A cosa serve la gioia
“Spinoza ci rivela una cosa molto semplice: la tristezza non rende mai intelligenti. «Essere tristi» significa «essere fottuti». Per questo i potenti hanno bisogno della tristezza degli assoggettati. Cultura e intelligenza non hanno mai tratto giovamento dall’angoscia. Finché avrete affetti tristi, state subendo l’azione di corpi o anime che non convengono con voi.”
Lo scriveva Gilles Deleuze, non uno qualsiasi, e aveva “fottutamente” ragione.
È per questo che provo sconcerto aprendo un giornale e constatando il gusto dei media per il macabro, per la notizia tragica sviscerata in tutti i suoi minimi dettagli. Come se la morte di un uomo non fosse abbastanza un orrore.
E ogni volta mi domando: esattamente da dove la si estrae l’energia di iniziare e concludere un giorno, ed io da lettrice che cosa posso fare leggendo, a parte pensare che il mondo fa schifo?
E a pensare che il mondo fa schifo non rischio piuttosto di entrare nell’apatia, nel concentrarmi su notizie lontane ignorando piuttosto quelle vicine? A mandare all’aria tutto quanto personalmente non mi riguarda perchè tanto… ?
Tutto questo dolore commercializzato a chi serve?
Penso a quanta voglia di vivere mi ha tolto oggi aprire un giornale sul web e scorrere, solo scorrere, le notizie. Serve la consapevolezza, non serve la pornografia della notizia che a nulla serve se non ad allargare di un poco di più la pupilla, come una droga.
È ad innamorarsi del mondo che vien voglia di proteggerlo infine. E non solo quello più prossimo, ma anche quello lontano, che la mano non tocca.
Un inno alla gioia. Ecco cosa servirebbe.
Ed è per la stessa ragione che il mio spazio si chiama “Giappone Mon Amour”.
Per l’informazione approfondita rimando sempre ai libri – che accusando spiegano però in profondità e non si limitano allo sfiato disilluso di chi in Giappone conduce magari una vita sotto le proprie aspettative, o di chi voleva appiccicare a questo paese l’idealismo d’una perfezione cui, per forza di ragioni e di buon senso, nessun paese potrà mai essere all’altezza-, mentre allo sfogo più becero di chi vuole insozzare del proprio malumore il mondo tutto, metto subito uno stop. E non si discute. Che questa è casa mia. E ci si puliscono i piedi prima di entrare. Lo penso forte, mentre vivo un tempo senza pause, mentre stringo questo amorosissimo neonato, cui del mondo voglio noti la bellezza e con essa si formi una solida corazza.
“La gioia, solo la gioia, ti difende. Corroborata da letture. Intelligente. Sì, serve inseguire una gioia intelligente”
“Non farti convincere mai a vedere tutto nero, a buttare fango su chi è diverso da te. E resisti, resisti soprattutto alla tentazione di odiare chi è migliore di te o semplicemente riesce meglio”
Un “hater”, in fondo, nasce così.
Questi ultimi tre mesi sono stati un costante anticipare nelle fessure di tempo. Il bentō per domani, il mio pranzo, il latte per il più piccino nella pausa tra le lezioni all’università, le pulizie frettolose. La mia vita personale tutta ammassata ai margini.
E in quel che resta del tempo si architetta altro anticipare irrisolto, perchè il prima s’è mangiato il dopo. E per l’ora non c’è niente da fare. È sempre già passato.
Sabati fa, dopo due anni andare dal parrucchiere, uno nuovo. Per pura distanza da casa. E trovare nella donna che ti spunta quintuple punte, una madre mancata, che troppo tardi si è rivolta a chi l’avrebbe potuta aiutare. Ed ora soffre, fuori tempo.
Quante vittime miete, in giro per il mondo, il “basta che ti rilassi ed arriva”?
Per questo ne parlo quando si presenta l’occasione. Anche a costo di risultare inopportuna, sconveniente. Dico sempre i miei bimbi da dove sono venuti, le procedure che sono alla radice della felicità.
