Emozione o sentimento?

Mi capita ultimamente di domandarmi quali emozioni convoglino in sentimenti e quali restino lì, come minuscole deflagrazioni che bruciano l’aria, un’aureola di fumo, niente che resta se non una fame insoluta di replicarle ancora, ancora ancora. Avessi diciott’anni probabilmente non me ne curerei, così come non me ne curavo a vent’anni. Ma prendendo anni addosso, guardando i miei bambini allungarsi e usare nuove parole, mi accorgo di avere meno tempo. Inizio allora a districare questi due concetti, una volta sinonimi dentro di me: emozione e sentimento.

Mi accorgo di aver privilegiato per anni le prime attribuendo loro più significato di quello che hanno realmente. Perché, una volta esaurite, delle emozioni isolate non resta quasi niente. Volti, esperienze sparite, l’amaro di strade intraprese senza che portassero da qualche parte.
I sentimenti sono invece per me come enormi contenitori in cui versare azioni, pensieri, conversazioni, passeggiate. Sono i grandi affetti, i percorsi, le scelte portanti.
Così, quando adesso mi trovo di fronte a una persona, un incontro, una esperienza lavorativa, mi domando in quale gruppo finirà.

Prediligere i sentimenti è per me anche abbracciare il territorio, allungare radici un poco di più: accompagnare a scuola i bambini, parlare con le madri degli altri, concedermi il tempo di saperne di più, affrontare stradine davanti cui sono passata mille volte ma in cui non sono entrata mai.
Emozione isolata è invece quel qualcosa che pare bellissimo ma che non mi nutre, semmai mi destabilizza. Ne ho fatto incetta in due anni complessi in cui mi sono domandata profondamente chi fossi, cosa volessi, perché. Tutto è servito, tutto serve. Eppure adesso voglio che ciò che sento abbia una direzione, che non si disperda.

Emozioni che convoglino in sentimenti. Che abbiano una meta.

📷 Due amiche, oltre un vetro, che prendono un tè. Così belle in questa cornice che chiedo al mio bimbo di 4 anni, al ritorno dall’asilo, di aspettare un momento e sfilo di fretta il cellulare. Clic.

Del nutrire dubbi come piante

Spesso leggo in Rete: «I giapponesi sono/ dovrebbero/ non dovrebbero..»

Sono quasi vent’anni che abito qui (una famiglia a metà, due master, un PhD, docenze in università, redazione di libri, etc etc) e ho meno certezze di gente venuta qualche settimana per turismo o studio.

Talvolta mi dico che il mio più grande patrimonio è proprio il mucchio di dubbi che ho e continuo a «nutrire», quasi fossero piante, somministrando loro letture quanto più varie, nuove esperienze, rinnovate domande.
Anzi, mi pare le domande in me crescano negli anni anziché diminuire, probabilmente perché tanto più cresce la materia quanto più ampio si fa il numero di eccezioni, di casi particolari, di ipotesi in cui ci si imbatte.

Quanto più ampia è la comprensione di chi non crede di avere ragione. E di chi in realtà intuisce che la ragione non è mai una soltanto.

La Pasqua che non c’è

Non è raro vedere donne in kimono, tuttavia la sensazione è ogni volta di tale eleganza che ci si sofferma sui movimenti stretti, la gestualità calma.
Quando poi si dirigono verso la Casa della Letteratura e la pioggia rende il verde una festa, scatti persino una fotografia.
Per noi è stato un bellissimo fine settimana di passeggiate, giochi e cucina. Stasera il papà prepara il rāmen, ieri karate e ore a farsi rincorrere dalle onde dell’oceano, nuove e vecchie amicizie, capricci e coccole.
Non è vacanza in Giappone ma a me questo tempo basta. Mi metto alla prova ogni mese, esaminando il mio grado di gioia nel pensare che il giorno seguente sarà lunedì. Al momento regge, perché amo tantissimo la settimana che inizia.
Qui la Pasqua non c’è. Ma a voi tantissimi auguri ❤️

La vita che ho scelto

Un sabato in cui mi sento particolarmente felice della vita che ho scelto, grata del lavoro che faccio e che mi permette di guardare in faccia il mondo.

Tanto lo devo ai miei lettori. Quindi, ovunque siano, chiunque siano, grazie ❤️

 

Crescere nella magia

Minuscoli santuari alla fine di stradine invisibili, volpi di pietra dietro i parcheggi, leggende di fantasmi in tunnel cittadini, kanji che tappezzano palazzi, templi sulla cima di grattacieli.
La magia in cui crescono immersi i miei figli mi rassicura. Insegna loro che la realtà non è solo ciò che si vede.
Andando all’asilo con lui, scopro mille storie. Che sia il nome di insetti che si arrotolano su se stessi, segnali di pietra di un antico acquedotto, papaveri spontanei di cui raccolgo un solo esemplare per mostrargli il segno a stella che lascia premuto sulla pelle (e che mi aveva insegnato forse mio padre), ciliegi che spuntano da tronchi quasi avessero sbagliato indirizzo, mucchi di petali che guardiamo accumularsi lungo il fiume e che creano strane forme, il nome esatto delle grate a terra (caditoia, chiusino) che serve saltare altrimenti gli squali ci pappano in un boccone, la sua fissazione per il numero 59.
🪲
Ieri un altro incontro con le scuole per parlare di «Goro Goro» e ammetto di avere una voglia sempre più forte di tornare alla narrativa per ragazzi. Questa deriva fantastica mi chiama e il Giappone con le sue tradizioni che toccano quotidianamente la vita, è una fonte continua di meraviglia.
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