#DiarioDalGiappone n.9

È la chiusura che colpisce la vista.

È come una porta chiusa in faccia, proprio nel momento in cui ci si avvicina, e l’altro si affretta, magari con una parola giustificata, ma in fondo quel che racconta, quello che il corpo ricorda, è che quella porta ti viene chiusa davanti. Che ti interdice il passaggio, che ti rifiuta.

È qualcosa che mi capita da sempre, di fare attenzione a chiudere il portone con gentilezza, a guardare con occhio furtivo che nessuno sia in zona e possa interpretare il mio gesto come un rigetto della sua persona. Forse perché è la sensazione che, in modo del tutto irrazionale, colpisce anche me.

Ed ecco che ogni porta ora è chiusa, ogni negozio, ogni caffè dove ho scritto a lungo, per anni, perché le storie in me nascono nel caos della vita che si dipana a mia insaputa.

E lo so che non c’entra con me, non sono così egocentrica da pensarlo. Che è per il coronavirus, che è per senso di responsabilità. Che sono solo tre settimane e poi si vedrà. Eppure ognuno di quei luoghi che frequento abitualmente sono come bocche serrate, narici che non tirano su nulla, occhi che si abbassano al mio passaggio.

L’unica cosa che mi fa sperare sono i disegni concentrici del legno, come sassi precipitati sulla superficie di minuscoli laghi, tutti ammassati gli uni accanto agli altri, e soprattutto quelle spaccature che mostrano il cielo al di là del portone, subito sopra alla scritta che recita 「本日定休日」 “Giorno di chiusura”.

Del resto un proverbio giapponese recita così:

「人生にぽっかり開いた穴から これまで見えなかったものが見えてくる」
Dagli squarci che si aprono nella vita si riescono a vedere cose fino ad allora nascoste.

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