Lo stavi scrivendo per te

In questi ultimi mesi ho ricevuto centinaia di lettere e commenti e messaggi, sconosciuti che mi raccontavano la perdita di una madre, di un padre, di una nonna, di un figlio, di un’amica importante, lo sconvolgimento del paesaggio quotidiano, l’anima che veniva un poco a mancare.

Mi ringraziavano, infine, rendendomi fiera di un’idea se vuoi anche banale, ovvero che esista nel ricordo (che prende per mano l’immaginazione) una possibilità concreta di comunicare con chi non c’è più.
Che è donare la parola, l’amore. Più ancora che riceverlo.
Che non serve per forza una risposta alle nostre domande.
Che serve anzi ricrearla da sé quella risposta. Perché se abbiamo amato abbastanza qualcuno, vuol dire che quel qualcuno lo sapevamo anche un poco a memoria.

E paio ridicola forse, ma per la prima volta nella mia vita rileggo un libro che ho scritto – anche se a pezzi, perché di seguito io non riesco a rileggermi se non mentre scrivo – e cerco lo stesso conforto che quelle centinaia di persone mi hanno detto di aver trovato nelle pagine di Quel che affidiamo al vento. Cerco mio padre.

Quanto ironica può essere la vita – mi dico infine. Vedi Laura? Questo libro, in fondo, non lo sapevi, ma lo stavi scrivendo anche per te. Per tenerti per mano più avanti, quando fosse arrivato questo momento.

E mi faccio persino un po’ tenerezza.

Per un po’ non ne parlerò, ma tenevo a ringraziarvi dei pensieri e della delicatezza in queste ultime settimane.

Il silenzio è effettivamente la forma migliore di vicinanza secondo me. Grazie di cuore.

Quarantena che finisce

Il Giappone esce dall’emergenza.

Ieri sera è stato dichiarato lo scioglimento delle misure restrittive e tuttavia, prima che si ritorni completamente alla normalità, ci vorrà del tempo.

Ma è la gioia di sapere che un primo passo è stato fatto, che la vita costruita a fatica per anni, sta per tornare, anzi torna.
E insieme il dispiacere di cercare gli orari di apertura di due dei miei caffè preferiti dove andavo a scrivere ogni giorno prima dell’emergenza e scoprire che non riapriranno.

Sono sette giorni da quando mio padre non c’è più in questo mondo. Secondo la religione buddhista, di cui è impregnato questo luogo specialein cui vivo, il settimo giorno è un giorno importante per la preghiera.
E io so che è avvenuto un trasloco in questi giorni di grande dolore. Papà è altrove, stretto stretto dentro il mio cuore.

E qui una fotografia postata, in fondo, solo per manifestare la gioia di essere al mondo, nonostante tutto. Perchè quell’uomo alto a sinistra, che è Ryosuke, è la mia casa, ovunque. E quel piccino da basso che non la smette un attimo di parlare è Sosuke ed è colui che mi ha reso madre, e l’altro, appeso al corpo del padre, è Emilio e lui non fa che ridere, dire cose assurde e stringere forte le cose e le persone tra le sue manine, proprio come faceva mio padre.

Che questa lunga, lunghissima quarantena che finisce, sia il preludio di un nuovo sbocciare nel mondo. Perchè, come diceva quella splendida monaca giapponese di cui ho parlato tante volte:

“Dove sei stato posato, fiorisci”.

L’ora-portale  

Alle 11:11:11 si apre un portale. Alle 4.44.44 della mattina qualcosa si muove.

La mente si sveglia.

C’è in ogni ora un’ora segreta. Anzi, un secondo. Un punto precisissimo di consapevolezza. Lì dove la luce cade diritta e non sbaglia. È il puntino rosso del cecchino che mira, con quella luce che vede solo lui e pure tu, che sei davanti allo schermo al cinema e stai col fiato sospeso per una cosa che, davvero, neppure c’è. Eppure, dalla tua poltrona, immagini tutto il resto della vita che non va sotto il bisturi del chirurgo, che non viene ripresa, e che invece accade davvero. Qualcuno, nel mondo, in questo momento spara. Qualcuno cade ammazzato.

