immensa.
L’idea di nn avere più paura perchè non si ha più niente da proteggere fa venire i brividi. Persone così che nonostante tutto vanno avanti, trovano un modo per andare avanti, verrebbe voglia di abbracciarle subito. Potresti farlo tu per me? Bellissimo post come sempre!
Che storia meravigliosa, grazie.
questo articolo meriterebbe un premio letterario. grazie!
bellissime parole!!
Si.. stupendo ..
Troppo bello l’articolo Laura mi piace
che post, Laura
Meraviglioso.
Bellissime sensazioni hai permesso di entrare in me con queste righe … In quello che hai scritto ci leggo l’importanza della condivisione … Il raccontarci all’altro …il darsi in un’altra lingua … Bello bello …
” Sempre straniera ovunque andrò o ritornerò.”
Già, la mia situazione da anni. Ma va bene così. Non mi dispiace affatto. Mi sembra una condizione che mi permette di godere di ciò che di positivo un Paese offre o di vedere in modo più lucido i suoi difetti. è una condizione che mi permette di adattarmi con facilità ad altri ambienti, a differenza di chi li rifiuta a priori perché sono diversi.
Concordo in pieno!ù.ù
Grazie per darmi ancora una volta uno spunto sul quale riflettere!
Quando tornai 2 anni fa dal Giappone, per diverso tempo mi sentii una straniera nella mia città natale, in quello stesso paesino dove sono nata e cresciuta, che conosco da sempre. Un sabato, qualche settimana dopo il mio ritorno, andai con mia madre a prendere il pane, come era nostra abitudine prima che partissi: un’azione normale e semplice, nulla di straordinario. Il panificio era pieno di gente, come sempre. Incontrai delle persone che mi chiesero com’era andato il mio viaggio-studio in Giappone (quelle volte che azzeccavano il Paese, perché di solito usciva Cina…”Ma sì! In fondo Cina, Giappone, Corea! E’ tutto uguale!”) con un tono così diretto e incurante che mi irritò parecchio (ma in fondo è il tono tipico italiano, e infatti con il passare del tempo mi sono riabituata a sentirlo e ad accettarlo), condite da quella sciocca convinzione che il Sol Levante è Marte, dove vivono dei marziani sempre sorridenti, furbi, falsi, troppo inquadrati e soprattutto strani, denominati giapponesi. Bisogna però essere sempre cortesi e così rispondevo con velata ironia, con un tono pacato e con un sorriso stampato sulle labbra, ma non esagerato…quasi accennato. Per la prima volta vidi un nuovo tipo di sguardo nei volti dei miei compaesani; in principio sembravano increduli, quasi non capissero cosa stavo dicendo (e per lungo tempo ho creduto di parlare sul serio un’altra lingua), poi i loro occhi, le loro bocche e le loro guance si piegarono insieme in una smorfia di malcelato dissenso: “Sei andata su Marte e sei tornata marziana! Sei una di loro!”. La confusione e il chiacchiericcio che regnavano in panificio mi stordirono: quello non era più un luogo familiare, quella non era più un’azione che apparteneva alla mia quotidianità.
Dopo aver vissuto a Mestre e a Venezia da sola, e dopo esser stata (seppur per brevissimi 3 mesi) in Giappone in un mini-mini-mini-appartamento (ma era il mio mini-mini-mini-appartamento), ritornare nella casa dei miei genitori, nella mia città natale è stato per me un trauma: straniera in casa mia, straniera nella mia città, straniera nel mio Paese.
Come straniera sono stata in Giappone, in Francia, in Spagna, in Germania, in Irlanda, in Finlandia, in Brasile e così via. Proprio perché sono consapevole di essere straniera, mi sento libera di poter andare ovunque e di adattarmi tranquillamente e rispettosamente agli stili e ritmi di vita dei nativi di quel determinato Paese; allo stesso tempo però sono italiana, e lo rimarrò per sempre. Così divento puntualmente un ibrido, né italiana né giapponese (o francese, ecc.). Guardiamo, però, il lato positivo: non conta ciò che non sono, ma solo ciò che sono, ed essere un ponte, una via di mezzo tra due Paesi, due culture, due lingue, due realtà e due popoli, per me è solo un grande onore.
