一期一会 o dell’ultima volta.
«È l’ultimo giorno, è l’ultima volta»
一期一会 ichi-go ichi-e
«Una volta, un incontro»
Questa mano che si allinea al cellulare, lo scansa.
La tazza di maccha macchiata di saliva. La briciola d’oro che tocca le labbra.
Entro in un caffè con mio figlio. Lui ha tre anni, lui pretende un kakigori fuori stagione. Lui pretende innanzitutto che la gioia arrivi ogni giorno, in ogni momento, senza recinzioni. Il kakigori, nello specifico, è colpa di un bel ricordo cucito sulla pelle dell’estate, insieme con la madre e il padre. Con Ryōsuke e con me.
Trovo sul bordo della tazza la sbreccatura riparata con l’arte del kintsugi, la ferita che si fa bellezza d’aggiunta.
Eccomi, sono in Giappone, non faccio che dimenticarlo. Questa è “solo” la mia bellissima casa.
「今日は最後だ」
«È l’ultimo giorno»
一期一会 ichi-go ichi-e
«Una volta, un incontro»
La mattina la sveglia, in questo budello di mondo che si chiama Giappone, prima che l’alba alzi la mano, dichiari la sua presenza. Esco nel buio, l’autunno che avanza come un soldato in licenza.
E anche il treno è affollato, la gente straripa.
La Yamanote che da Ikebukuro s’alza e corre di filato verso la prossima tappa, mi ricorda i giri in tondo che facevo appena arrivata. Avevo vent’anni più un quarto, meno due, meno uno. Volevo vedere tutto, ero affamata di vita. Ero ingorda di Tōkyō.
Da Shin-Okubo, il quartiere coreano, la Yamanote pare spiccare il volo e incanalandosi a velocità sostenuta – ma rallentata verso la banchina – a sinistra dà l’impressione di scontrarsi con la Linea Sōbu, quella gialla, che si affianca, con i medesimi finestroni trasparenti, la gente basculante e appesa come tanti piccoli okiagari-koboshi.
「今日は最後だ。最後の人生だ。」
«Oggi è l’ultimo giorno, è l’ultima vita. È l’ultima volta»
一期一会 ichi-go ichi-e
«Una volta, un incontro»
Il vicino si muove troppo, fatico a concentrarmi nella scrittura. Pare irrequieto, fruga nervosamente nella sacca, i gomiti s’alzano come ali. In un attimo mi torna in mente Sōsuke che nell’o-furo solleva una gambetta, la piega, poggia la pianta sul ginocchio a formare un triangolo altamente imperfetto.
«Sōsuke è un fenicottero» esclamava radioso, in quella sua terza persona da bimbo che il sé lo distanzia, ne fa l’oggetto di osservazione. Lo studia.
Ho poco tempo, devo concludere questo trancio di scrittura per stasera o non rientro nella mia personale scadenza. Chi pensa che scrivere libri sia una passeggiata si sbaglia. Bisogna leggere dieci volte quanto si scrive, richiede tempo che per principio non si ha. Dargli la priorità fa sentire in colpa. Eppure ogni giorno mi sveglio alle 4.44, anche oggi, solo per questo.
L’uomo che mi è seduto accanto però, ancora e ancora una volta, mi urta il braccio. Perdo la concentrazione, rinuncio.
«È l’ultimo giorno, è l’ultima volta che sali qui, l’ultima volta che viaggi sulla Yamanote, l’ultima volta che potrai sederti su un treno. L’ultima e basta»
Saigo da, saigo da yo!
Pare una nenia, mi annega la testa.
Ed ecco che alzando gli occhi – perché è l’ultima volta, me ne convinco – scopro una figura di donna, delle più stupefacenti. Mi era di fronte e non l’avrei mai notata se non avessi dovuto staccare lo sguardo dalla mia vita per spostarmi su quella degli altri. Più valevole di qualunque parola che avrei potuto scrivere allora, ritrovo nella donna un frammento del libro che stavo scrivendo. Rinvengo persino il raccordo tra la natura viva del mondo e quella virgola d’occhi e di bocca che mi si staglia davanti, Tōkyō che le sfreccia alle spalle, placida nella sua mattina di sole.