Non c’è gioia senza radici, ed è giusto parlarne, anche della fatica. Perchè l’invidia cattiva spesso nasce dall’ignoranza del lavoro che c’è dietro il risultato, soprattutto il migliore. Gli haters del resto li si incontra soprattutto lì, quando la vita ha successo.
E allora dico a questa donna dal volto concentrato ed irrequieto che i miei capelli sono un disastro, che sono due anni che non li taglio, perchè è nato Sousuke e poi dopo un anno ho ripreso il percorso per giungere a dargli un fratello. E ancora le iniezioni, e ancora l’anestesia, e ancora piccoli buchi neri nello schermo, e. E.
Mi convinco che a parlare di me, apro la strada ad altre che non riescono a parlare di sè. E anche chi non è toccato dal problema, si sente dire però una volta di più che il “tanto basta che ti rilassi” è una frase velenosa e non va detta. Ed eviterà magari di porgerla ad altri, con quella leggerezza che dovrebbe esser permessa solo a chi sa soppesarne la segreta misura, la forza di attrazione che esercita su un cuore provato dalla fatica.
Quel che si è appreso va comunicato, spiegato. È l’eredità del mondo, tutto quello che siamo in potere di fare.
Ed infatti la parrucchiera mi dice che sono stata fortunata, che lei ha provato tanto ma ormai non c’è niente da fare, che è il tempo che le è mancato, l’età che ha superato il desiderio e l’ha lasciata indietro, che il marito non era molto disponibile, nonostante…
“Nonostante il grosso pende tutto su di noi” dico con troppa energia, combattiva come divento ogni volta che scopro un’unione che si scorda proprio là.
“Esatto” fa lei secca, lanciando un’occhiata obliqua al marito che traffica su un’altra testa, di là.
Le racconto allora delle procedure per l’adozione che avviammo nel settembre del 2014, un mese prima del transfer di Sousuke, dei fittissimi seminari seguiti vicino a Nakano, della visita al centro connesso all’ospedale pediatrico d’un grosso quartiere di Tokyo.
Annuisce, piacerebbe anche lei. Dovrà convincere il marito, dice, lui non è molto d’accordo.
A ricordare, parlando, mi torna allo scoperto quel pezzetto di vita condivisa con Ryosuke, dei bimbi incontrati, delle patologie di quelli abbandonati, di quelle causate a creature che nacquero sane ma subirono abusi. La memoria concretissima di quella piccina, soprattutto, appena entrata una stanza, che agitava convulsamente e costantemente la testa, fissata su una seggiolina perchè non si facesse del male: fu scossa con violenza da neonata ed ora si è guastata, come un orologio dalle lancette impazzite, come una cosa.
E l’intenzione di tornare un giorno su quel discorso, che ci tengo da morire. Qui, per raccontarlo, ma soprattutto nella pratica della mia esistenza.
E allora, quel giorno, avremo tre figli. Due miei e di Ryosuke, ed uno “nostro”, di tutti quanti noi, bimbi inclusi. Figli di scelte diverse. Una stessa famiglia.
Ci vorranno più soldi, una casa spaziosa. Un cuore solido. E fermo.
Mi preparo, inconsapevolmente, ogni giorno a quel giorno. Leggendo delle notizie solo quello che serve, salvaguardando l’energia che mi spinge alla vita. Proteggendo la gioia.
Proprio come dice Spinoza.
Laura oggi come mai le tue parole mi hanno scosso. Vicina a te, come te e molte altre donne, ho tentato diverse strade per arrivare al mio bimbo. Lui è nato in Vietnam, è arrivato alla vigilia di Natale atteso come un Gesu’ bambino, forse anche di più, da tutti i parenti,
Prima di lui tentativi di arrivare alla maternità con le tecniche in vitro che sono fallite ma, ora dico, nel fallire ci hanno permesso di raggiungere la felicità di un figlio stupendo. Bella la vita.
Una lettura bellissima ti sei data. E sono convinta che il non riuscire in ciò che vogliamo spesso dia adito a nuove inaspettate gioie.
Sono senza parole, grazie grazie grazie dal profondo del cuore. Sei una persona bellissima.
