Della mediazione e dei treni giapponesi
Mi alzo due volte, con estrema fatica. Ma conosco quell’altra fatica, di tirarsi dietro una vita che oltretutto, non sempre si aggiusta ai ritmi del corpo ospitante. Il ricordo della gravidanza è recente, i segni li ritrovo nello specchio durante la doccia, nei lombi che paiono cartapesta.
L’azienda giapponese di messaggistica istantanea LINE si è inventata un’applicazione per permettere a chi è incinta e desidera sedersi, e a chi siede ed è disponibile a cedere il posto ma vorrebbe farlo con discrezione, senza sbracciarsi, di comunicare a bordo dei treni. Si inserisce la propria posizione nella carrozza, il sedile occupato, per dire il secondo dal fondo. Spiega tutto in dettaglio un servizio alla tv.
«Mi vergogno a rivolgere la parola sul treno» confessa un giovane salaryman. «Vorrei cedere il posto, ma a volte è complicato»
«Non mi piace dover attirare l’attenzione mostrando la pancia o il simbolino attaccato alla borsa» lamenta una donna con un bimbo piccolo in braccio.
Nelle due gravidanze trascorse dal principio alla fine in Giappone è stato francamente difficile conciliare l’immagine di un popolo tanto garbato e generoso, con la mancanza pressoché totale di offerta del posto, neppure nelle aree riservate del convoglio.
Ho cercato ragione nella percezione del treno, che per i giapponesi è il prolungamento della propria casa, e ogni orario è spesso studiato millimetricamente al fine di trascorrere una crociera serena, sedersi e recuperare un poco di sonno, concludere una bracciata di lavoro, l’estremo ripasso per l’esame del giorno. Possibile attenuante sta anche nel fatto che i treni sono tanti e a intervalli così ravvicinati che si può riuscire, a propria volta, a pianificare un viaggio che schivi gli orari di punta, il congestionamento di certe tratte. Tuttavia resta il fatto che il posto non viene ceduto. Che una donna incinta che si ritrova su un treno affollato, ha poche speranze di vedersi aprire uno spazio a sedere.
Ed ecco dove si inserisce, in questa fessura di indugio, nel tentennamento dell’intenzione irrealizzata, la applicazione del cellulare che segnala il treno su cui si salirà, il bisogno a seconda, la disponibilità.
Mi stupisco di come l’immediatezza di un «Prego, si segga» risulti di gestione complessa, di come il meglio di sé sia avvolto (fino quasi a risultare nascosto) da un ineffabile senso di vergogna.
Non sono solita dare giudizi, trovo molto più arricchente cercare i motivi, tanto più quando lontani da me e dal mio modo di agire. Difatti non giudicherò, il “bene” e “male” sono due concetti che da sempre sospetto.
Eppure confesso che, nella pratica, condividere dati al cellulare, ritrovarsi a fare un cenno di intesa basata su uno scambio già avvenuto in rete, esplicitare insomma l’intenzione in modo palese tramite un’applicazione, mi risulterebbe francamente più intimo di un estemporaneo gesto di gentilezza.
Mi pare si abbia bisogno di sempre più mediatori per esprimerci al meglio.
Tuttavia mi affascina l’avviluppata anima di chi ricopre di segni il proprio sentire, l’anima stretta stretta in una ragnatela di azioni che spostano altrove il fulcro dell’attenzione: a evitare il disturbo, l’imbarazzo, tutto quanto esula dal proprio controllo.
E mi domando se, nell’errore di credere meno intimo questo patto silente di desideri espressi in punta di dita, non scaturisca comunque la bella sorpresa di avvertire meno freddo il cappotto d’umanità che ci circonda.
Il mezzo e il fine. Machiavelli, nella complessità semplificata del suo Il principe, continua dopo cinquecento anni ad avere ragione.