Quando il livello di intolleranza supera una certa soglia, la realtà va circoscritta.
Ed ecco il mio personale sistema, sviluppato da un anno circa.
«È l’ultimo giorno» mi dico, anzi me ne persuado. Calo nel personaggio, in quello di qualcuno che abbia una esistenza sradicata dai luoghi, dalle persone, che sia errante e non abbia la possibilità concreta di ritorni. Nell’immaginare quell’ultima volta cambia un po’ tutto.
Ecco allora che nessuna vita più mi trattiene. Sono rappresa su un cucchiaino, su un kanji, in una borsa, sfoglio un libro e ne lascio un pezzetto e penso che è per sempre, che niente tornerà più.
Mi proteggo così dal nervosismo, dall’ira. Dal particolarismo del momento.
Il Maestro Dogen suggeriva si facesse ogni cosa come fosse la prima, ingerire piccolissimi bocconi di cibo, masticarli, assaporarli come li si stesse assaggiando non per l’ennesima, ma per la prima volta. E così Šklovskij e il senso di meraviglia, lo straniamento, la sorpresa, lo sconosciuto che la letteratura ripropone in qualche modo, grazie al fatto che distanzia i fatti che toccano tutti, ponendoli al di là di una vetrina, dove non si tocca. Serve a osservarli per bene, come, appunto, la prima volta.
Ci ho provato. Ho imparato la lezione. L’ho fatta mia.
Adesso però ne ho trovata una variante.
Io tento di partire dal fondo: che sia non la prima volta, ma l’ultima volta.
Al posto della meraviglia che richiede un inganno, uno sforzo di immaginarsi tabulae rasae – creature resettate, senza ricordo delle migliaia di volte in cui si è portato il cibo alla bocca, si è vista la luce inghiottita all’orizzonte, si è dato un bacio – nel piatto io butto la nostalgia di quanto è stato, proprio perché è stato, il ricordo, la malinconia che migliora ogni esperienza anche negativa che si è fatta ricordo.
一期一会 ichi-go ichi-e
«Una volta, un incontro»
Provare, funziona. Provare funziona.
I temi che affronti in questo blog si confermano ogni volta interessantissimi. E lo sono indipendentemente dalla mia “nippofilia”, quella linea
netta di passione per il Sol Levante disegnata a “china di vivere” su me stesso. Un tratto che costituisce traccia indelebile in movimenti d’esistenza che mia madre, dall’altro capo del mondo, in Italia, attraverso whatsapp, definisce sempre in modo acuto e fulminante. Descrive, infatti, lucidissimamente, questa mia condizione di passione giapponese, traducendolola in base al suo amato, dolce, comprensivo e affettuoso rimprovero tipico di un essere umano femminile che genera vita-miracoli-laico-biologici di figli. E lo fa, pronunciando questa frase lapidaria: “…tu e la tua inspiegabile, inguaribile, gioiosa, magnifica nippomania”! Ma il tono usato non è affatto di rimbrotto, né di lamentela.
Al contrario, è “fradicio”
di sorrisi e baci perenni, di tenerezza accesa e ardente dentro lampi d’occhi supermaterni, di sorrisi scattati/scoppiati a flash da parte di chi ti ha partorito ed ha partecipato di felicità deflagrante al miracolo quotidiano di diventare genitore.
E così, tornando alla mia “nippomania”, mi ritrovo a vivere e a coltivare interessi/passioni che muovono in direzione convergente rispetto alle costruzioni emozionali che fanno parte integrante del tuo (de)scrivere il mondo e la vita.
