枕草子 «Note del cuscino» 2
II
I mesi migliori
Quelli che camminano piano, ma sono pieni di cose. Dimora in spalla, come lumache.
Settembre, all’inizio, il caldo che si fa intermittente. Giugno, il mare di Kamakura che si ritrae e lascia conchiglie sul bagnasciuga. Agosto, in certe zone di Tokyo, quando le scuole sono chiuse e innaturale è il silenzio dei cortili. Minuscoli giardini dove fanno ginnastica gruppetti di anziani, in tuta, oppure a maniche corte, e dalle braccia secche pende la carne, cosa smarrita.
L’ultima notte dell’anno, a dicembre, l’o-seichiryōri preparato dalle mani laboriose di mia suocera, Yōko.
In aprile o marzo, la gioia dei bimbi, quando il vento se lo figurano lieve, e invece coglie in pieno i loro aquiloni.
VI
Modi diversi d’esprimere la medesima cosa
S’impara col tempo che il tempo è prezioso. Che a dire meno, si dice di più.
Ricordo lunghi silenzi nei miei primi rapporti d’amicizia con giapponesi. Ero all’ICU (国際基督教大学), e cercavo variazioni all’incapacità di dire quello che cercavo di essere (e dire). Il possesso della lingua sta nel trovare alternative, ma spesso, pur tentando, non ero in grado di dire nulla che avesse un senso compiuto.Mi sembra adesso, nel ricordarlo, loro cogliessero quel qualcosa che io, invece, non afferravo. Qualcosa che non era nulla per me.
E in quanto nulla, temevo. Il silenzio, in giapponese, pare una lingua.
IX
Diverso è anche il sesso nella declinazione del linguaggio in prima persona. Il giapponese maschile parla diversamente dal giapponese femminile. Così è la gestualità, garbata e stemperata. Non muoversi troppo, non occupare più spazio del necessario, non essere oltre il confine di sé.
In un mondo tanto affollato conta la pluralità, in un tempo ridotto. Essere in grado di raccontare di più dicendo una sola parola. Qui il turno di parola è regolamentato, pur senza essere detto. Dare e ricevere, riprendere, restituire, ricevere in cambio, dare di nuovo.
Cogliere rapidamente il momento per dire, essere in grado di restituire quello spazio di parola più limpido di quanto era prima del nostro intervento.
XII
Al caffè, una tazza portata da casa, cappuccino-no-fatto-hotto-tooru-onegaishimasu. Anche qui sanno che scrivo libri. Per il lungo tempo speso al computer, circondata da nuvole di libri e sguardi appesi alle cose, che tuttavia non sono lì. Una penna sempre blu, senza cellulare.
Dietro di me, d’un tratto, una mano che scorre. Scorgo a fatica una donna in età avanzata; accanto, nella coda dell’occhio, la figlia. Che dolce, penso, le fa una carezza. Dalla mano alla mano, forse la consola.
Due straniere? Due giapponesi? Non arrivo a ruotare abbastanza la testa. Che importa.
Ma quel movimento continua e la coda dell’occhio si allarga, diviene una schiena, e allora noto che è nera la-mano-che-la-mano accarezza; no anzi, non è neppure una carezza, ma dita che scorrono sullo schermo di un cellulare.
Trattengo a fatica la delusione. Me ne vergogno.
Il silenzio mi libera la mente e mi regala bei momenti a fine giornata, prima di dormire, quando in casa tutto tace, …..mi sembra di far pace con il mondo, e mi ricarico delle energie spese durate il giorno. Io non ho il dono della sintesi e nei rapporti con il altri le parole sono tantissime, ma quando riesco a trovare una sintonia diversa…..provo un appagamento che mi è difficile spiegare, mi fa semplicemente stare bene?