“Strano”
Propongo un post come un altro, per mostrare uno degli aspetti di diversità che caratterizzano agli occhi esterni il Giappone, come faccio da anni. Scorro i commenti , in un ritaglio piccino di tempo prima di coricarmi, per rispetto a chi frequenta questo spazio e che forse nel lasciare una traccia scritta desidera esprimere un’opinione che venga a sua volta letta.
Ed ecco comparirmi sotto gli occhi la frase per eccellenza, quella che incontro talvolta tra le righe sottili di volti che non conosco, tra nomi che dimentico con rapidità, quella che più mi impensierisce ma in cui, per un qualche miracolo dovuto forse al buon clima che si respira in questo ritaglio di rete, ultimamente non mi imbattevo e che, più o meno, recita così: “è risaputo che i nipponici sono strani / tutti lo sanno che i giapponesi sono strani / i giapponesi sono famosi per essere strani”.
Al di là dell’opinione, che rimane a discrezione personale e cui non replico non per mancanza di argomenti ma per eccesso degli stessi (vorrei sempre evitare d’essere prolissa), faccio fatica a tollerare questo abuso di ignoranza.
Immagino un giorno mio figlio un po’ più grande in Italia essere guardato con sospetto da altri bambini istruiti al più triste eurocentrismo (nei casi peggiori persino “italocentrismo”) che fa loro percepire quel che è diverso come “strano”, colorando sùbito di ridicolo o negativo ciò che non conoscono e che pertanto non comprendono immediatamente.
“Ecco il giapponese, quello che viene dal paese strano” “Ecco il cinese (sono uguali, no?)” o magari allungando gli occhi con la punta delle dita ai lati per mimarne la fisicità.
“Strano” è un aggettivo che denigra e che decenni di studi in campo antropologico e sociale, avanzamenti nel campo del sapere, che correnti di critica letteraria come quella post-colonialista hanno evidenziato come risultato di un pensiero tutto concentrato sul proprio ombelico culturale, su un razzismo di fondo che ha accecato di superbia l’Occidente.
Usare la parola “strano” nell’elaborare ed esprimere un’opinione su una cultura altra, non solo blocca in origine il pensiero (ciò che è strano è strano e basta e non richiede ulteriore approfondimento, sarà comunque indecifrabile) ma svela di quella persona ignoranza e superficialità, due caratteristiche fin troppo diffuse tra la gente e che, se si vuole fare un passo avanti nel campo dell’integrazione e del profilo culturale e umano di un paese, serve assolutamente debellare.
Integrare è arricchimento. Cercare di capire incrementa intelligenza.
Dire “strano” non fa male, non schiaffeggia: “senza offesa eh!” si giustifica chi lo usa quando l’altro si ribella.
Eppure c’è l’offesa e c’è il pericolo che si diffonda come un virus. Bisogna badare alle parole, ci rappresentano una ad una.
Dite “brutto”, dite “bello”, argomentate il vostro punto di vista e in questa ricerca magari documentatevi a fondo, restituendo al contatto con la rete il suo scopo ideale, quello di conoscere e sapere. Prendetevi la responsabilità di raccontare un’esperienza positiva o negativa, di esser ripresi nel generalizzare, di svelare un pregiudizio, di prender coscienza di quanta ragione o torto abbiate.
E quando non siete sicuri, come saggezza da sempre esorta, tacete.
E la stranezza lasciatela alle fiabe. Alle sensazioni che non hanno nome, alla percezione imprecisa di quanto si sta vivendo.
E allora sì che “strano” torna ad aggiungere qualcosa.