Già…e così eccoci al tema di questo tuo ultimo articolo, che è, come sempre, bello e interessante. E che credo si possa collegare alla mia routine quotidiana, tornata alleata delle mie giornate dopo un ampio periodo di full immersion accademico-professionale che mi ha tenuto lontano per mesi dallo scriverti sul blog. Adesso che i miei corsi di aggiornamento si sono chiusi, sono infatti tornate da me, e con me, intere giornate “guarnite” di mille altre cose, mille piccoli grandi progetti da costruire, talvolta in sequenza arruffata, talvolta con momenti (rari ma corroboranti) di stasi. Sono piccoli ritagli di pausa, sorta di ricarica delle “batterie della mente”. Uno di questi spicchi di break, estratto dalla torta della giornata, si svolge seduto su una panchina di un parco a Kinshicho, in un pomeriggio tranquillo e rilassato, ancora sufficientemente tiepido, in un momento pre-invernale, prima dello sbocciare del freddo. Mi ritrovo così intento a godermi la lettura del tuo piccolo racconto su “Giappone Mon Amour”, concentrato sulle parole e finalmente al riparo dall’assordante canto delle cicale estive giapponesi, (che fanno rumore come un rombo di motocicletta lanciata sull’asfalto! …Beh…ecco una cosa che, lo dico scherzando, eh?!, proprio non mi entusiasma del Giappone!)
Nel frattempo, comunque, tutt’intorno, nel parco, ragazzi in skateboard proiettano sogni di adolescenza sul mondo. E poi bambini, assistiti da giovani madri adoranti, provano a liberare le loro piccole biciclette dalla schiavitù delle rotelle.
E in questa placida atmosfera, metà giapponese e metà “mondo universale di dovunque” (è sempre un mondo universale quando c’è vita di gioventù in espansione!), assorbo e degusto in pace, come ottimo tè servito in elegante “kissaten”, la lettura del tuo ultimo tema sul blog, tenendo tra le dita il mio telefono cellulare, mini-ostaggio del mio sguardo (o viceversa?)
Scopro, allora, leggendo(ti), sempre nuove angolazioni, rinnovate prospettive, punti d’osservazione originali. Imparo, così, altri pezzi di cammino che vengono affrontati, passo dopo passo, da parte dell’altro, del prossimo, che è al tempo stesso riflesso e proiettore di noi e di tutto ciò che scorre. Si chiamano significati, senso, vivere.
Oppure, tradotto, o rovesciato a specchio, l’insieme di quei significati, di quel senso, di quel vivere, si può definire: esperienze.
Esperienze come quando, al pari di te, ricordo il mio primo arrivo in Giappone, lontano più di 12 anni nella memoria. Memoria di vorace famelica brama di vedere e abbracciare tutto in un istante, di respirare ogni molecola del Sol Levante, inghiottendolo in forma immediata, al mio primo sbarco nipponico dall’aereo. Fame inebriata, tanto da dover essere placata in fretta, dopo anni di studio passato a vagheggiare questa fascinosa terra esotica che nella mia testa era fatta tutta di “anime, manga, sumo, kimono, geisha, sushi e samurai”. Scoprendo, poi, giunto a Narita, quanto tutto fosse diverso, e reale, e misterioso, e curioso, e iperbolico, e irritante, e normale, e pazzesco, e…
E tanto altro. Altro imparato in questi 12 anni d’oriente sulle 4 grandi isole inventate da Amaterasu e Susanoo. Altro di vita giapponese srotolatosi tra risate e ruggiti, regole assurde e perfetta efficienza, gentilezza suprema e follie codificate, rispetto sacrale d’etichetta, (con cornici rituali d’abnegazione sacrificale quasi religiosa), e abulìa apatica-egoistica finto-distratta, espressa attraverso un contegno sommessamente elegante, eretto a schermo/scudo protettivo di difesa per non perdersi nel pozzo vuoto senza ritorno del nonsenso dell’alienazione di massa che nuota galleggiante nelle gigantesche e tentacolari metropoli del pianeta. E imparare ancora, e poi ancora, e tanto altro dell’infinito universo-mondo di cose, di schemi, di emozioni. Tutto interessantissimo. Tutto impregnato di fascino. Tutto da assorbire meglio, capire, gioirne, irritarsene, apprezzare. E soprattutto: dire sempre grazie. (Sempre grazie,
sempre. Mai smettere di farlo. Insomma, amo alla follia questi luoghi, ma sono e rimango sempre un ospite. Sono il primo a ricordarlo, in ogni istante. La chiamo gratitudine. E così continuo a camminare in punta di piedi su questa terra, che mi ha accolto con altissimo rispetto, educazione d’argento e grazia deliziosa, come mai nessun’altra).
…Insomma, il Giappone è un mondo sempre pronto a stupirmi di magia.
