L’io che cresce in mezzo al noi o dell’individualismo giapponese
I treni sono la seconda casa dei tokyoti.
La fila ne precede l’ingresso, paiono tutti in una attesa apparentemente disinvolta eppure tesa, cosciente; sono ordinati nel segnalare la propria presenza, disciplinati nell’attendere che le portiere si spalanchino e diano inizio alla corsa. Perché nel salire, in quel momento soltanto, avviene la metamorfosi che dura giusto due, tre secondi, quelli necessari a prendere posto, districandosi nella giungla delle altre intenzioni, nella traiettoria dei passi altrui.
Tutti immobili e calmi un attimo prima, ritti in prossimità del convoglio in arrivo sulla banchina, poi aggressivi nello scatto e nell’occupazione del posto, e nel momento successivo ancora, quasi a chiudere il cerchio, ecco la tranquillità ritrovata, l’indifferenza dolente di chi chiude subito gli occhi nella posa del sonno se, nella corsa, ci si rende consapevoli di aver sottratto il posto a un altro che mirava allo stesso sedile, quello stesso che, sconfitto pur senza malevolenza, consapevole in fondo che è una questione di pura casualità, gli sta ora in piedi davanti. Altri, in cui è l’emozione di imbarazzo a prevalere, cedono invece il posto nell’istante in cui, entrambi in prossimità del posto vacante, si accorgono che l’altro sta per sedersi. Basterebbe un ennesimo scatto, ma il disagio ha la meglio, e si preferisce cercarne uno ulteriore che, probabilmente, non si troverà.
Quel che il mondo ignora, e che invece il Giappone sa bene di sé, è che l’individualismo è un concetto che si accorda benissimo a quello di comunità. Per pensare a sé, al proprio singolare benessere, bisogna essere previdenti, serve costruire e decorare tutta una casa, non solo un angolo brillante ma angusto di una stanza.
È proprio a frequentare i treni della mattina, quelli che partono nella fascia oraria interessata dal transito dei pendolari, che si comprendono meccanismi profondi della società giapponese, l’equilibrio ad esempio che c’è tra individualismo e spirito comunitario, le strategie con cui si fa scattare l’indifferenza, elemento di difesa imprescindibile in una società che fa dell’omoiyari 「思いやり」ovvero del “pensiero per l’altro” un concetto fondante.
Nata e cresciuta in Occidente, mi sento d’esser maturata tuttavia in Oriente, in quello specifico del Giappone che mi tiene per mano da tredici anni. Ho sempre pensato che la libertà sia il principio fondamentale dell’uomo, che è inseguendo la propria personale felicità che ci si realizza. Eppure qui ho scoperto che la gioia, quella duratura, la fa soprattutto l’ambiente in cui si vive, la comunità sconosciuta che ci accoglie.
È la pulizia delle strade, il sorriso che si presenta ovunque, il garbo del contatto, la bellezza di una città curata, l’esattezza dei mezzi, il fatto che – esclusi casi eccezionali – non esiste nervosismo originato da terzi, da sconosciuti che collidono nelle nostre vite e ci impongono la loro individualità. Siamo troppi in questo mondo, e vivere tanto vicini deve necessariamente spingere a rivalutare il concetto di individualismo a tutti i costi.
Meglio scendere a patti con la soddisfazione del momento, con il cedere il passo, l’evitare di sbuffare se qualcuno inavvertitamente ci urta, arrivare in tempo al lavoro così da rassicurare personale e studenti, non chiedere sconti ma confidare nella giustizia di un prezzo, raccogliere una cartaccia anche se non siamo stati noi a farla cadere.
Solo così, nell’edificazione di una gioia generale, si può sperare di vivere bene.
Ci ho messo un mucchio di anni a capirlo, a smettere di considerare “bello ma poco condivisibile” il modo giapponese di considerare il tutti prima del sé, quasi a provare una tenerezza di distacco nel loro garbo che mi pareva francamente eccessivo, quasi naïve. L’io occidentale è enorme, e si considera “poverino” chi non pensa prima a sé. Ma è poverino davvero? Si è veramente felici a mettere sempre l’io prima del loro?
Non sono la persona più importante a questo mondo. Non lo sono neppure le persone che amo. E per nessuno è giusto schiacciare il benessere altrui. Se lo farò, avrò magari la soddisfazione di un momento, condannandomi a vivere tuttavia in un mondo di prede.
È il compromesso tra l’io e il loro, tra il noi e il voi, che invece funziona e crea un ambiente dove la gioia, davvero, può esser piantata. Su terreno cattivo – fatto di sporcizia, sgarbo, egoismo e maleducazione – si può poggiare pure una piccola serenità. Ma è quasi certo che non attecchirà, disturbata come sarà dall’infelicità altrui, dalle vendette che origina il malcontento.
Posso anche arrivare prima superando una fila, facendo la furba, ma poi cosa ne resta? La prossima volta sarà qualcun altro a farlo al posto mio, e la mia, di serenità svanirà.
Individualismo allora è cercare la propria felicità, ricordando come questa sia fragilissima se non condivisa da altri. Serve sia un progetto di tanti, solo così è destinata a germogliare e a farsi rigogliosa.
°Estratto rielaborato da Wa, La via giapponese all’armonia, Vallardi, 2018