Della caccia alle foglie e del ritorno degli dei
Ecco che a Tokyo cala infine il freddo, come una presenza che scende a valle dalle montagne e modifica il paesaggio. Scenari di maniche lunghe e di cappotti, fiorire di sciarpe strette al collo e agitate nei suoi estremi come lingue al vento, brulicare di guanti che a breve inizieranno a cadere per le strade come semi, dimenticanze di chi va troppo di fretta e lascia dietro il calco delle proprie mani.
In bicicletta i bimbi s’avvolgono in più strati e i volti, piano piano, si faranno semplici fessure nel pieno della stoffa. Sui volti in treno le mascherine coprono le bocche, vi si nascondono dietro liceali, giovani donne che non hanno avuto tempo di truccarsi.
Precipita il freddo e cala come un pennello su tutte le città. Le foglie dei momiji, che tanto assomigliano a manine affilate di neonato, s’arrossano di colpo. Ma quanto è bello l’autunno giapponese!
Cricchiano le foglie sotto ai piedi e la tentazione di saltarvi su, come nell’infanzia, per farle “suonare” si fa protagonista.
Novembre in Giappone è il mese dei bimbi che crescono, dei tre, dei cinque e dei sette anni. Shichi-go-san e altre chiazze di colore per le strade. Sono i kimono sgargianti nei santuari, lo sguardo che, per vedere, ha bisogno di abbassarsi. La bellezza sboccia dalla terra, che siano arbusti o piedi di bambino, nulla cambia.
Nel Periodo Nara ed Heian le famiglie dell’aristocrazia, come per i ciliegi in primavera, si riunivano sotto il tramonto giallo, rosso e arancio dell’autunno, banchettavano e, al ritmo di 5 o 7 sillabe, scrivevano componimenti waka 「和歌」.
Dal Periodo Edo tutti già andavano a “caccia” di momiji. Perchè come per la celebrata e rosea primavera c’è lo hanami 「花見」, così per l’autunno c’è il momiji kari 「もみじ狩り」 che è letteralmente il “cacciare”, l’ammirare le foglie rosse dell’autunno.
Foglie in dono, se ne fanno segnalibri, le si frigge nella farina e se ne fa tempura di colore rosso vivo, le si infila tra pagine di libri destinandole all’attesa e alla gioia di sorprendere, d’un rosso già più adulto, chi aprirà per caso un giorno quelle pagine.
C’è il kouyou 「紅葉」 che sembra uno ma nel kanji sono due. Kouyou 「紅葉」quando è rosso cremisi (e il pigmento che tramuta il verde è l’anthocyan), kouyou 「黄葉」 quando il colore che domina è il giallo (e il salto è favorito dal carotenoid).
Quando si ama qualcuno lo si accetta, e nell’accettarlo lo si approfondisce, si notano efelidi nascoste tra le imperfezioni della pelle, quel modo particolare di arricciare il labbro superiore, il tono animato della voce quando sta per salire vento di burrasca.
Accade anche con la conoscenza delle cose, lo scandagliare delle passioni. Così, in tutto questo fogliame che si sparge generoso prima in cielo e poi in terra, basta un po’ di interesse per distinguere nel rosso forme e sfumature differenti, separare lo Iroha-momiji dal Yama-momiji e dal Oo-momiji, il Nanakamado, Hazenoki dal Shitaurushi; nel giallo l’Ichou (che è anche simbolo di Tokyo) dalle foglie di Mizuki, di Mansaku e Tochinoki (vedi illustrazione).
Ma novembre è anche il mese che vede il ritorno a casa degli dei. Perchè secondo l’antico calendario in Giappone a ottobre tutte le deità si recano a Shimane al Santuario di Izumo-taisha, una immensa riunione annuale che li vede insieme, in un confronto che anche gli uomini dovrebbero sempre rinnovare. È il kami-okuri 「神おくり」. E il primo di novembre tornano a casa, nel santuario dove sono amati e celebrati tutto l’anno. È il kami-mukae 「神むかえ」.
E allora si preparono mochi, un tipo particolare di riso. Ma soprattutto si dice, benvenuti.
Bentornati a casa!
お帰りなさい /okaerinasai/