見守る o del proteggere guardando
Nevica a Tokyo, a Kamakura lo fa per un’ora soltanto.
Così almeno pare, guardando oltre le ampie vetrate del soggiorno, da quelle della mia stanza da letto, dove grossi fiocchi scivolano da una parte all’altra della finestra, in una diagonale che non suggerisce nient’altro che il suo formarsi e cadere. Più giù, sulla strada, sarà subito sciolta.
Poi ecco un giorno in cui le temperature s’alzano fino a 19 gradi. Un altro, una settimana dopo soltanto, in cui calano all’improvviso e così io mi prendo l’ennesimo malanno, a dimostrazione d’un corpo che curo poco e che è ancora concentrato a nutrirne un terzo. Il meglio, va a lui.
I bambini spalancano libri sui blocchi di gomma, Sousuke impara le lettere, le cerca nelle pagine scritte. Diventano come tatami, coloratissime pagine che parlano insieme due lingue, in intervalli di pochi centimetri di distanza. Come si alleva un bilingue? Leggo, apprendo un mucchio di strategie, di nomi, eppure mi chiedo come si faccia a far collimare la teoria generale alla pratica tutta singolare di mio figlio, nello specifico della nostra famiglia, degli orari che ci vedono insieme in soggiorno.
So che i cuori di questi bambini hanno bisogno di due lingue. Di due sistemi diversi. E cerco di nutrire la parte di cui mi spetta la supervisione, al massimo delle mie capacità.
Poi torno sola con Ryōsuke, e si torna al giapponese che è la lingua che ci ha fatto innamorare.
«Bella la parola 流転» mormoro attenta. È lo scorrere della vita, lo scorrere in generale, il torcersi, nella traduzione che ne fa “le vicende, le vicissitudini, la mutevolezza”. La trovo anche nel greco panta rhei di Eraclito, suonando così: manbutsu wa ruuten suru 万物は流転する.
Tutte le cose del mondo sono destinate a mutare di posizione. Emigra l’anima, in fondo, perché non dovrebbe farlo il corpo?
«E questa parola? Non è stupenda?»
È 音頭 ovvero “ballata”, che usa i kanji di suono e di capo. Come una musica che non si leva dalla testa. Qualcosa che risuona nel cranio e pulsa da lì, altrove. In ogni cantuccio che pensa.
«Tutto è intraducibile eppure tutto viene tradotto. Ogni cosa fraintesa è come una cosa capita due volte.»
Così le parole straniere, che tiriamo a noi per cercare di garantircene la comprensione, e le mettiamo mano per mano con altre che sono nella nostra lingua madre e che, come a una festa in cui vogliamo tutti siano a proprio agio e diventino amici, abbiniamo a termini che ci pare gli somiglino un poco.
Mario, ingegnere, potrebbe andar d’accordo con Takeshi, anche lui ingegnere. Nella maniera in cui kokoro stringe nel palmo “mente” e “cuore”, benchè le parole siano raddoppiate.
Amo da sempre il verbo 見守る mimamoru. Il dizionario lo traduce come “guardare con attenzione”, ma è molto di più. Basta scomporlo, perchè in esso miru 見る è “guardare/ vedere” e mamoru 守 è “proteggere”.
Mi riassume insieme la resa e l’amore, perché capitano innumerevoli occasioni nella vita in cui non si può far altro che guardare una schiena che sparisce all’orizzonte. Lo trovo usato sia in circostanze piccine, in cui si augura magari una partenza sicura vero la stazione, un pezzo di strada fino all’ingresso di scuola, sia in congiunture di enorme portata, il viaggio in barella dalla stanza d’ospedale alla sala operatoria, momenti più in generale in cui è necessario prendere in mano la vita e rischiare di farsi anche molto male.
Quando non si può fare nulla, è allora come un vegliare. Guardare (miru 見る) del resto è in giapponese un occhio con le zampe, proteggere (mamoru 守る) ha un tetto sulle spalle.
Lo ripeto: amo profondamente questo verbo attaccato a un discorsare comune, che elargisce quello stesso affetto, quella stessa attenzione per il prossimo che avverto costante nella vita quotidiana giapponese.
Le donne alla cassa del mercato in cui vado a fare la spesa che mi regalano fiori, quella signora che tira fuori dalla tasca una caramella quando mi vede stanca, al caffè la commessa che mi domanda del prossimo libro che esce. O, in terza persona, le madri che salutano dalla soglia i figli armati di cartellai, altre che ne scortano i passi fino allo scuolabus.
Mimamoru evoca in me il fazzoletto sventolato dai treni e dalle banchine alla stazione nel secolo precedente, quello sguardo che cala dalla montagna per chi si appresa alla discesa o alla scalata, l’augurio sentito d’un oltre, di un dopo che scavalca la nostra giurisdizione.
Mi piace soprattutto pensare che anche le azioni di un altro, di cui per forza di cose ci arriva solo un’immagine differita, come una eco, siano importanti per noi.
Seguire quel qualcuno, guardarlo con la dovuto attenzione. Augurargli il meglio.
Come, allargando, il manifestare il fatto che teniamo a quella vita, che vogliamo stia bene, al di là di noi.