Essere in due
La domenica mattina si spargono voci per la casa. Le finestre restano aperte e la Gigia risponde all’abbaio nervoso di qualche cane del vicinato. Ryosuke accende la radio, io mi perdo in racconti di scrittori e di letteratura. È un rituale che risale degli anni la corrente, quattro ormai. Registra il mio programma preferito perchè io poi lo possa ascoltare e riascoltare sull’iPod, quando l’incastro sempre più definito degli orari lo permetta.
Vi scopro autori giapponesi e autori occidentali, libri per l’infanzia tradotti in giapponese ma non in italiano, favole che mi erano del tutto sconosciute. E ogni volta mi fermo a pensare a quanto un accordo tra editori o l’iniziativa di un traduttore (imbattutosi per caso in una piacevole lettura) siano in grado di influenzare l’immaginario di un bambino e di un popolo tutto che nei classici dell’infanzia – non solo nazionali ma anche stranieri – affonda le radici.
Ma prima che inizi il programma, che questa domenica cominci a parlare ad alta voce, mi siedo al computer di Ryosuke e mentre divago tra i fili della rete ascolto per caso la trasmissione che vien prima. Chiacchiere leggere della speaker che risponde alle lettere degli ascoltatori, chiacchiere da domenica mattina, di quel giorno di confine che separa la fine del riposo dall’inizio del lavoro.
Si parla del rimandare, del mandare ancora e ancora avanti impegni, cose che pesano ma che si devono fare.
“Adesso non mi va, non me la sento”
“Magari dopo”
“Magari proprio mai”
“Ci rinuncio, non fa niente”
“Dovrei ma non ne ho voglia”Si allontana naturalmente lo sforzo, si procrastina il fastidio, il dovere che – quando si è stanchi o sfiduciati – sembra vano. È la fragilità dell’equilibrio tra ciò che si deve e ciò che si vuole fare che ci trova quasi sempre impreparati nel giudizio. Cosa è davvero necessario? Cosa ci si può invece risparmiare?
Poi si sbaglia, un po’ si inciampa e nel risparmio del momento, nel dirsi machissenefrega, nonfanullasenonlofaccio, sonotroppostancoorano si rischia invece di indebitarsi. Sì, di indebitarsi con se stessi o, meglio, con quelli che saremo. Perchè domani, tra un mese o anche tra qualche anno, saremo altre persone.
Quando si è stanchi, ci si promette clemenza nel futuro, per quelli che saremo diventati. E invece poi ci si scopre spietati, punitivi.
Per quel chilo in più sulla bilancia, per quell’impegno non mantenuto e la mole di lavoro non sbrigato; per quel sentimento non riuscito, per quell’esame non dato, per quel no che non siamo riusciti a dire, per quel sì che è rimasto a fior di labbra, anche per quella cosa bella cui abbiamo creduto di poter rinunciare e che invece dopo ha lasciato acuta l’amarezza. Per tutti i piccoli fallimenti della vita ci si odia, ci si accusa, ci si fa del male.
E si scende nella scala della propria stima. Per non aver salito quell’unico gradino.
Per non aver rinunciato al dolce, per non essersi messi sui libri quando il tempo era ancora dalla nostra, per aver scelto di evitare una discussione o di non farlo, per aver preferito la strada più facile e sbagliata.
Allora diventa un po’ come architettare un regalo di compleanno per qualcuno, un amico, un familiare, una persona che ci è cara. Per il sè di quel giorno di celebrazione lavorare, fare il bucato, mettersi a studiare, rinunciare ad un piacere breve ed immediato, reprimere un attacco di rabbia, fermarsi prima di dire l’irreparabile, lavarsi i denti e struccarsi nonostante il sonno, portare a termine minuti traguardi quotidiani. Per rendere felice il sè di quel giorno che sarà.
Per rendere sicura la persona che saremo il giorno che andremo a sostenere una prova, quella che vuole entrare nell’abito da sposa o magari solamente in quei pantaloni che ama tanto ma che le stanno pelo pelo, che vuole guardarsi allo specchio e sentirsi bella, quella che voleva imparare una lingua complicata come il giapponese e affronta kanji, particelle e frustrazioni e quel giorno che alzerà gli occhi e ne riconoscerà uno, che saprà dire esattamente quello che vuole dire in quella lingua, sarà infine fiera.
La felicità si costruisce passo passo. Non la si gode quasi mai immediatamente. Bisogna essere lungimiranti, mirare lontano e saper immaginare la persona che saremo e che, della fatica che oggi accumuliamo, raccoglierà succosi i frutti.
Ma perchè è così difficile fare le cose per se stessi?
È che non ci si vuole mai abbastanza bene.
È che per farsi del bene serve l’altruismo. Letteralmente. Ovvero vedere in sè dell’altro. Un altro.
Guardarlo da fuori e capire infine quanto meriti la gioia.
「利他主義」 /ritashugi/ l’altruismo.
「利」 /ri/ di 「利益」 /rieki/ il beneficio, l’interesse e 「他」 /ta/ di 「他人」 /tanin/ l’altro, l’altra persona.
「自分の中の他人」 /jibun no naka no tanin/ “l’altro che è in sè”
E allora sforzarsi di fare quello che non si vuole fare pensando di non essere uno ma due, immaginando la persona che non siamo ora ma che saremo poi, in ogni fase temporale che verrà. Domani, giovedì sera, tra due settimane, un mese, il prossimo anno.
Immaginare di essere tanti sè e cercar di far felice quelli che non siamo adesso, quel sè che arriverà e a cui spetta assolutamente la felicità.