Si fa presto a dire madre
“[…] gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per incominciare.”
Hannah Arendt, Vita Activa. La condizione umana.
Non sono stata una bambina felice. Ricordo le mani premute forte sulle orecchie, per non sentire le urla, i litigi. Ricordo le botte, stralci di un’educazione antica che tramanda quanto si è ricevuto. Ricordo gli sforzi sinceri ma maldestri di farmi contenta, nonostante chi tentava di farlo la gioia non la conoscesse. Ricordo una conflittualità violenta nella trama degli affetti, la competizione che montava in cavalloni e finiva per appiattire ogni successo, grande o piccolo che fosse.Ho inseguito l’approvazione sempre dirottata di mia madre e di mio padre. Non ho amato mia sorella per anni, per il solo fatto di vedere in lei un metro di paragone, per la rivalità feroce che s’era instaurata davanti ai nostri genitori.
Esistono modalità educative fallimentari, la maggior parte. E quasi tutte applicate con le migliori intenzioni. Ma tanto si può riparare crescendo. Si può imparare persino ad amare quanto si è detestato, a mettere a margine del piatto quel ricordo che ancora ci fa soffrire. Bisogna dare la colpa al contesto, all’età, a una serie di cose che da bambini non si sanno controllare. Anzi, cose che fino ad un certo grado avanzato di maturità, non si immagina neppure si possano controllare.
Il mio desiderio di famiglia credo sia nato da lì, da quella spinta costante al cominciare che Hannah Arendt attribuisce all’essere umano, di natura. È per quello che si nasce, per iniziare. E lo stesso morire, di per sè, è un diverso inaugurare. Anche se la ricaduta è sulla vita degli altri, di chi resta.
La famiglia non è forse un processo creativo singolarmente, ma una trasformazione che ha della chimica il segno, l’amore, il contagio. In un libro, forse uno dei più belli letti recentemente sul tema, per la sua presa diretta, affatto artificiosa all’argomento, Si fa presto a dire famiglia di Melita Cavallo (Laterza, 2016) – libro che fa il paio con un volume uscito di recente I segreti delle madri (Laterza, 2017) – l’autrice riporta un detto napoletano che dal dialetto traduce così: “Tu puoi vivere senza sapere perché, non puoi vivere senza sapere per chi.”
Ed è proprio in questo regime di inconsapevole, forse anche involontaria dipendenza, che per buona parte si gioca l’amore in una famiglia. Anche e soprattutto quello materno.
Ho chiesto d’avere un figlio a trentuno anni. Eravamo giovani ancora ma su quella linea di confine che preme alla scelta, spinge alla decisione. Non più ragazzo, nè adulto, ma genitore.
“Lo vuoi un figlio tu?”
“Ma adesso, intendo. Ci proviamo?”
Ricordo una conversazione con Ryosuke, su una panchina. Eravamo fuori da un rutilante centro commerciale, lo Yodobashi Camera di Kichijoji che gridava inviti, e colori e lucine, e non c’era pausa nel commercio, nel diverso, materialissimo desiderare, cose, cellulari, piani di acquisto di impianti stereo e poi e poi e poi. E poi.
È curioso come si dica “provare” ma non lo si pensi davvero. Che di sicuro succede, perché non dovrebbe del resto?
Tutti hanno figli, anche gli insetti, lo scarafaggio nell’intercapedine della parete, il corvo che sghignazza la mattina planando sui sacchi incustoditi dell’immondizia, la popolazione di donne panciute che gonfia le strade di questa capitale d’Oriente, d’ogni capitale d’Occidente. Tutte le star che infestano di ventri in posa egizia le copertine delle riviste, con i loro glutei magri nonostante, le espressioni pacificate, oppure fiere, i volti sorridenti di chi ha un’altra fortuna (vera? chi lo sa…) da esibire.
Eppure quel gennaio, era forse dicembre?, ricordo limpida la sensazione contraria. L’idea, l’intuizione che non sarebbe stato automatico così come ce lo si aspettava.
Vai a capire perché.
Forse perché sono stata abituata dalla vita che le cose non vengono a me con facilità, che sono condannata per un qualche dono fatato, ricevuto forse alla culla da una strega pasticciona, a dover percorrere con una consapevolezza integrata ogni via.
E l’intuizione si sarebbe rivelata esatta. Perché avrei imparato nel dettaglio come nasce un bambino, quale preciso processo porta alla procreazione. Ogni fase, ogni step che dal naturale passa all’artificiale, pur di tornare un giorno al naturale.
E, lì dove possibile, lì dove si voglia, che si possa anche dimenticare quanto ha preceduto il risultato che si accudisce.
*ti abbraccio* ^.^
Ti ammiro tant,come ammiro e invidio tutte le madri. Io ho avuto un’infanzia simula tua (ancora adesso mi agito sentendo alzare la voce,anche se alla tv,anche se non rivolta a me) e ancora non sono riuscita a farci pace. E se non riuscissi a dare ai miei figli un’infanzia migliore?chi sono io per egotisticamente decidere di rovinargli la vita. Non me la sento. Ammiro, invidio, guardo con terrore chi riesce a zittire questi pensieri (o forse non li ha proprio) e mettere al mondo una creatura.
Il giorno che riuscirò a far pace con il mio essere figlia,forse potrò essere madre.
In bocca al lupo per il tuo nuovo progetto,ti leggo da qualche anno e mi piace molto il tuo modo di raccontare.
Complimenti un altro gioiello…
Ci autorizza a pubblicarlo, con i dovuti riferimenti, sul nostro blog?
iogkfitalia.blogspot.com
Grazie
“Ma tanto si può riparare crescendo”.
Ti ammiro per la fiducia che hai riposto – e continui a riporre – nonostante un passato alle spalle non felice.
Io è da una vita che sono infelice. E quella fiducia ahimè non ce l’ho. Ma mi commuove che qualcuno, nonostante tutto, la riponga come si acquista qualcosa a scatola chiusa.
Questo post mi ha molto commosso…
Ti abbraccio forte. :*