Sempre generosa tu… Ti aspetto in posta, quando vuoi :*
Era da tanto che non lasciavo un commento in questo blog, pur continuando a seguirlo e a seguire le pagine Facebook. Non so perché. Forse trovavo i post già perfetti così, che non c’era bisogno di aggiungere altro. Ma questo mi ha toccato particolarmente.
Perché quella frase “basta che ti rilassi” l’ho detta anch’io. Non l’ho detta con superficialità, come se chi aveva il problema stesse esagerando. L’ho detta per rassicurare, per tranquillizzare, per dare speranza. Probabilmente non ho usato le parole “basta che ti rilassi” che suonano infelici anche al mio orecchio. Ma dopo aver letto questo post, penso che farò molta più attenzione e le userò ancora meno, perché ho capito che possono fare molto male, anche se dette magari con le migliori intenzioni.
Un augurio di felicità a te e a tutta la tua famiglia. Adoro leggere le avventure di Sousuke e di Emilio *__*
Buona fortuna. Baci.
Ti ringrazio Patrizia. Mi mancavano i tuoi lunghi e sentiti commenti.
Non è colpa tua, è una frase che si dice pensando di fare del bene. Ed è proprio per questo che serve raccontare gli echi di quella frase su chi sta soffrendo., Perchè pur volendo fare dle bene si finisce per non farne affatto.
Un abbraccio e grazie di essere passata! :*
GRAZIE!
A te della lettura!
Dirti GRAZIE mi sembra così riduttivo, non all’altezza del conforto che mi dai. Qui, un’isola felice.
Sei tenera Alessandra. E non sai quanta gioia mi dai nel farmi sentire utile.
Meraviglioso leggerti. Oggi di più! Grazie
Che bello, mi rendi felice!
Grazie, sempre meraviglioso leggerti, assaporare ogni tua parola e sentirla tanto vicina al cuore 🙂 un’isola felice davvero
Come sempre: grazie per quello che scrivi nel blog. Quando si riesce a parlare di vari temi, attribuendo a ciascuno di essi uno spazio giusto e proporzionato che non sottragga importanza all’altro, allora si è gia dato un grande ed utile contributo alla trattazione degli argomenti. Trovo proprio centrato, intelligente e lucido, il modo in cui parli di quella che definisci la pornografia delle notizie, un mondo sfaccettato di elementi vecchi e nuovi che meriterebbero un momento dedicato a se. Ho apprezzato anche il riferimento al fenomeno dilagante degli haters su internet, nuova perversa e pericolosa realtà della comunicazione, disseminata di tante, troppe, metastasi morali. Una realtà ormai davvero insopportabile, appunto “odiosa”, che è sempre più purtroppo la vera cartina di Tornasole di una diffusussima malattia “social(e)” dei tempi moderni.
Da ultimo, poi, ma non per minore importanza, (solo, invece, per collocazione nella pagina), ho trovato davvero toccante il bellissimo e delicatissimo tema riguardante la maternità, desiderata, faticata, sofferta, ostacolata, sognata, realizzata, gioita. Anche qui: un mondo intero di emozioni, un argomento affrontato con voce di testimonianza sincera e rispettosa, cioè con grande “senso di servizio”. Grazie anche da chi, come me, non ha mai avuto problemi in questo versante della vita. Eppure mi sono, per quanto possibile, calato nei panni di chi vive tutto l’intenso percorso della genitorialità, dai primi momenti, solo idee e desideri, a tutta la quotidianità contingente e concreta, vedasi l’aspetto medico, burocratico ed economico dell’avere figli. Credo che l’utilità della tua trattazione sia pienamente dimostrata dal fatto che su questo tema sono intervenute, nei commenti, tante tipologie diverse di persone, tutte mostrando una calda gratitudine. Segno, questo, che la maternità/paternità, in tutte le sue declinazioni, è un tratto unente, molto diffuso e sentito, radicato nella coscienza di chiunque, non solo in quella di chi provi a generare e/o crescere dei bambini. Ed è un fatto, questo, fondamentale per definire noi stessi, cioè il nostro modo di vivere in funzione del mondo, degli altri.