Tempo fa ho conosciuto degli studenti giapponesi qui in Italia e alla mia domanda “Perché proprio l’italiano?” loro mi hanno risposto, con un’espressione del tipo “Ma come?! E’ così ovvio!”, che qui in Italia abbiamo tutto: belle città storiche e artistiche, panorami naturalistici fantastici, un’esplosione di arte (dalla pittura alla scultura, all’architettura), di musica e di moda, prestigiose scuole di liuteria, una cucina squisiti e famosissima. Inoltre l’italiano ha una bella musicalità (me l’hanno detto, ma essendo italiana questa musicalità non la sento; come d’altro canto loro non capiscono perché trovo musicale il giapponese). Il nostro Paese è ricco e solo quando perderemo tutta questa abbondanza di preziosità, capiremo il senso del vero valore.
Uuuuuhm…scusa Laura!>.< Ho scritto un po' troppo!!! Chiedo venia!é.è Chiara
Grazie.
Vorrei farti i complimenti per questo bellissimo e toccante pezzo. So che forse il parallelismo non è dei più azzeccati ma, leggendoti, mi sono venuti in mente due film, Poetry e Italiano per principianti. Entrambi avevano come comun denominatore il linguaggio come forma di difesa e, al tempo stesso di ponte. Il tuo post però va oltre: ha tutta la sensibile delicatezza di quelle persone che convivono in realtà così diverse da quelle in cui sono nate e che oggigiorno , in modo piuttosto sbrigativo, si vuole abbreviare in expats. No, c’è di più e persone sensibili come te lo dimostrano. Bye&besos
mi piace molto seguirti, soprattutto per questo. punti di vista che fanno riflettere e rivedere certe priorità. grazie laura =)
Di articoli belli ne hai scritti tanti, Laura, ma questo ha davvero del magico. Mi hai commosso!!!
articolo straordinario. SCRITTO BENISSIMO, RICCO DI VERITà. COME LA MIA. MI ci sono ritrovato in pieno, io, che ho incominciato a studiare giapponese da un mese, a cinquntuno anni e che apparentemente non ne conosco le ragioni, quì cosi mirabilmente spiegate. spiegate anche per me. complimenti
A quest’eta’ l’apprendimento va veloce. Te lo dice una che si occupa di didattica teorica e applicata da anni. L’eta’ potrebbe sembrare un problema e invece le persone che superano i 30 sono piu’ motivate dei diciotteni e imparano piu’ in fretta! ^o^
Ganbatte!!!
Articolo meraviglioso. Complimenti.
Quando ho iniziato ad avvicinarmi alla cultura giapponese, vi ero “inciampata” mentre curiosavo tra anime e manga =)
Non so bene come spiegarlo, e non è chiaro nemmeno a me, ma leggendo e scoprendo le tradizioni, la quotidianità, non c’era nulla che mi stupisse, ho avuto la sensazione di ricordare =) forse non è proprio così, ma non so come altro dirlo. Così come la cultura inglese, che amavo da prima poiché era già la passione di mia mamma, anche con quella giapponese, è diventato, diciamo, amore a prima vista.
Mi vergogno un po’ a dirlo, ma so più del Sol Levante che del mio stesso paese, e in un certo senso, è perché mi ci sento più vicina, pur non essendoci mai stata.
A volte, spesso, noi italiani sentiamo il bisogno irrefrenabile di dire, parlare, comunicare, ogni singola cosa. Non ho mai sentito questo bisogno, credo fermamente che non ve ne sia la necessità, che anche il silenzio si può ascoltare e comprendere.
Questa è una delle mille cose che mi fanno sentire il cuore diviso in tre: italiano, inglese e nipponico =)
Grazie Laura per i tuoi post splendidi, e per la possibilità che ci dai di esprimere il nostro pensiero.