Cara Laura, ciò che descrivi mi ricorda un episodio successo qualche giorno fa davanti alla clinica del papà del mio fidanzato. Una donna, appena uscita dall’ospedale, si è ritrovata l’auto bloccata da un’altra parcheggiata subito dietro. Forse, o quasi certamente, appartenuta a un altro paziente. La donna in questione sale in auto e attende. Attende per lungo tempo, o almeno per 20 minuti, il tempo atteso da noi per l’arrivo del bus che ci avrebbe portato in città. Non vuole disturbare o creare problemi, così mi spiega Takashi. E ne rimango colpita. Penso che in un tempo come il nostro, dove l’egoismo e l’individualismo si fanno più forti, la capacità di attendere l’altro sia un dono prezioso.
Tuttavia questo post mi ha fatto riflettere anche su di un altro aspetto, emerso riflettendo sull’episodio di cui parlo sopra, che invece riguarda il senso di timidezza e vergogna, che in parte, forse, rivestono un ruolo. Takashi di nuovo mi suggerisce la paura dell’errore. Mi parla di una società che dimostra molta generosità – una generosità che apprezzo moltissimo, insieme al rispetto- ma che mostra però poca flessibilità nella vita quotidiana verso l’errore o il (presunto?) fallimento. Come se una seconda opportunità, nel contesto sociale, non sia data. Mi chiedo se sia una lettura possibile (non esatta- quella non si raggiunge mai). E mi chiedo se proprio dalle “brutte figure” che possono capitare, dall’errore che irrimediabilmente si commetterà nell’approcciarsi all’altro, nell’incontro e nel confronto, non si diventi alla fine più fiduciosi e si abbia in generale anche meno paura.
Un commento splendido, che richiederebbe una risposta degna.
E’ capitato molto spesso di ritrovarmi (nel mio sconcerto) davanti a persone che non cedano il posto riservato alle donne incinte, anche con pancioni enormi. E devo dire che fra questi, la maggior parte è di sesso maschile. Eppure quando si tratta di cedere il posto agli anziani sono più propensi (ma comunque pochi). Quello che noto è una tendenza ad essere quasi spaventati di parlare ad un estraneo, non volersi esporre, qualunque sia il motivo. Ma ancora di più noto la difficoltà, da parte degli uomini, di rivolgere la parola a donne estranee. Come se si avesse paura di una reazione avversa o comunque sconosciuta. Come diceva Gesicca nel commento precedente, c’è davvera pochissima flessibilità all’imprevisto e in generale dell’ignoto. Una persona che parla in treno a lungo al cellulare crea molto fastidio nelle persone attorno, eppure, nessuno si permette di interrompere quella scortesia. Nessuno ha voglia di esporsi. Meglio chiudere gli occhi e dormire (o fingere di) fino alla propria destinazione , sperando che il disturbo si sia placato nel frattempo.
Non è un giudizio di merito o di demerito, però penso che ci siano molti problemi di comunicazione , soprattutto nella fascia giovane di molti giapponesi.
Sai, non credo sia un “voglia di interrompere quella scortesia” il punto. In Giappone si presuppone chiunque sappia la regola, e chi la ignora lo fa volontariamente. Inutile quindi scendere nell’arena. Lo scontro, in ogni ambito, e’ evitato e, ti diro’, e’ una cosa magnifica, perche’ la gente non litiga per idiozie, non si sgrida a vicenda, e quel che vige piuttosto e’ il buon esempio che la maggior parte delle persone segue. Il fatto che non tutti siano ben educati e’ segno di una societa’ variegata, e libera.
La cultura giapponese sottintende una discrezione assoluta. Che ha ricadute nel sociale eccellenti per certi versi, piu’ difficili da capire per un occidentale per altre. Ma il risultato, al di la’ di tutto, resta sotto i miei occhi. Ovvero una societa’ con altissimo senso civico in cui si vive pacificamente.
I problemi io li individuo piuttosto in un certo necessario allineamento che puo’ minare la psiche di alcuni singoli che non riescono a stare al passo.
Scusa la fretta, ma scrivo nel pieno di un costante caos casalingo 😀
Grazie del tuo lungo cmmento, della tua bella e sentita riflessione.