Ciao Laura,
dopo tanto che ti leggo, ho deciso finalmente di scriverti qualche riga…mi presento prima di tutto, mi chiamo Cristiana, ho 29 anni e vivo nella “spensierata” Romagna. Fossi pure io un po’ “spensierata” come la mia terra!
Dal carattere sensibile ed emotivo, introspettivo, fin da piccola ho sempre beneficiato ma soprattutto sofferto per queste mie caratteristiche.
Da un paio di anni, grazie al mio fidanzato che mi ha introdotto, mi sono appassionata al Giappone e alla sua cultura ed ecco che sono capitata, quasi per caso, a leggere il tuo blog.
Ne rimango ammaliata, le tue parole sono melodia.
Poi scopro una ulteriore sezione, di Madre in Madre.
Ed ecco che dentro di me si apre un mondo: non sono allora l’unica che purtroppo sta scalando questa impervia montagna.
Da più di un anno io e il mio compagno stiamo provando a creare una nostra famiglia.
Dapprima affrontato come un desiderio nascente dentro di noi, immediatamente emergono difficoltà per un’infezione da curare, cosa che ha impiegato non poco tempo e fatica.
Nel cercare di curare l’infezione, entriamo in contatto con i più svariati medici, ognuno con il suo approccio, dal più leggero al più scientifico.
Cominciamo a sperimentare che il tema maternità è un tema estremamente delicato, che non sempre si aggancia automaticamente a felicità e gioia, ma spesso attraversa strade fatte di frustrazione, impegno fisico e mentale e fatica.
Passata l’infezione, a tuttora nulla, non si intravedono al momento pance all’orizzonte.
Sarà lo stress, sarà il carattere emotivo (ognuno si sente infatti libero di dire la sua al riguardo), sarà forse qualche paventato problemino da indagare con esami approfonditi ed invasivi che ci ha proposto un medico in particolare (esami che al momento non ho ancora eseguito sperando che la natura facesse il suo corso)…il tutto ci ha proiettato nel grande tema dell’infertilità, o forse nel nostro caso sarebbe meglio parlare di “paura dell’infertilità”.
Ho sperimentato la delusione di scoprire ogni mese esiti non positivi, speranza, frustrazione, litigi…indelicatezza di alcuni medici, che invece dovrebbero sapere per vocazione quanta delicatezza occorra per affrontare certi discorsi…persone che chiedono: ma allora a quando una pancina? Sei nell’età giusta, ecc. ecc.
Andiamo avanti, navigando a vista, qualcosa accadrà o si dovrà fare…qualcuno magari ci proteggerà dall’alto…si arriva davvero a pensare di tutto, consapevole anche che il nostro caso non è ancora da dichiararsi disperato e speriamo di non doverci dare mai per vinti.
Leggendo le tue parole mi sono sentita compresa, non avevo trovato mai nessuno che sapesse quasi leggere nella mia mente raccontando le sue esperienze che assomigliano alle mie.
Ti ringrazio dal profondo del cuore per dar voce a tutto questo, per far sì che non ci sentiamo sole, come spesso io mi sento perché purtroppo è difficile spiegare e a volte non si ha neppure voglia di spiegare, perché si sa già che la comprensione dall’altra parte può solo essere limitata…forse solo chi ha vissuto alcune vicende può capire come ci senta nel profondo…a pezzi e nello stesso tempo appigliate ad una speranza che si cerca di non far mai appassire, seppur arduo in certi momenti.
Ecco perché ho scritto queste parole di getto e ho deciso di inviartele.
Ti auguro il meglio per l’uscita del tuo nuovo libro e spero di poterti incontrare in occasione di qualche presentazione.
Un abbraccio, Cristiana
Significa molto questo tuo messaggio per me. Non so come ringraziarti.
Un post che dice tutto e non ha bisogno di commenti… Grazie per questa ode alla gioia. Ne abbiamo tutti bisogno, oggi come oggi. Grazie. Un abbraccio. <3