È tutto un frugare tra le emozioni per trovare quella più giusta.
È fortissimo il potere dei numeri.
Nelle ultime trentacinque notti ho dormito abbracciata al bimbo di due anni. Ho avuto in bocca la lanugine dei suoi capelli venuti fuori biondi, contro ogni attesa. Ho dormito fino a saziarmi dell’alba, dell’insonnia patita negli ultimi anni. I piccoli calci distribuiti sulla mia schiena quando al risveglio Emilio sale, sale verso il limitare del letto, come volesse sgusciare fuori da un guanto.
Negli ultimi venti giorni ho sillabato a me stessa consigli. La ripetuta litania delle raccomandazioni. L’invito a non anticipare nulla. Che nulla – per quanto lo si tiri a sé, per la manica, per il bavero della giacca – arriva prima del tempo.
Negli ultimi ventidue pomeriggi ho iniziato a riflettere su come la Storia la si faccia ogni giorno e su come, insieme, essa cresca, d’un tratto, alla stessa maniera in cui invecchia la gente. Non poco a poco, ma a intervalli, come se l’età fosse acqua e goccia a goccia riempisse il vaso che d’un tratto trabocca. E lì, in quel rompersi dell’equilibrio di resistenza, appaiono rughe, l’età fino ad allora non percepita travolge i lineamenti, ammorbidisce o imbolsisce definitivamente una figura.
«Siamo in una pagina di Storia» mi sono detta. «Ci siamo finiti dentro un po’ tutti».
Un giorno, nei libri di scuola, parleranno della pandemia scoppiata nel secondo decennio del XXI secolo, di come iniziò, di come si diffuse, di come reagì la popolazione, delle conseguenze politiche ed economiche che comportò. Delle soluzioni esatte, delle soluzioni sbagliate. Parleranno di noi, come di una massa senza volto singolare, come di una folla che – in attesa di una soluzione (che di certo sarebbe arrivata) – frugava tra le emozioni per trovare quella più giusta. .
Nasceranno romanzi, nuova letteratura, storici recupereranno diari per sapere cosa accadeva, in una città o in un’altra, su una frontiera, tra minoranze.
Scrivendo dello tsunami del 2011, quanto la vita in Giappone parve per decine di migliaia di persone conclusa, e un dio (quale poi?) assente, la gioia sparita, ho scoperto di cosa si lesse in quei giorni. Di cosa, per la precisione, leggessero i sopravvissuti che lottavano con l’inutilità che gli pareva contagiare ogni resistenza.
Nelle biblioteche itineranti, nel post-tsunami del 2011, il libro più letto fu Uno psicologo nei lager di Viktor E. Frankl.
L’avevo comprato anni prima, perché Ogawa Yoko spesso lo citava. L’ho scandagliato di nuovo, alla ricerca del senso. Ho isolato, tra tante, una pagina che è pura speranza. Lì, sotto le suole del mondo, dove il male non era natura ma uomo, ecco che un altro uomo, un internato tutt’ossa che aveva perso ogni cosa parlò e disse qualcosa che avrebbe rimesso in piedi chi la speranza la voleva nutrire, a dispetto di tutto. E non solo nei disgraziati scheletrici di fronte a sé, che cercavano vita lì dove, anche il giorno seguente, avrebbero potuto trovare con ogni probabilità la morte, ma anche in generazioni di lettori, che vi trovarono dentro il senso non di una vita, ma della Vita. Quella di tutti.
La leggo qui, con voce imprecisa, per chi la vuole sapere.
Sono giorni eccezionali.
È tutto un frugare tra le emozioni per trovare quella più giusta.
Cerchiamola, diamole un nome. Ne avremo meno paura.