Ecco che, da brava italiana, posto un commentino anch’io =)
Bellissimo articolo! Mi hai spinto a lasciare per la prima volta un commento. Complimenti per il blog. Sono affascinata dalla cultura giapponese. Vorrei iniziare a studiare la lingua, ma a 37 anni forse é tardi…?
Tardi? Ma scherzi? Non è mai tardi per nulla. Oltretutto questa frase me la sono vista porre da persone più grandi e anche molto piccole di te. No, non è assolutamente tardi. Trova un buon insegnante e inizia questa avventura! :*
Ciao Laura,
ti leggo sempre, ma non so mai cosa commentare perché rimango a contemplare quello che scrivi, la profondità con cui cogli i dettagli, la delicatezza con cui li descrivi.
Però questa volta… devo commentare ! 🙂
Sto studiando giapponese all’università, sono al primo anno.
Tutte le volte è una piccola sorpresa sentire me stessa pronunciare una frase in giapponese o riuscire a capire qualche segmento di discorso. Più comprendo la fatica di immergersi in un altro sistema linguistico, più guardo gli stranieri che parlano italiano, soprattutto gli asiatici, con occhi ammirati e curiosi.
Gli amici stranieri conosciuti in università sono una fonte inesauribile di ricchezza culturale. Quando traducono letteralmente i loro modi di dire aprono un mondo sulla loro cultura.. ed è come se “reinventassero” l’italiano conferendo ad esso nuove modalità di espressione. Perché, per quanto possano essere precisi nella grammatica, portano dietro un bagaglio che non è nostro. E allo stesso tempo siamo tutti “fatti della stessa pasta”. Non c’è niente di più affascinante.
Complimenti per tutto, ti ammiro davvero tanto per il tuo lavoro, per come scrivi.. e per come vivi 🙂
Ludovica
mi sento messo in causa essendo italiano e buddista. Mi rapporto al Giappone studiando proprio il buddismo e leggerti è stato un deja vù della mia mente quando cerco di capire i giapponesi grazie
Ti adoro – e adoro il giappone – ogni giorno di più
Ogni volta che leggo questo post cerco di mettere per iscritto i mille pensieri che mi passano per la testa…un sacco di domande , dubbi e opinioni che poi mi sfuggono….e alla fine cancello le mie parole e rimando alla prossima lettura.
Non so se questa sarà la volta buona…proviamo….
Trovo in un certo senso triste che molti giapponesi cerchino di cambiare, di “occidentalizzarsi” per così dire, perchè personalmente trovo questo paese e la sua cultura affascinanti oltre ogni dire…
A volte chiudo gli occhi e penso ” adesso mollo tutto e parto e non torno più,,,mi butto in questo fantastico mondo e ricomincio da capo”.ma è in quell’istante che mi accorgo che questo mio pensiero è altrettanto triste, perchè alla fine siamo uguali…io vorrei “orientalizzarmi” quanto loro vorrebbero occidentalizzarsi….
Allora mi chiedo se ci sia un modo per essere tutte e due le cose…per amare la passione italiana per la vita e allo stesso tempo perdermi nella spiritualità giapponese.
Anche io vorrei imparare il giapponese, ci sto provando con l’aiuto di una ragazza di Kyoto che ormai è “italiana” da 10 anni, ma ammetto che fatico moltissimo.
Spero di farcela perchè voglio tornarci…ancora e ancora …
Non sono riuscita nemmeno questa volta ad afferrare pienamente i miei pensieri…ma stavolta penso che non cancellerò il post…magari mi aiuterà la prossima volta.
Grazie Laura 😉
Grazie a te Monica. Mai un commento banale. Amo molto leggerti… :*
Ho conosciuto pochi giorni fa la famiglia che mi ospiterà l’anno prossimo per un mese e una delle cose che mi ha colpito di più è stata una frase di uno dei due coniugi che ha detto “dalla prima volta che sono stato in Italia il mio cuore è cambiato, ora sono 30% giapponese e 70% italiano…mi piace definirmi giapporiano”…io ho provato la stessa cosa la prima volta che sono stata in Giappone:)