Ma lì, nella circonferenza imperfetta di quel puntino di luce ecco che l’ora si apre. 22.22.22. 13.13.13. Si sventra solo per te. No, solo per me.

Lì dove l’ora è uguale. Cinque cinque cinque. Tre tre tre tre tre tre.

Forse è l’attesa che mi tranquillizza, l’idea che io sia consapevole del tempo che passa. Almeno in quella minuscola finestra. E che poi, così come sono rimasta concentratissima nell’avvertirne l’istante di sosta, io lo lasci andar via.

Come stai

E’ la frase più banale al mondo, anche vuota se vuoi. Perchè spesso è incorporata al saluto.
Ciao + “Come stai?”

La insegno ai miei studenti. Perchè sappiano incontrare l’altro nella conversazione.

Perchè il “come stai?” apre una fessura tra il me e il te, è lì che ogni volta si inizia.
Spiego loro che “bene”, come risposta”, spesso non significa nulla. O copre nella neutralità anche una bugia.Serve a fermare l’altro, perchè non domandi di più.

Ebbene, da oggi – e non so per quanto tempo dal giorno che è ancora oggi in Italia – questa domanda è bandita.
Non me lo si chieda. Come stai?
Non lo voglio sentire come sto. Non lo voglio sapere io come sto.

Quel che resta della mia famiglia, cinque amici e basta potranno farmi questa domanda. Nessun altro me lo chieda.
Non lo voglio sapere.

Sì, mio papà non c’è più.

#DiarioDalGiappone n. me (19)

“C’è una tecnica bellissima nell’arte della ceramica giapponese che si chiama kintsugi 金継ぎ /kintsugi/, l’oro金 kin che si fa colare nelle 継ぎ目 tsugime ovvero le saldature di un oggetto che ha subìto un qualche incidente.

È una ciotola che cade, si frantuma e mostra così la natura parziale di tutte le cose, che spiega come in verità il mondo sia fatto di pezzi, grandi o piccoli, e come stia a noi ricompattarli nel modo più indolore. Sono stoviglie spaccate, sbreccate, rinsaldate con la lacca e i cui punti di rottura vengono riempiti e decorati con l’oro, l’argento, con l’oro bianco, con la lacca di vari colori.

Kintsugi è una tecnica nata in Giappone e, nella stessa definizione del termine, si racconta in questa lingua l’attesa trepidante e gioiosa nel vedere cosa verrà fuori dalla riparazione.
La felicità rappresa nell’errore. ”

In Giappone si discute tanto sui media in queste ore, di come la gente affronti psicologicamente questo periodo speciale. Io stessa me lo domando.

Credo serva ammettere in primo luogo di non essere in grado, alzare la mano. Scusi, cosa significa questo? Non è che puoi darmi una mano?

Quando non si sa, per sapere serve domandare, farsi aiutare.
È tuttavia è importante selezionare bene l’aiuto, perché non c’è autogol peggiore di quello fatto da un giocatore che ritenevi sicuro. È come tenere all’ingresso stampelle difettose, che poi ti fidi e quelle ti fanno precipitare. Meglio la gamba guasta, a quel punto.

Suono drastica quando mi sento fragile, persino infantile. Ma accade quando perdo la fiducia nell’altro, quando credo che il dialogo non abbia più potere. Che spiegare non serva più a nulla.

E allora torno alla semplicità, ma senza dispiacere. Mi sembra quasi assurdo, che capiti a me che di solito sento tutto al quadrato. Ma torno invece leggera, ritorno alle cose sicure, a quelle che ho scelto in un tempo in cui ero lucida. Mi fido più di quella me pre-quarantena che di quella che nella quarantena è ancora dentro, inzuppata.

Chissà se capita anche ad altri…

Perché la quarantena è una condizione talmente strana. Ti appiccica a cose e persone cui normalmente non ti saresti mai appiccicato così. Come nuove piccole dipendenze, cioccolatini, sport, vicinanze.

E certe volte sono occasioni meravigliose. Altre volte sono sbagli, semplicemente. E senti d’esserti donata per errore.
Ma accade.
Serve comunque, dentro o fuori dalla quarantena, usarsi clemenza.

Che siamo creature piene di crepe.

 

***fotografia di 現代金継ぎ