Lo so, sono di parte, fazioso all’ultimo stadio, ebbro di passione per queste latitudini. Sono come un “Pinocchio chan” 2.0 nel Paese dei Balocchi degli occhi a mandorla. O, per dirla come la mia sensei di lingua giapponese, che mi fa il verso ridendo: con gli occhi “da gatto”.
…I gatti dei cartoni animati, già. Come “Doraemon”, geniale creazione di artisti dell’animazione capaci di influenzare generazioni di fanciulli in tutto il globo. O i “maneki neko”, gatti portafortuna. (Anche per via dell’indotto economico da souvenir!)
E i ristoranti “kaitenzushi”, con il nastro trasportatore su cui viaggiano i piattini. Io che, la prima volta, folgorato dallo stupore, mi ritrovavo a Nakano Broadway, felice bambino quarantenne al luna park (!) a ordinare sul touch screen le pietanze che poi sarebbero partite verso di me scivolando su quel magico tappetino serpentoso scivolante, grasso di vivande pronte a giungere alla mia postazione.
…Nel blog parli di prima e ultima volta, affrontandoli come concetti contrapposti. Quasi yin e yang, altri elementi filosofico-religiosi di questo mondo nipponico così lontano che ho voluto rendere così vicino alla mia Italia, alla mia Roma. In fondo, il Giappone è magico proprio per questo, perché riesce a tenere insieme vicino e distante, cultura millenaria e tecnologia robotica. Un giornalista giapponese, corrispondente dall’Italia per il Giappone, una volta ha detto: “Il Giappone è un paese antichissimo travestito da paese moderno”.
Definizione geniale e universale, che chiude ogni querelle di discussione generabile sull’argomento. Ma è questo che innesca in noi il senso di ipnotica e stregante meraviglia. Grazie a questo tratto distintivo, in questo luogo unico e irripetibile, è sbocciato subito in me l’innamoramento. È l’effetto yin e yang 2.0 del vivere quotidiano nel Sol Levante, anche per un “gaikoku jin” uno straniero come me. Eppure, la magia è anche nello stupore negativo. È, cioè, parafrasandoti, la sensazione dell’attrazione e del rifiuto, della prima volta ma anche dell’ultima. Della meraviglia, anche se a volte celata da una maschera buia e scomoda. È un cerchio che si chiude. Yin e Yang 2.0, appunto. È un “kintsugi” delle cose: volgere i difetti in arte, pregio, suggestione quasi ieratica. Trasformarne i significati, quindi, e ribaltarne le convenzioni di approccio. Riassemblare il reale, anche se rimontandolo sottosopra e al negativo. Sparpagliare le tessere di un mosaico di modelli di valore, e poi costruirli di nuovo, alternativi, ma mantenendo lo spirito originario. Insomma: Giappone. Forse è per questo che qui, all’estremo est, proprio come il sole che sorge e tramonta per primo, vale, come affermi, la prima come l’ultima volta, entrambe alla pari. (Yin e yang emozionali 2.0, mi ripeto, scusandomi).
Già, il Giappone riesce così anche a trasformare i difetti in prodotti richiestissimi sul mercato. Le cose ultime in prime. Il pianto in riso, il piccolo in grande, l’assurdo in tendenza di moda, la routine in evento, il vecchio in nuovo, la tradizione in modernità, e ancora tanto, e viceversa. È questo lo sguardo affascinato, lo stupore bambino che abbiamo tutti guardando dentro questo mondo sempre nuovo. È questo, davvero, che questa terra mi (ti/ci) trasmette. Ripeto: sono di parte, (colpa-difetto pesante che mi accollo volentieri, sempre). Ma questa parte di mondo l’ho scelta tra decine, perché mi piace a mille. Perché amo stare in questo quadrante geografico del pianeta, luogo in cui ogni esperienza quotidiana ha il sapore magico dell’evento, anche realizzandosi attraverso il meccanicismo rigido del piccolo grande rito antico.
Spero, allora, di continuare a viverci a lungo. (Sempre ringraziando). E, proprio come dici nel blog, ma parafrasandoti, e modificandone la forma ed i contenuti, (concedimi la licenza e la libertà di farlo): “fino all’ultima volta, come fosse la prima. E viceversa”.